Angelo Del Boca- Italiani, brava gente?-Il generale Cialdini e i fatti di Pontelandolfo e Casalduni

Storiografia

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Lo storico Angelo Del Boca (1925), partigiano durante la Seconda guerra mondiale, è soprattutto un esperto di colonialismo italiano, alla cui conoscenza ha contribuito con una fondamentale opera in quattro volumi, Gli italiani in Africa orientale: in questo saggio ha smitizzato il presunto buonismo che avrebbe distinto l’avventura coloniale italiana da quella delle altre potenze. Sulla stessa scia demistificante, Del Boca ha pubblicato anche Italiani, brava gente? un’aspra controstoria in cui passa in rassegna i cent’anni della nostra vita nazionale: di fatto «una meticolosa ricognizione – come è stato scritto – dei crimini commessi dai nostri connazionali tra il 1861 e il 1946». Ne proponiamo alcune pagine tratte dal capitolo La guerra al “brigantaggio”.

 

 

 


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Il generale Cialdini e i fatti di Pontelandolfo e Casalduni
A. Del Boca
Italiani, brava gente? Biblioteca Neri Pozza, Vicenza, 2009, pp. 55-62.

Tra l’annessione delle regioni del Meridione, culminata con la resa di Gaeta il 15 febbraio 1861, e l’infausta giornata di Custoza (24 giugno 1866), l’Italia appena unificata si trovò a combattere una guerra imprevista, insidiosa, infinita e spietata.
Fu chiamata, sbrigativamente e rozzamente, guerra al brigantaggio.
Ma i briganti, che in quelle regioni esistevano da sempre, costituivano un’infima minoranza, anche se aggressiva e crudele. La maggioranza degli insorti contro lo Stato unitario era formata da almeno 10.000 soldati dell’esercito borbonico, che si erano dati alla macchia dopo la fuga a Roma di Francesco II di Borbone. A questi soldati, delusi e umiliati e per nulla disposti a entrare nell’esercito dei Savoia, si erano uniti migliaia di braccianti senza
terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali.
Fu, come giustamente fa rilevare Mario Isnenghi [storico italiano, n.d.r.] «una guerra senza regole e senza onore». Ma fu anche una guerra di tipo coloniale, che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle poi combattute in Africa. Non fu forse il generale d’armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele». […]
La convinzione, molto diffusa tra i militari e i politici piemontesi, che nel Sud operassero soltanto dei delinquenti come Carmine Donatelli, detto Crocco, Luigi Alonzo, detto Chiavone, […] e centinaia di altri briganti, particolarmente addestrati alla guerriglia, li induceva a considerare il fenomeno del brigantaggio esclusivamente come una questione criminale, per la quale non c’erano altri rimedi che la repressione, immediata e durissima. Possibilmente più spettacolare dell’offesa.
Le esecuzioni dei “briganti”, infatti, avvenivano solitamente nella piazza principale dei paesi dinanzi a folle atterrite. Ma non era sufficiente uccidere, era necessario produrre documenti a futura memoria. Osserva Giulio Bollati [editore ed intellettuale, 1924-1996, n.d.r.]: «I militari solitamente così avari di immagini, rivelano un improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio,
negli anni successivi all’incontro di Teano. Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obiettivo, organizzano messe in scena in cui gli ancora vivi recitano la parte del brigante. Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione». [tratto da L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, 1983, n.d.r.] […]
Il movimento eversivo aveva inizio in Basilicata nell’aprile 1861 e nell’estate si estendeva all’Irpinia, al Sannio, al Molise, all’Abruzzo, alla Puglia, alla Capitanata e alla Terra di Lavoro. Al culmine della rivolta, si contavano, secondo alcune stime, 400 bande per complessivi 80.000 gregari, mentre i paesi coinvolti nei conflitti erano oltre 1400. Le bande, spesso capeggiate da ex militari dell’esercito borbonico, erano in grado di occupare per interi giorni villaggi e cittadine, assassinando o sequestrando le persone che professavano ideali liberali, e ostentando le bianche bandiere dei Borboni. Esse non temevano di scontrarsi con reparti dell’esercito regolare e della Guardia nazionale, ma erano abilissime nello sganciarsi e nel trovare rifugio nei boschi.
Per reprimere questi moti, che ponevano in grosse difficoltà il governo di Torino, […] veniva sostituito il comandante del 6° corpo d’armata, generale Giovanni Durando, con il generale Enrico Cialdini, il conquistatore di Gaeta e forse il militare più famoso dell’esercito piemontese. Subito dopo il cambio, i soldati impiegati nel Sud salivano da 15.000 a 50.000, e più tardi, nel 1863, a 116.000.
Riunendo nelle proprie mani i poteri militari e civili, Cialdini rinunciava alla politica di conciliazione con gli ex borbonici, gestita dal suo predecessore, e anzi non esitava a perseguitarli arrestando o espellendo dal regno aristocratici, ufficiali superiori e ben 71 alti prelati, fra i quali l’arcivescovo di Napoli, cardinale Sisto Riario Sforza. […] Inflessibile con i seguaci dei Borboni, Cialdini rispondeva alle violenze degli insorti con una brutalità inaudita, terrorizzando le popolazioni che davano rifugio ai fuorilegge e spesso incendiando i loro villaggi e le loro masserie, e procedendo infine a fucilazioni senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari.
Gli echi di queste repressioni, enfatizzate dai Borboni, i quali, dal loro rifugio nello Stato Pontificio, fornivano armi (poche, per la verità) agli insorti e un eccellente supporto propagandistico, valicavano i confini del regno suscitando lo sdegno di alcuni governi europei. Il 21 luglio 1861, per esempio, Napoleone III così telegrafava al suo aiutante di Mcampo Emile-Félix Fleury: «Ho fatto scrivere a Roma per fare delle proteste. Le notizie che arrivano sono di tale natura da alienare tutti i cuori onesti dalla causa italiana.
Non soltanto la miseria e l’anarchia sono al loro colmo, ma le più indegne colpe sono all’ordine del giorno. Un generale di cui ho dimenticato il nome, avendo proibito che si andasse a lavorare nei campi con dei viveri, ha fatto fucilare dei contadini sui quali si è trovato alcuni bocconi di pane. I Borboni non hanno mai fatto tanto»
Il presidente del Consiglio Ricasoli si affrettava a diramare a tutti i rappresentanti diplomatici all’estero una lunghissima circolare nella quale tentava, confusamente, di diminuire le responsabilità di Cialdini sostenendo che gli «atti di ferocia» degli insorti meritavano «una repressione proporzionata»; che il brigantaggio non aveva alcuna «indole politica»; e che le notizie false che circolavano erano divulgate da Roma, «in nome degli interessi dinastici del Diritto Divino e in nome del potere temporale del Papa». E con troppa fretta Ricasoli diramava il 3 gennaio 1862 una seconda circolare ai rappresentanti diplomatici all’estero, con la quale annunciava: «Gli ultimi avanzi del brigantaggio, suscitato con oro ed intrighi stranieri, ormai sono distrutti ed alle repressioni concorsero volonterose non solo la Guardia nazionale, ma le stesse popolazioni». Ma Ricasoli si sbagliava. Il peggio doveva ancora venire. La guerra al brigantaggio sarebbe durata sino al 1865 e in qualche regione fino al 1870. Soltanto con la presa di Roma cessò del tutto.
Tra i mille e più attacchi che le truppe dell’esercito regolare hanno condotto nel corso della guerra al brigantaggio nessuno eguaglia, per ferocia e numero delle vittime, quello portato a termine con manifesta premeditazione il 14 agosto 1861 contro le popolazioni di due grossi paesi campani, Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento.
Sull’episodio disponiamo di due importanti fonti: i ricordi del maggiore dei bersaglieri Carlo Melegari, che partecipò con una colonna alla strage, e la paziente ricostruzione degli avvenimenti compiuta dallo storico Gigi Di Fiore.
Qualche giorno prima che si verificasse la forsennata rappresaglia, l’ex caporale dei carabinieri a cavallo dell’esercito borbonico, Cosimo Giordano, che capeggiava una banda di 400 uomini, composta da soldati che avevano servito re Francesco II, da molti renitenti alla leva e da contadini che avevano inutilmente sperato che Garibaldi distribuisse loro le terre comunali demaniali, decideva di occupare stabilmente le località di Pontelandolfo e di Casalduni per mostrare alla gente del Sannio e del Matese e agli invasori piemontesi la sua potenza e la sua indiscussa autorità.
Informato dell’accaduto, il tenente colonnello Pier Eleonoro Negri incaricava il tenente Augusto Bracci di recarsi con tre plotoni di fanteria nelle località occupate dagli insorti, evitando tuttavia ogni scontro e limitandosi a prendere posizione. Il tenente Bracci, però, non rispettava gli ordini ed entrava in Pontelandolfo, che credeva sgombra. Ma non era così.
Accerchiati dagli uomini di Cosimo Giordano, dapprincipio i soldati cercavano rifugio in un’antica torre medievale, poi tentavano una sortita, ma venivano tutti massacrati.
La notizia dello scontro, che aveva causato la morte di un ufficiale e di 44 soldati del 360 reggimento di fanteria, poneva subito in agitazione gli alti comandi di Napoli. Il generale Carlo Piola Caselli convocava il maggiore Melegari e così l’apostrofava: “Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra. […] Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo».
Poiché anche il tenente colonnello Negri aveva ricevuto gli stessi ordini, l’indomani mattina Negri e Melegari partivano alla volta del Sannio alla testa di 900 bersaglieri del XVIII battaglione, tutti di provenienza del disciolto esercito toscano.
All’alba del 14 agosto, mentre il tenente colonnello Negri entrava con 500 soldati in Pontelandolfo, non prima di aver perso in una imboscata 25 uomini, il maggiore Melegari, al comando di 400 bersaglieri, investiva Casalduni senza però incontrare resistenza.
«Chiamati a me gli ufficiali delle tre compagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del sindaco» racconta Melegari, «ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a cominciare
da quella del sindaco. In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese». […]
Il tenente colonnello Negri raggiungeva il primo telegrafo disponibile, quello di Fragneto Monforte, e inviava a Cialdini questo dispaccio: “Giovedì, 15 agosto 1861. Ieri, all’alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora».
Il bilancio della strage non è mai stato fatto.
«Il Popolo d’Italia» riportava la cifra di 164 morti, ma essa è molto al di sotto di quella reale, che è sicuramente di alcune centinaia di uccisi e di bruciati vivi. Eppure i due artefici delle stragi non avevano un passato di
soldati spietati. Negri, in seguito, fu promosso maggior generale e comandò le divisioni di Ancona e Piacenza. Melegari, che era stato con Cialdini in Crimea, raggiunse i più alti gradi dell’esercito. Anche i bersaglieri toscani, che per un’intera mattinata avevano incendiato case, assassinato inermi contadini, stuprato e rapinato, non erano, che si sappia, dei malvagi. E probabilmente nessuno di essi avvertì il peso dei delitti che aveva commesso. Ufficiali e soldati avevano ubbidito agli ordini prodigandosi con enorme zelo, persuasi di aver agito nel bene della patria e di aver legittimamente punito briganti che non avevano nulla di umano. E poiché non ci fu alcun processo per quelle stragi, essi non ebbero neppure il fastidio di trincerarsi dietro gli ordini superiori, così come avrebbero fatto, ottant’anni dopo, i responsabili degli eccidi di Oradour, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto [si tratta di villaggi – il primo è francese, gli altri due italiani– dove nel 1944 le truppe tedesche furono protagoniste di stragi durante il corso della Seconda guerra mondiale, n.d.r.].