Il brigantaggio meridionale: una storia inedita dell’unità d’Italia

Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da:L’ U n i t à / venerdì 12 dicembre 1969

titolo giornale

Il brigantaggio meridionale: una storia inedita dell’unità d’Italia

“Abbiamo ucciso 7,000 briganti”

 La strage era avvenuta, precisò il generale La Marmora davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta, tra il maggio del 1861 e il febbraio 1863. Le testimoniane in un libro di Aledo De Jaco.

ritaglio pagina

Dal mese i Maggio 1861 al febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilalo 7000 briganti. Non so niente altro, non posso dire niente altro »

Con queste parole, il generale La Marmora depose nel maggio 1864 davanti alla Commissione di inchiesta parlamentare sul brigantaggio

Una voce, una testimonianza fra le tanto che Aldo De laco ha raccolto nel volume “Il brigantaggio meridionale Storia inedita dell’Unita d’Italia” uscito in questi giorni in una elegante vveste tipografica per gli Editori Riuniti <pagg 340)l. 6000)

L’opera —come spiega nella ricca e documentata introduzione lo stesso autore — vuole salvare, mettere in luce e presaentare nella loro autenticità testi di diversa origine che composti insieme, forniscano un mosaico veritiero del tragico periodo del brigantaggio di massa nel Mezzogiorno »

Un tragico periodo, un tragico fenomeno che si sviluppò contemporaneamente alla formazione dello Stato Italiano e che vide le masse contadine impegnate, strumentalizzate dalle forze reazionarie, in una disperata guerra, che ebbe momenti di violenza indiscriminata con massacri, carneficine, lorte, stupri, da ambo le parti, e che, soprattutto determinò da parte piemontese misure repressive «con eccessi ìnescusabili », violenza, eccidi in massa Così Gramsci nel ’20 scriverà:
“Lo stato italiano ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole. crogefiggendo, squartando, seppellendo tutti i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare con il marchio di briganti ”

Le cause oggettive del fenomeno brigantaggio, del suo essere al fondo un durissimo, spontaneo, quanto impotente scontro di classe furono le scelte economiche e politiche dell’appena sorto Stato Italiano.
Alla smobilitazione dell’esercito borbonico e di quello volontario — che aveva creato una massa di sbandati (oltre 100 000 uomini) senza prospettiva di inserimento, — corrispose l’incapacità strutturale del nuovo Stato piemontese di assorbire questa massa di disoccupati. Allo spezzottamento della manomorta ecclesiastica corrispose lo sviluppo di una agricoltura a carattere « capitalistico » affidata a proprietari provenienti dalla piccola borghesia cittadina.
Al controllo continuo del “nuovo” padrone, all’intenso sfruttamento si aggiunse la volontà politica di far ricadere sulle spalle delle masse contadine la maggior parte degli aumentati carichi fiscali (legge sul macinato), “Il governo costituzionale è in sostanza — scriverà nel 1875 Pasquale Villari in lettera meridionali al direttore dell’Opinione un’acuta analisi sul

brigantaggio e sulle responsabilità politiche del fenomeno — il governo della borghesia la classe dei proprietari, in mancanza d’altro divenne la classe governante e i municipi,le province, le opere pie, la polizia rurale furono nelle sue mani”

Dalla lettura dei documenti delle testimonianze dirette che il volume raccoglie, risalta con vigore la coscienza che del fenomeno-brigantaggio come fenomeno sociale ebbero ì suoi stessi interpreti dagli uomini politici più intelligenti (Miceli, alla Camera dei deputati nella seduta del 18 aprile 1863 intervenendo contro le violenze commesse dai colonnello Fumel che si vantava di aver fatto fucilare 800 briganti in Calabria, disse “Nel Mezzogiorno tutti quelli che hanno un cappotto vogliono trucidare quelli che non lo hanno” ai numerosi ufficiali dell’esercito piemontese non sempre contenti di essere “trasformati in sbirri” (così il tenente Negri in una lettera al padre o il tenente Enea Pasolini che scrisse sempre al padre ” Il  brigantaggio ha il suo princip:o nella diseguaglianza czorrne della posizione sociale») agli stessi briganti:

E lo stesso Carmine Donatelli Crocco una delle figure di maggior risalto del brigantaggio già umile pastore dai briganti promosso generale dorpo lotte di sangue e di terrore scontò in galera lo già fatto male) che nell’autobiografia scritta, durante i suoi 40anni di segregazione, dice “in generale la pleba fu spesso dt potente ausilio in tutte le nostre imprese Cotesto aiuto, quasi sempre spontaneo era conseguenza dell’odio innato del popolo nostro contro i regi funzionari e contro i piemontesi causa non ultima gli etfetti della legge Pica ed il modo sprezzante con il quale gli ufficiali usarono trattare la popolazione facendo d’ogni erba un fascio»

Come fece aggiungiamo noi, il generale La Marmora che definì quei 7151 uomini uccisi o fucilati tutti « bnganti », lui che complice il governo per distruggere il bngantaggio Cpme disse po il Villari aveva fatto scorere un fiume di sangue senza pensare mai ai rimedi radicali.

Certo i « briganti » scrivevano sulle proprie bandiere (come narra un turnista dell’epoca di parte borbonica che li definisce soldati dell’indipendenza nazionale) «religione, legittimismo nazionalita’ come i nostri padri vandeani essi combattono e muoiono per Dio, il re e la patria» Fu cosi che Crocco arrivò ad auspicare una storia del brigantaggio sotto il titolo « Vandea napoletana »

Ma e altrettanto vero che appena avvistati ì briganti la “pleba” insorgeva dandosi al saccheggio, e mentre i possidenti stappavano verso le zone presidiate dal’esercito piemontese, venivano incendia ti il comune l’ufficio del caLasto, la gendarmeria (i nostri eterni nemici li definisce Crocco) e venivano liberati i detenuti. Gli strumenti repressivi dello Stato, i suoi strumenti di controllo autoritario, divenivano cosi l’obiettvo della lotta della rivolta.

Scontro di classe al servizio della reazione contro la violenza « padronale » e repressiva del nuovo Stato queste le facce del fenomeno briganttaggio che il libro presenta con grande ricchezza dagli scritti o trascrizioni di affermazioni brigantesche, alle memorie, le lettere, le polemiche degli ufficali e soldati piemontesi, ai reportages di parte borbonica Ne risulta un quadro mosso, pieno di storia proprio nel suo carattere di cronaca.

Immagini, volti, personaggi risaltano in modo plastico, vivo, dinamico

E accanto ai briganti (eroi e protettori dei miseri o delinquenti comuni) Crocco, al sergente Romano, a Schiavone, a Ninco Nanco, a Chiavone, vivono gli ufficiali delle truppe piemontesi, a volte pieni di boria, a volte sbirri e assassini, a volte delusi e frustrati « liberali ». Tutti diventano « persone » in alcuni episodi di partic olare rilievo e drammaticità la prima marcia di Crocco fino a Melfi, la reazione di Gioia del Colle, la distruzione di Casalduni e Pontelandolfo.

“Appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italiana, nulla io chiedo, disse egli, ed ammutimmo tutti” Cosi racconta la distruzione di Pontelandolfo compiuta dai piemontesi, il deputato Ferrari nella seduta parlamentare del 2 dicembre 1861.

Colui di fronte la quale tutti ammutolirono è don Nicola Rinaldi- le truppe piemontesi giunte a Pontelandolfo per ristabilire l’ordine dopo un’occupazione “brigantesca” massacrano e uccidono in massa, fra gli altri assassinano ì due figli di don « Rinaldi, l’uno avvocato e l’altro negoziante che avevano vagheggiato da lontano la liberta del Piemonte e all’udire che approssimavansi i piemontesi che così chiamasi nel paese ta truppa italiana correlano ad incontrarli.

Ma sono presi forzati a riscattarsi, dopo tolto il danaro, vengono condannati ad istantanea fucilazione ».

Un episodio sintomatico della cieca violenza che il nascente Stato borghese seppe usare nella guerra al brigantaggio.   Nel febbraio 1863 con 7151 uomini assassinati o fucilati, la fase più acuta del brigantaggio poteva considerasi chiusa.

Nel volume degli Editori Riuniti, un po’isolata ma non scissa dal contesto generale, c’è una pagina dedicata allo «sfruttamento e massacro degli scioperanti » avvenuto a Pietrarsa nell agosto 1863, quando i bersaglieri uccisero otto operai in sciopero, ferendone 20. Dalla cronaca del “Popolo d’Italia” ricostruiamo  l’episodio.  Un tale Iacopo Bozza ex impiegato del Borbone, divenuto direttore di un ricco opificio che occupava oltre 600 operai, “per lurido

spirito di alterizia” aumentò ai lavoratori un’ora di lavoro al giorno, diminuendo contemporaneamente la paga.  Non potendo « tollerare l’ingiustizia, alle 3 del pomeriggio gli operai lasciarono di lavorare ammutinandosi e raccoltisi insieme gridarono abbasso Bozzi e simili parole B iI pidrone chiamò 1 bersaglieri, che « giunsero con le baionette in canna », mentre gli stessi opera: tutti inermi, aprivano i cancelli con impeto inqualificabile la truppa  si slanciò su di essi sparando alla cieca, trattandoli da briganti.

Francesca Raspini

Pagine da unita_1969-12-12