8 settembre 1943

8 settembre 1943
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Cronaca della giornata in cui l’Italia si arrese agli Alleati e si illuse che la guerra fosse finita

8 settembre 1943
8-settembre-1943

Intorno alle 19.30 dell’8 settembre 1943 il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano, entrò nella sede dell’EIAR, la radio di stato italiana. Al posto dell’uniforme indossava un abito grigio e un cappello floscio. In pochi minuti registrò un breve messaggio, mentre la programmazione veniva interrotta per mandare in onda marce militari. Verso le 19.40, lo speaker Giovan Battista Arista annunciò il maresciallo e poco dopo la sua voce registrata lesse il proclama con cui il Regno d’Italia annunciava la resa.

L’annuncio dell’armistizio

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e piùgravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. la richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.»

Messaggio di Badoglio alla radio
8 settembre 1943, ore 19,45

Una mattinata tranquilla
Soltanto poche ore prima, Badoglio non aveva idea dell’annuncio che avrebbe dovuto dare di lì a poco. La mattina dell’8 settembre era cominciata in modo tranquillo per il re, il governo e per i capi dell’esercito. Ad esempio, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, stava tornando a Roma in treno, dopo essere andato a visitare il figlio a Pinerolo.
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Quella mattina l’Italia era ancora una fedele alleata della Germania nazista, in guerra contro gli Alleati. Mussolini era stato arrestato 45 giorni prima, poche settimane dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia. Subito dopo la caduta del Duce il nuovo primo ministro, il maresciallo Badoglio, aveva assicurato la Germania che l’Italia avrebbe continuato la guerra al suo fianco.

In realtà la caduta di Mussolini era soltanto il primo passo dello “sganciamento”, la decisione presa dal re e dagli altri comandi dell’esercito di abbandonare la Germania e uscire dalla guerra. Non era un piano semplice da attuare, perché in Italia c’erano già decine di migliaia di soldati tedeschi e altre forze arrivano ogni giorno dal passo del Brennero per difendere il paese dall’avanzata alleata. Quelle truppe non avrebbero permesso senza reagire all’Italia di arrendersi. Per tutto luglio e agosto, nella massima segretezza, i capi del governo italiano cercarono, spesso goffamente, di prendere contatti con gli Alleati per negoziare la resa, mentre professavano lealtà alla Germania.

Lo stato maggiore, ad esempio, era diviso in due. La gran parte degli ufficiali lavorava, come al solito, alla conduzione della guerra a fianco della Germania. Una piccola sezione distaccata studiava, in gran segreto, le misure da prendere quando l’Italia avesse capovolto il fronte. Con discrezione truppe e mezzi vennero spostate intorno a Roma per difendere la capitale. Quando però arrivo il momento dello “sganciamento”, i piani si dimostrarono tragicamente inadeguati.

Rimandare
La mattina dell’8 settembre non sembrava ci fosse ancora la necessità di mettere in atto alcun piano. Le trattative in realtà erano già terminate: l’armistizio era stato firmato e si trattava soltanto di decidere il giorno in cui annunciarlo. Gli Alleati avevano fretta di concludere: il 7 settembre erano arrivati a Roma due generali americani, con lo scopo di scoprire se fosse possibile lanciare una divisione di paracadutisti sulla città dopo l’annuncio dell’armistizio.

Badoglio aveva parlato loro la notte tra il 7 e l’8. I due generali erano arrivati nella sua villa alle tre di notte, dopo aver passato quasi tutto il giorno in pranzi, cene e rinfreschi con varie personalità italiane. Avrebbero dovuto incontrarsi con il capo dell’esercito italiano, il generale Ambrosio, che però era a Pinerolo ed era irreperibile. I comandanti che riuscirono ad incontrarlo gli dissero che il lancio dei parà era impossibile, perché c’erano troppi tedeschi in giro.

Ma i due generali avevano anche un altro compito: comunicare al governo italiano che il giorno successivo, l’8 settembre, il generale Ike Eisenhower avrebbe annunciato l’armistizio. La data era stata tenuta nascosta agli italiani perché avrebbe dovuto coincidere con un massiccio sbarco di truppe. Gli Alleati non si fidavano del tutto del governo italiano e temevano una fuga di notizie.

Quasi nessuno credette ai due americani – non è mai stato chiarito il perché – che per tutta la giornata girarono a vuoto senza essere presi sul serio da nessuno. Solo al tramonto trovarono qualcuno disposto a credere loro e le loro parole vennero confermate da altre fonti. I due vennero portati da Badoglio che, vista la completa impreparazione dell’esercito a mettere in atto l’armistizio il giorno dopo, scrisse un messaggio ad Eisenhower e gli chiese di annullare il lancio delle truppe su Roma e di rimandare l’annuncio dell’armistizio fino al 12 settembre. Anche se non giunse subito una risposta, Badoglio ritornò a dormire, convinto di aver rimandato l’annuncio.

In realtà non era più possibile rinviare l’annuncio e l’unico risultato ottenuto da Badoglio fu quello di cancellare il lancio dei paracadutisti americani su Roma. Le flotte, gli aerei e le truppe da sbarco degli Alleati erano già in viaggio verso la costa italiana. Inoltre, il messaggio non raggiunse Eisenhower fino al giorno dopo: la confusione sulla data dell’armistizio non era stato il primo inconveniente nelle caotiche trattative condotte dal governo italiano per ottenere lo “sganciamento”.

Una serie di confuse trattative
I primi contatti diplomatici con gli Alleati erano stati presi ad agosto, prima con l’ambasciatore britannico a Madrid e poi con quello a Lisbona – Spagna e Portogallo erano paesi neutrali e pieni di spie e diplomatici dei vari paesi belligeranti. Le trattative furono condotte in maniera molto caotica e lasciarono spesso spiazzati gli Alleati. Il ritardo nell’arrivare a Lisbona del primo inviato italiano spinse il governo Badoglio a inviarne un secondo e poi un terzo.

A un certo punto gli Alleati si ritrovarono con tre inviati del governo italiano, ognuno dei quali poco o per nulla a conoscenza della missione dei suoi due colleghi. Ad aggiungere confusione alla confusione, gli inviati non parlavano inglese, avevano bisogno di interpreti ed erano divisi tra di loro da gelosie e invidie. Il risultato fu che, mentre venivano discusse le clausole dell’armistizio, alcune parti finirono nelle mani di un inviato senza mai arrivare nelle mani degli altri.

Ma in qualche modo le trattative procedevano comunque e uno degli inviati, il generale Giuseppe Castellano, fu portato in Sicilia per firmare il documento finale. Il 3 settembre ricevette da Badoglio l’autorizzazione orale alla firma. Molti storici hanno scritto sulla mancanza di un ordine scritto per Castellano, ipotizzando che Badoglio si tenesse pronto a sconfessare tutta la trattativa nel caso le cose fossero andate male.

Poco prima della firma vennero fuori quelle clausole che Castellano non aveva mai visto. Erano molto dure e contenevano anche le parole “resa senza condizioni”, particolarmente indigesta al governo italiano per motivi di orgoglio. Badoglio tentò di rinegoziare alcune parti dell’accordo, ma era ormai troppo tardi. Il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, Castellano firmò l’armistizio.

Poco dopo Castellano comunicò al governo italiano che, secondo alcune fonti che aveva interpellato, gli Alleati avevano intenzione di annunciare l’armistizio tra il 10 e il 12 settembre. L’indiscrezione venne accolta quasi come un annuncio ufficiale dal governo italiano, tanto che le parole dei due generali americani che giravano per Roma il 7 settembre non vennero credute.

La resa
Nel pomeriggio dell’8 ettembre a Roma si susseguivano situazioni imbarazzanti. Verso mezzogiorno l’ambasciatore tedesco in Italia andò a fare visita al re. Durante il colloquio, secondo alcuni resoconti, Vittorio Emanuele III disse: «Dica al Führer che l’Italia non capitolerà mai. È legata alla Germania per la vita e per la morte». Poche ore dopo il capo di stato maggiore dell’esercito Mario Roatta si ritrovò in una situazione simile, quando venne invitato a partecipare ad un incontro con altri funzionari tedeschi.

Proprio mentre stava parlando con loro, l’agenzia Reuters batté la notizia dell’armistizio. I tedeschi chiesero immediatamente una conferma o una smentita della notizia: Roatta li assicurò che si trattava di una falsità. Probabilmente Roatta pensava di essere sincero almeno per metà, visto che non immaginava che l’armistizio sarebbe stato annunciato quel giorno.

Si sbagliava: poco prima Badoglio aveva ricevuto – senza avvertire Roatta – un durissimo messaggio di Eisenhower. Il generale americano minacciava la «dissoluzione del vostro governo e della vostra nazione» se non fossero state rispettate tutte le clausole dell’armistizio. Una riunione del consiglio della corona venne convocata di urgenza al Quirinale, ma tra i soliti ritardi e la fatica nel rintracciare i vari generali non poté cominciare prima delle 18 e 45.

Un quarto d’ora prima la voce di Eisenhower, registrata, come lo sarebbe stata un’ora dopo quella di Badoglio, aveva annunciato al mondo che l’Italia si era «arresa senza condizioni». Secondo i resoconti della riunione, all’inizio i presenti sembravano orientati a denunciare come false le parole di Eisenhower, a tranquillizzare i tedeschi e nel contempo a chiedere un altro po’ di tempo agli Alleati.

Dopo poco però si resero conto che si trattava di una posizione impossibile da sostenere. Eisenhower aveva minacciato di pubblicare tutti i dettagli della trattativa e di bombardare Roma, se le clausole non fossero state rispettate. Ultimo dettaglio grottesco della vicenda, prima della riunione era stato ordinato di preparare al Quirinale un microfono collegato all’EIAR, ma l’ordine non era stato eseguito. Così Badoglio, cambiatosi con abiti civili, dovette raggiungere in macchina la sede della radio per registrare l’annuncio di resa.

Dopo l’8 settembre
Dopo L’armistizio ci furono diverse ora di calma in cui l’esercito tedesco non prese nessuna iniziativa. Alcuni generali dissero che, se si arrivava fino alla mezzanotte senza scontri, voleva dire che i tedeschi avevano deciso di sgombrare l’Italia senza combattere. Anche lo stato maggiore e il governo italiano rimasero quasi immobili. Piani per disarmare le truppe tedesche erano stati inviati a molti comandanti di unità italiane prima dell’8 settembre, ma non furono messi in atto nel timore che quelle azioni potessero scatenare una reazione tedesca.

Subito dopo l’annuncio di Badoglio i telefoni dello stato maggiore e del ministero della guerra ricevettero decine di telefonate dai vari comandanti sparsi per tutta Europa che chiedevano ordini. Le risposte furono vaghe e generiche e l’ordine generale fu quello di aspettare e vedere come si mettevano le cose.

A notte fonda i tedeschi si misero in moto. Mentre a sud le truppe si preparavano ad affrontare gli Alleati, le truppe intorno a Roma si mossero per occupare la capitale. Alle cinque di mattina, quando stava sputando l’alba, Badoglio passò i poteri di primo ministro al ministro degli Interni e salì sul convoglio di automobili con cui il re, la famiglia reale e numerosi generali e altri dignitari si preparavano a lasciare Roma diretti a Pescara.

La rocambolesca fuga del re e della corte terminò a Brindisi, dove con molte difficoltà venne insediato un nuovo governo. La “fuga di Pescara”, come passò alla storia l’episodio, divenne una delle più gravi accuse alla monarchia negli ultimi anni e dopo la guerra. In particolare, Badoglio e il re vennero accusati di non aver fatto abbastanza per rimpatriare le centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi per l’Europa e di averli lasciati senza ordini e disposizioni dopo l’annuncio dell’armistizio.

I soldati italiani reagirono a questa mancanza di ordini con il “tutti a casa”, illudendosi insieme ad altri milioni di italiani che la guerra fosse finita. Il risultato di queste decisioni, o meglio di questa mancanza di decisioni, fu quello che un mese dopo l’annuncio dell’armistizio il capo di stato maggiore dell’esercito tedesco comunicò a Hitler a proposito dei rastrellamenti delle truppe italiane: più di 70 divisioni erano state disarmate, 547 mila soldati erano stati fatti prigionieri, decine di migliaia di mezzi e armi erano state catturate. I morti, negli scontri, nelle esecuzioni e poi nei campi di concentramento tedeschi furono decine di migliaia.