Virginia Oldolini Verasis-Castiglione

virginia Nicchia vuota  Il nome, bello, Era Virginia.
Il Nomignolo con cui la vezzeggiavano i famigliari, Nicchia, che vuol anche dire conchiglia. Ora, il cuore della conchiglia è di un rosa incomparabile, sfumato, tenue, soave, commovente. Il colore della bellezza di Nicchia era appunto rosa, un rosa che incantava e cho armonizzava a meraviglia con l’onda dei capelli folti e cadenti, di uno squisito color foglia secca, castagno e porpora, e con gli occhi d’un verdo cupo, vellutato, punteggiato d’oro. L’armonia era poi completata dalla linea dell’ovale e dalla gran bellezza della fronte. Nata nel 1835, in un gran palazzo fiorentino, a dodici, tredici anni, tutta compresa della sua eccezionale avvenenza, faceva già la sdegnosa, la fatale, troneggiando nel palchetto alla Pergola o nella carrozza alle Cascine. Portava i vestitini scollati, i mantelletti di velluto, il cappellone coi nastri pendenti e quelle mutandine deliziosamento lunghe, strette alla caviglia con un profluvio di piccoli volanti trinati. Senza guardar nessuno in faccia, superba come una reginetta da fiaba, andava anche a Palazzo Pitti quando il Granduca dava le feste da ballo per i bambini. Una volta, mentre se ne stava eretta e composta, isolata volontariamente da tutti, e sprezzante, un ragazzetto festoso si mise a correre da un punto all’altro della sala e, inciampando, non trovò di meglio da aggrapparsi che la marmorea spalluccia di lei. Fu un ruzzolone, da cui ella si sollevò fulminando con gli occhi stellanti, mentre il piccolinò, rosso rosso, sgattaiolava via con una certa paura. Quel piccolino, che si chiamava Ferdinando Martini, ogni tanto era messo al cospetto di quella sfolgorante bellezza in casa dell’avvocato Ranieri Lamporecchi, nonno materno della bambina, giureconsulto di grido con velleità di poeta. Mentre nello studio il babbo Martini e l’avvocato leggevano ed emendavano un poema in ottave del Lamporecchi, il piccolo Martini e la splendida Nicchia si tenevano compagnia in un salotto vicino, le cui finestre davano sul Lungarno.
La Nicchia stava in posa, e sul suo volto meraviglioso si riflettevano mirabilmente le madreperlacee luci del bel cielo fiorentino. Il futuro grande scrittore, fine sagace lucido e arguto, lo contemplava per un po’, ma poi sbadigliava fino a slogarsi le mascelle. Bella sì, ma Dio che antipatica!… Non voleva fare il chiasso, non voleva ridere, non voleva parlare, non voleva scomporsi. Voleva star ferma, in posa, a farsi contemplare.
Sarebbe rimasta in posa tutta la vita, la futura “divina contessa”, sulla quale tanto si è scritto e tanto si scrive ancora; ultimo, un saggio dì Raffaello Barbiera nel suo volume “Diademi”, stampato dal Treves, raccolta di interessanti ritratti di “donne e madonne dell’Ottocento”.
Suo padre, il marchese Francesco Oldoini, era un dissipatore; la madre un’irrequieta, languida, malaticcia, una di quelle che oggi si direbbe nevrastenica, destinata a morir presto. Tra quei genitori la bellissima era abbandonata a se. Ella era sola, col suo specchio. Lunghi, infiniti colloqui con l’imagine adorabile nel silenzio della camera verginale, dietro le tende della finestra… Ella non pensava che alla sua bellezza, e dentro di lei la sua vanità cresceva e diventava un mostro gonfio e terribile, silenzioso come un vampiro.
Voleva arrivare, lei, in alto in alto: ma fra tutti i pretendenti che fin da quando ella ebbe quindici anni l’assediarono, non sapeva chi scegliere. Il prescelto dal padre, il conte Francesco Verasis di Castiglione, elegantissimo, ricco e bello, non le piaceva. Ella lo disprezzava apertamente. Ed egli le disse con sincerità singolare quello che tanti uomini pensano, senza dirlo, della e bella preda »:
— Che m’importa se tu non mi ami? Ma io avrò l’orgoglio di avere la più bella fra lo più belle donne del mio tempo!
Egli la portò a Torino, alla Corte di Vittorio Emanuele II. Ella dimorava nella villa Gloria, in collina, o quando passeggiava in carrozza per le vie della città la gente si voltava, sbalordita. E anche a Corte, che effetto! Cavour, parente del marito, la guardava acutamente e facendole i complimenti d’uso le gettava addosso l’invisibile rete della sua volontà sapiente, se ne faceva uno strumento delicato ed efficace. La bellezza femminile, anche se sprovvista d’anima, è tale una grandiosa potenza!.. Egli pensava l’inquietudine silenziosa di Napoleone III, quella sua romantica sete di amore, di femminilità, quell’incertezza dolorosa che un volto divinamente bello poteva mutare in risolutezza improvvisa… E l’indusse a partire, per Parigi.
Alle Tuileries, la divina contessa con insolenza inaudita, giunse gran ballo verso mezzanotte, mentre era obbligo d’etichetta giungervi alle nove e mezza. Era vestita di tutto bianco, con la crinolina guarnita di grandi rose a lungo stelo, e in capo non aveva che le sue meravigliose trecce disposte a diadema. L’elegantissima assemblea restò come pietrificata all’apparizione di lei; dicesi che le danze si arrestassero e la musica tacesse. L’imperatrice Eugenia, pur tanto bella anch’essa, davanti a quel trionfo sentì forse un morso al cuore. Ma poi s’avanzò, tese la mano alla contessa fiorentina la condusse presso il trono.
L’orchestra riattaccò il valzer di Strauss, le crinoline ripresero a ondeggiare, i veli a fluttuare, i gioielli a splendere, nel vortice dolce. Ma le donne non sorrisero più per tutta la sera e gli uomini non cessarono dal guardare attoniti la nuova venuta. Ella danzava con l’imperatore… Un’angoscia sottile serpeggiava in tutti i cuori: un senso di sconfitta nelle donne, una folle sete di vittoria nei cavalieri. Si aveva la sensazione che una creatura simile avrebbe potuto sconvolgere il mondo, soggiogare l’universo… Non fu nulla. Nessuno l’amò, e in quanto all’Imperatore… Sì, Compiègne, qualche appuntamento, qualche colloquio… Cavour l’aveva valutata esattamente. Era uno strumento magnifico, ma di modesta portata. Le dame francesi sorridevano, rassicurate. Era bella, ma le mancava Io charme!… Che cos’è la bellezza senza lo charme? Bizzarrie, vestiti audaci, nudità esposte, insolenze continue, un fare sprezzante con le donne e audace con gli uomini… Ma tutto ciò non formava un’anima.
Ogni volta che ella appariva sulla soglia era un trasognamento improvviso in tutti, un silenzio grave, pieno di fremiti. Poi, ella si metteva in posa e a tutti veniva il desiderio di andarsene e di lasciarla sola, sola davanti a uno specchio! Due immagini vuote, che si guardavano freddamente.

***_ Ella non amò, mai. Mai una volta le sue fibre trasalirono di amore. .Vedova, tornata a Torino, nella sua villa in collina, avrebbe potuto godere di un tramonto dolce, sereno… Aveva un figlio. Povero piccolo Giorgio! Egli la temeva, ne aveva paura. Era così fredda e dura con lui!… Povero piccolo Giorgio, figlio di un idolo che non aveva più incensi, ne adoratori… Aver paura della propria madre è una malattia lenta e crudele: infatti egli ne morì.
Ed ella rimase sola e disperata. Disperata d’invecchiare, disperata di imbruttire… La leggenda degli specchi velati, che tanti hanno poetizzata, ci mostra questa disperazione fredda disumana odiosa. Forma nera, ululante nel silenzio delle pareti opache e inesorabili!… Nessuna luce intorno. Senza specchi e senza lampade, senza affetto e senza preghiere.
Ritornata a Parigi, chiusa in poche stanze semibuie, sperduta in una semidemenza, non usciva più che la notte, velata di nero, come un lugubre spettro. Al suo letto di morte non vollo preti, nè fiori, nè preci. Le sue fredde ceneri furono chiuse in una fredda tomba, su cui molti andarono forse a fantasticare di tanta incredibile bellezza umana, nessuno a pregare, nessuno a piangere. Era stata un’effimera visione, una fredda forma; un bel tempio, ma senza Dio. Vien fatto di pensare a un’altra bellezza famosa celebrata da poeti e da scrittori, a quella Ninon de l’Enclos che conobbe il tempo dell’amore e il tempo dell’amicizia, che seppe saggiamente dire addio alla propria bellezza all’era giusta e che, dopo aver tanto amato nella sua lunga vita, fu tutta amore ancora nella sua morte: una morte pentita religiosa soave, piena di lacrime, di memorie e di fiori..
CAROLA PROSPERI.

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Virginia Oldolini Verasis-Castiglione-1835-1899: IL CENTENARIO DELLA PIÙ’ BELLA DONNA DELL’OTTOCENTO
Siamo alle Tulleries durante uno deifamosi «Lunedi» invernali del Secondo Impero. E’ mezzanotte. La bella Sala dei Marescialli, illuminata da centinaia di doppieri e da grosse lampade Carcel, è popolata del “tutto Parigi” mondano. Sulla loggia, Giovanni Strauss con una indiavolata polka apre le danze…
Improvvisamente una giovine donna, alta, slanciata, molto elegante nell’ampia « Crinolina magica » alla Delirac, con una scollatura audacissima, entra nella sala come un dragone della Guardia. Un fremito di curiosità si diffonde fra gli invitati e il movimento è tale, che le danze si interrompono e la musica cessa di suonare. Un’espressione magnetica di ammirazione passa subito nella folla. Tutte le dame accorrono ansiose attorno alla nuova venuta: c’è, tra le altre, la marescialla Bazaine, la marescialla Caurobert, la contessa Walewska, la marchesa Talhouét, la duchessa di Malakoff, la principessa di Metternich e la giovanissima Alfonsina Rotschild che, con sul capo un enorme « uccello del paradiso » dai colori dell’aurora, fa stasera la sua prima comparsa a Corte.
L’Imperatore è il più colpito; prega il duca di Sax-Couburg di «impegnare » per la danza l’Imperatrice Eugenia, mentre egli si affretta, incontro alla bella ospite, che trascina subito nel vortice di un valtzer. Il che dà luogo — com’è facile immaginare — a commentari senza fine.
Tale è stato — nel febbraio del 1856 — l’ingresso di Virginia Oldolini Verasis, contessa di Castiglione, detta nell’intimità la “Nicchia”, alla Corte di Napoleone III.
La ” Dame de beauté „
Il successo fu dunque completo trionfale. Fu detto l’avvenimento della settimana».
Ma che era venuta a fare a Parigi questa singolare messaggera di bellezza? Il conte Camillo di Cavour, che era suo cugino, scrisse allora al conte Cibrario — reggente il Ministero degli Esteri — « di aver arruolata nelle file della diplomazia la bellissima contessa Castiglione, invitandola a coqueter a sedurre, ove d’uopo, l’Imperatore ». Da allora sono trascorsi molti lustri quasi un secolo, ma noi non possiamo ancora esprimere su questo « intervento » di eccezione un giudizio sereno sicuro, tanto più che il carteggio politico della contessa fu, com’è noto, sequestrato e distrutto, per conto del Governo, dopo la sua morte. Ma noi non parleremo che della donna. Perchè ella fu davvero una stupefacente Dame de beauté. Un profilo puro, degli occhi grandi pieni di fascino di lampi verdastri; una bocca piccola dal sorriso ammaliatore; dei capello di una abbondanza e di uno splendore superbi; il collo sottile, la cui linea cadente aderisce a delle spalle modellate a meraviglia; una gola libera di tutti freni e dove la perfezione ardita sembra gettare una sfida a tutte le donne, un busto regale, delle braccia e delle mani di un contorno morbido e delizioso; la linea del corpo irreprensibile. Non vi e insomma in lei niente, scrive un contemporaneo, qu’o pu voir sans l’aimer. Ella è di quelle creature che Saint-Simon dice nate per ispargere nel mondo il più grande disordine d’amore e che, al di là della vita, conservano ancora i loro cavalieri e i loro entusiasmi.
A quindici anni — ella è nata il 22 marzo 1835 — aveva già respinto parecchie proposte di matrimonio. Il prescelto doveva essere il conte Francesco Verasis-Castiglione. Ecco come.

Il linguaggio del fazzoletto
A Londra, nell’inverno del 1854, durante un ballo nel palazzo della duchessa d’Inverness, cugina della Regina Vittoria, un giovane italiano dalla fisonomia aperta e attraente, si pone a sedere tra il conte Walewski, Ambasciatore di Francia, e Massimo d’Azeglio, Ministro d’Italia a Londra; e dice sorridendo:
— Certo voi non sapete perchè io sia venuto a Londra; lo sono qui per cergarvi moglie.
— In tal caso, mio caro — gli dice il conte Walewski— non avreste dovuto lasciare Firenze. Ritornateci. Dite alla marchesa Oldolini di presentarvi sua figlia; e sposatela. E’ la più belldonna d’Europa…
E il conte Castiglione la sposò lo stesso anno, a Firenze. Fu lieta la donna di questo matrimonio? Non si seppe mai, precisamente. La contessa d’Alessandro confidò ai suoi amici che la «Nicchia» si lasciò condurre all’altare come Ifigenia si lasciò trascinare al sacrificio… E’ detto tutto. Ella non ha mai amato la sua casa, nè i congiunti di suo marito. Prima di partire da Firenze, ella non ha nemmeno mai voluto far visita a sua suocera. Un giorno, mentre la sua Caleche attraversava un ponte e il marito la supplicava per la centesima volta di andare da sua madre, ella, con una mossa birichina e fulminea, si tolse le scarpe e le gettò nell’Arno. Poi, con uno dei suoi graziosi sorrisi, si rivolse al conte:
— E ora? Certo voi non mi obbligherete di andare da vostra madre a piedi nudi…
Tale era la donna. Un mese dopo gli sposi sono a Torino dove il conte Castiglione — per lintercessione dello zio generale Cigala – gli ha ottenuto l’importante ufficio di capo di Gabinetto del Re Vittorio Emanuele II. — Ma questa unione di eccezione doveva durare poco. Mentre scorta a cavallo la vettura del Principe Amedeo Duca di Aosta, che si reca a noze. Il conte Francesco Castiglione è colto da una congestione cerebrale e muore. La moglie si asciuga una lacrima con un ricco fazzoletto che poi agita civettuosamente attorno al viso come una piccola bandiera. E’ il tempo, dice Onorato di Balzac, in cui per conoscere il carattere di una donna bisogna osservare il suo modo di maneggiare il fazzoletto…

Parigi, il Carnevale dell’Impero
La “Nicchia”, riprende ben presto la sua vita fastosa e partecipa ai festini di Corte di Torino, di Parigi, di Baden; interviene a tutte le partite di caccia della Mandrin la deliziosa tenuta di Venaria Reale. E’ felica perchè può legare a se con il filo invisibile del suo spirito profondamente psicologico a cui fascino dei suoi grandi occhi tutte le persone che possono srvire al suo disperato gioco diplomatico.
La sua prima conquista è l’Imperatore. E’ l’epoca in cui Napoleone III
– l’avventuroso figlio della fortuna »
– meraviglia e tiene ansioso il mondo; è ammirato, perchè ha reciso i nervi all’anarchia; è temuto, perchè proclama il socialismo di Stato; è esaltato, perchè sebbene venga chiamato “Napoleone il piccolo”, il suo tempo non produce un uomo che possa competere con lui. Bisogna dunque valersi dell’Imperatore come di una leva potente.
Da questo momento la donna non appartiene più a nessuno; non appartiene alla famiglia, non agli amici: appartiene soltanto a se stessa; appartiene unicamente alla sua bellezza. Il suo Pensiero di tutte le ore e il migliore della sua sensibilità si concentrano attorno a questa unica idea: Io sono bella! E sull’ara della bellezza ella brucia tutti i profumi d’Oriente e sacrifica — con una tremante tenacia eroica — tutta la sua vita. Solo l’Ottocento può darci di queste donne di eccezione. Ad un ballo di Corte, dove sono presenti le più graziose signore di Europa, la « Nicchia » scrive sul suo ritratto, la prima fotografia che le ha offerto il sarto Daguerre: Je les egale par un naissance. Je les surpasse par ma beautè. Je les juge par mon esprit! E lo consegna all’Imperatore, che sorride.
La contessa Castiglione riprende cosi,nel turbine della vita galante parigina;la sua fatica. Tutta Parigi è trasformata in un vero Carnevale. Le feste più splendide, più bizzarre — ordinate e dirette da Arsene Houssay, direttore della “Comédie-Francaise” — si susseguono senza posa alle Tuileries, al Ministero della Marina, al Ministero degli Esteri, all’Ambasciata di Vienna.Tutti gli « inviti » non contengono che due condizioni. Per gli uomini: Eh uniforme. Per le donne: La beauté sous le musique ont de rigueur! Cosi il ballo mascherato costituisce l’avvenimento mondano più ricercato, più importante. La stessa Imperatrice Eugenia, che cambia di « costume » due o tre voltein una medesima serata, fa toeletta nel Gabinetto del Ministro, che, per l’occa-sione, viene trasformato in un sontuoso boudoir.
Anche Napoleone III cambia durante il ricevimento il colore del suo domino, per incuriosire e sorprendere gli invitati. Tempi di leggera gaiezza. Verso il 1861, il Principe Gerolamo Napoleone dà un ricevimento nel Palais Royal in onore dell’Imperatrice Eugenia, che appare alla festa vestita anch’essa di violette di Parma,come la Castiglione. A mezzanotte l’Imperatore e l’Imperatrice, mentre si ritirano, incontrano nelle scale la « Nicchia » che sale con solennità.
— Voi arrivate ben tardi — le dice l’Imperatore.
— Siete voi, Sire, che partite presto..
E a testa alta entra nel turbine delle danze.

La neve che brucia
Peregrinando da una Corte all’altra é nelle ville d’eaux, ella non ricerca che la compagnia di principi e di uomini politici. Ella deve svolgere il suo compito, deve tessere la tela sottile dei suoi allacciamenti. Intanto impone la moda che sa far valere la bellezza. Inventa il famoso abito Ametista, ornato di ermellino, che stupisce tutta Parigi e che fa dire ad Alessandro Dumas figlio: “La contessa Castiglione ha risuscitato le genre fatal! ».
E queste toelette sono un poco il simbolo della sua sontuosa malinconia.
Ma gli anni passano intanto troppo veloci. Un giorno la “Nicchia” si guarda nello specchio e scopre con stupore la prima ruga: è la sorpresa della neve a settembre.
E in questa neve che brucia, ella avvolge il suo segreto. Spezza lo specchio, tutt, tutti gli specchi, e si chiude nel suo Palazzo per non uscirne più.
In questa necropoli del ricordo, la dea delle Tulleries, la « Nicchia » dell’Ereimitage de Passy e la solitaria della piazza Véndome non è più che una vecchia trottola sperduta nel palazzo abbandonato. La bellezza è il primo dono che la natura ci fa e il primo che essa ci toglie.
Ma la “Nicchia” non vorrebbe invecchiare: saper invecchiare è il capolavoro della saggezza. Infatti, dopo qualche anno di isolamento, ella tenta — in una sera di Carnevale — di rivivere 11 suo passato. Con un enorme mazzo di fiori, si presenta nel palazzo della sua amica Walewska, divenuta per il secondo matrimonio, contessa d’Alessandro. Colà vi trova tutti i suoi vecchi amici. Le dicono che è bella; come una volta ed ella stessa tenta di essere gaia, folleggiante — come una volte.
Ma si sente presto mancare torna a casa triste.
Una notte d’inverno, “Nicchia” chiama la polizia. Seduta sul letto geme. “Mi hanno avvelenata! Hanno frugato da per tutto per trovare delle carte politiche, delle lettere di mio cugino il conte Cavour!
Passa ancora qualche anno. Poi la notte del 28 novembre 1899-la donna incantevole,che per vederla e contemplarla il Pubbllco saliva sulle sedie e sulle poltrone dell’Opera diLondra, si spegne in silenzio in una triste camera del Restaurant Voisin.

Alfredo Rota

LaStampa 08/04/1935 – numero 84 pagina 3
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Gli amici di Nicchia

La donna maligna, che durante un ballo alle Tuilleries salì sulla seggiola per veder passare la contessa di Castiglione, con flautata voce gorgheggiando “voilà la beauté qui passe”, dalla contessa subito mentalmente tradotto per « ecco la beltà che sfiorisce », segnò il destino della imperatrice clandestina, e le preparò un avvenire ovattato e foderato di velluti neri, quanto la casa dei suoi ultimi anni.
Ed era stata così bella, così potente anche nella sua, stupidità soave e premurosa, pronta ad impallidirsi pur tanto splendente, per compiere le sue missioni, segreta ambasciatrice di Cavour, segreta dominatrice di Napoleone III, pronta a pagare, con le rinnovate invenzioni di un’eleganea, di una fantasia deliziosamente donnesche, l’ammirazione che le sarebbe volata incontro anche senza le sue vesti alla greca, le sue danze alla napoletana.
Ma forse pensava di pagare la sua gloria anche sparendo, murandosi nella sua palazzina solitaria, e non per egoismo vietava alla folla il decadere lento del suo volto, del suo corpo, ma per una generosità rinnovata, limpidissima. Arrivò perfino a proibirsi la pietà di se stessa, e tolse gli specchi: sapeva che sarebbe diventata cattiva, contando le sue rughe, i suoi capelli bianchi, le livide macchie che il tempo pone sulla pelle delle donne troppo bianche, e rosate. Serbava la sua fresca anima ignara e teneramente sciocca, giocava con i gattini d’Angora, con i cani spagnoli che per lei rinunciavano a correre nel sole, seguendo un istinto di caccia. Era golosa, l’ora dei pasti era importante per lei, domestici silenziosi spingevano carrettini carichi di squisitezze davanti alla soglia del suo salottino, e lei scivolava fuori dopo averli sentiti allontanarsi, nel corridoio, era giusto risparmiare lo sfacelo non agli ambasciatori ed alle duchesse soltanto, ma anche ai maggiordomi, alle cameriere. Spingeva il carrello davanti al fuoco, mangiava distribuendo piccoli bocconi alle sue bestie, che l’avrebbero amata disfatta, e toglieva in fretta i coperchi lisci d’argento, dove avrebbe potuto scorgersi, e impazzire. Usciva solo la sera, nel buio, e fino alle prime luci si aggirava, ammantata di nero, per le vie di Parigi: gli spazzini la conoscevanc, le volevano bene. A loro, che non le credevano Nicchia di Castiglione raccontava la sua Vita.

Irene Brin
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UN CARTEGGIO INEDITO -La bella Castiglione non “ha fatto l’Italia,,

Le commemorazioni centenarie del 1859 fanno riaffiorare la leggenda, che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità, sulla bella contessa di Castiglione. Una leggenda affascinante come fu certamente la bellissima donna, ma che ha con la verità storica una parentela assai remota.
Ed è veramente una ingiusta diminuzione della grandiosità degli avvenimenti dell’anno decisivo del Risorgimento italiano il dare importanza ad un pcrsonaggio quale Virginia Oldoini, la « divina contessa » Verasis di Castiglione. Nel grande scenario degli avvenimenti che maturano dal 1857 al 1859 la sua figura appare sullo sfondo come quella di una bellissima comparsa, senza alcuna parte effettiva nella epopea: come da un fascio possente della luce di un riflettore la sua figura è per un attimo investita e illuminata dalla parola di Cavour nella lettera famosa diretta da Parigi al Cibrario, che reggeva la Presidenza del Consiglio di Torino: «Vi avverto che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima Contessa di Castiglione, invitandola a coqueter ed a sedurre l’imperatore. Essa ha cominciato discretamente la sua parte al concerto delle Tuileries di ieri… ».
Su questa lettera si è costruito l’edificio favoloso di una partecipazione importante, e per alcuni fantasiosi biografi anche recenti, quasi decisiva della bella contessa negli eventi maturati nei due anni che precedettero la guerra del 1859. Tutto ciò non ha il minimo fondamento; la lettera di Cavour a Cibrario è scherzosa nel tono come sono tutte le lettere confidenziali del grande statista. Il suo buon umore lo assiste anche nei momenti più difficili. Cavour è a Parigi per partecipare al Congresso che deve concludere la guerra di Crimea e dà quasi quotidianamente relazione degli avvenimenti al governo di Torino e al suo Presidente Cibrario, non trascurando notizie di dettaglio e pettegolezzi : « Sono cominciati i pranzi e se non le intelligenze, almeno i nostri stomachi sono posti a dura prova», scrive in un’altra lettera. Ed ancora, dopo aver descritto la faticosa vita mondana di Parigi e dei partecipanti al Congresso, scrive : « Se ancora fosse possibile il ricrearci colla vista delle ninfe ballanti: ma l’andare a teatro è problema quasi insolubile, e quando si giunge a scioglierlo, bisogna andarci con tanta cerimonia che non si prende gusto di sorta ».
Messa in relazione con il contenuto e la forma di tutta la corrispondenza, la famosa lettera che è stata da qualcuno considerata come una solenne investitura della Castiglione alla sua storica missione, si riduce alla sua vera e modesta importanza. Il Congresso di Parigi si chiude nell’aprile 1856 e ben poco poteva aver fatto la bella contessa per la sua pretesa missione. Il 1857 mentre l’idillio con Napoleone III giunge al suo apogeo, è proprio l’anno nel quale i dubbi dell’imperatore nella sua politica italiana sembrano più profondi; l’anno decisivo, il 1858, l’anno di Plombières, dell’alleanza e della preparazione alla guerra di liberazione dell’Italia dal dominio austriaco, vede il rapido tramonto delle relazioni fra Napoleone e la Castiglione, che vive umiliata e lontana dalla Corte, carica di debiti, in una equivoca vita assai più vicina a quella che si chiamerà il demi monde, che alla vita di Corte.
La prova definitiva di queste verità che distruggono una leggenda, ho potuto trarre dall’esame del carteggio inedito fra la Contessa di Castiglione ed uno dei suoi più fedeli amici, il principe Poniatowsky, discendente dal re di Polonia. Una personalità eccezionale di artista, più italiano che polacco, musicista famoso al suo tempo, sempre tormentato da problemi finanziari insolubili che si intrecciano con quelli altrettanto intricati della contessa di Castiglione. Ho sotto gli occhi le centinaia di lettere scambiate fra di loro durante quindici anni; lettere di affari, di politica e di tenera amicizia che poi diventano di intimità amorosa, dove l’uomo ha la parte dell’amante indulgente, pronto a trarsi in disparte quando appare per la bellissima contessa la possibilità di avventure utili e lucrose. Ciò che più interessa in questo carteggio è la documentazione della completa assenza della Castiglione nella preparazione di quella vasta trama diplomatica che portò Napoleone III sui campi di battaglia di Lombardia nel 1859.
Ai primi del 1858 la contessa è piena di debiti; le lettere che scambia con il Poniatowsky non parlano che di cambiali, di protesti, di realizzi dei pochi beni del marito per far fronte ai bisogni più urgenti. Napoleone non vuol più sentir parlare «della divina contessa»; qualcuno è andato a perorare la sua causa. Invano : « Non bisogna farci illusioni, non vi è più nulla da sperare da quel lato: il rifiuto è state fatto in termini i più precisi e affatto privi di quel buon sentimento che ne attenua la durezza ».
A chi ricordava all’Imperatore la devozione della contessa, la separazione dal marito che essa attribuiva allo scandalo della sua relazione, Napoleone tagliò corto dicendo: “Assez parlè”. Questa lettera è del 2 giugno 1858, un mese prima del Congresso di Plombières!
Le lettere di Poniatowsky ripetono più volte questi concetti: « Non bisogna farci illusioni sui sentimenti di quella persona.. Egli crede di avere fatto abbastanza: D’avoir bien fait les choses ». Nessuna speranza dunque per la Castiglione di riprendere il suo potere sull’Imperatore e di avere da lui gli aiuti di cui ha tanto bisogno.
Vi è una lettera che spiega la rapida decadenza del prestigio della contessa nel mondo di Corte: « Non hai idea, e lo dice anche il vecchio (Napoleone) che posizione colossale avresti se invece di voler écraser tout le monde par la beautè, le luxe éct., ti fossi tenuta in un canto e che non si fosse parlato di te ».
E’ certo dunque che nell’epoca cruciale per la storia dei rapporti tra il Piemonte e l’Imperatore dei francesi, la Castiglione è lontana dalla Corte, esiliata ed anche un poco disprezzata sia dal sovrano che dalle persone che lo circondano. Né le molte che l’avvicinano hanno alcuna importanza politica per cui è da escludere che ella possa svolgere un’azione qualsiasi, neppure di informatrice. Nei primi mesi del 1859 la Castiglione è in una situazione più che mai equivoca. Ha lasciato Parigi e viaggia fra l’Italia e l’Inghilterra e riceve delle lettere severe dal suo amico: il principe non esita a scriverle: « Non è un amante di più o di meno che conta, è il genere di vita quello che ha importanza. O si vive a Corte al proprio posto anche con poco danaro con una situazione da signora, oppure tanto vale godersela. Ma tu sei in una situazione bastarda, che non è né l’una, né l’altra tu non sei né abbastanza in alto, né abbastanza in basso ».

Vale la pena seguire l’interessante carteggio durante gli eventi del 1859. Ormai la contessa è separata legalmente dal marito. Gli eventi d’Europa richiamano l’attenzione e destano l’inquietudine delle Cancellerie. La Castiglione non sa darsi pace per il suo allontanamento dalla Corte e scrive all’amico di darle notizie. Ed egli risponde il 9 gennaio: è la vigilia del discorso della Corona del “grido di dolore”. Ma sono fatti che non interessano. Cosa dice, cosa pensa l’Imperatore di lei? Questo solo è importante. Poniatowsky la informa. Napoleone è convinto che ella sia l’amante del re Vittorio Emanuele; lo ha detto chiaramente (la cosa del resto è vera) ed ha aggiunto sprezzante: «Ora che è separata dal marito nessuno la riceverà più ». Commenta il Principe: «In fondo non si cura di te, è stato un capriccio, ma ha avuto delle seccature e non gli par vero di non sentirne più parlare. Verità durissima ma è meglio che tu lo sappia per servirti di guida e non essere indotta in errore ». Ed il cinico amico le dà dei consigli: «Gustavo Rothschild è innamorato di te, finché non sarai sua maitresse farà di tutto per te ». Il grande banchiere è uno dei più ricchi uomini di Francia… Verso il 25 gennaio la contessa è alla disperazione: vi è stato un ballo a Corte e non è stata invitata; scrive una lettera al Principe dove si parla di suicidio. Le risponde il 30 gennaio scongiurandola di essere calma: «Se avessi 22 anni e quel musino vorrei mettere sottosopra invece di stare a far la C…a». La tempesta si calma: il 5 aprile le Cancellerie esaminano le richieste dell’Austria che vuole il disarmo del Piemonte prima di aderire a un congresso. Parigi è in effervescenza per i comunicati del Moniteur che si susseguono. Nicchia ha altro per la mente; lei e Poniatowsky hanno bisogno di quattrini e solo se si ritorna nelle grazie dell’Imperatore vi è speranza di averne.
« Bisogna che egli ti ripassi per le mani; ma bisogna che sia una cosa naturale, ben condotta e in modo da non avere la durata e l’aspetto di un capriccio. Se tu vieni qui, ti fanno tanta guerra che non concludiamo nulla. Bisogna rivederlo fuori di qui e per caso: qui sta il busillis!. ».
10 giugno 1859: da due giorni Vittorio Emanuele e Napoleone III sono entrati trionfatori a Milano. Il principe Poniatowsky spera che Nicchia, che si trova in Italia, possa essere utile, e soprattutto riesca ad incontrarsi con l’Imperatore. « Se trovi il modo di vederlo credo che bisogna profittarne ». Ella deve apparirgli « triste, affettuosa, senza protezione e il resto farà bene la Nicchia. Una volta che si è intenerito allora viene rutto il resto ».
Ma l’incontro non avviene. I destini d’Italia si compiono Nicchia ne è informata come per caso in una lettera del 12 agosto 1859 del Principe che le parla delle sue speranze di ottenere una carica lucrosa e in fine incidentalmente annunzia che a Villafranca si è concluso l’armistizio e che la guerra è finita.
Credo che tutto ciò basti a demolire la leggenda di una Nicchia che « ha fatto l’Italia », come ella lasciava credere nei suoi ultimi anni di vita.

Eucardio Momigliano

LaStampa 14/03/1959 – numero 63 pagina 3
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L’audace Contessa che si è fatta l’Italia
La nobildonna di Castiglione, vera artefice dell’Unità. Sostenne i patrioti passando per il letto di Napoleone III (e non solo…)
GILBERTO ONETO

Pagine da libero

A tutti gli eroi delle patrie battaglie è dedicato un ricordo, una commemorazio¬ne: a tutti, tranne uno. Anzi una.
L’Italia unita ha tanti padri: Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour e Giuseppe Mazzini. Di madre invece ce n’è scrupolosamente una sola, ma la si nasconde, forse perché quello italiano è un patriottismo maschilista ma anche bigotto. Così dal patrio album di famiglia è stata fatta sparire l’immagine della “mamma della Patria”. Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria è nata a Firenze il 22 marzo 1837 dalla fiorentina Isabella Lamporecchi e dal marchese spezzino Filippo Oldoini. La paternità non è certissima: la disinvolta contessina Isabella si sarebbe infatti intrattenuta con grande cordialità con il Granduca di Toscana, con Luigi Bonaparte (poi diventato Napoleone III), con un Savoia, con il nobile polacco Giuseppe Poniatowski, e addirittura con un cardinale.

cavourUna splendida cugina
In ogni caso la fanciulla è bene imparentata: il padre ufficiale è cugino di secondo grado di Cavour e amico di Massimo D’Azeglio, che conia per la fanciulla il nomignolo di Nicchia, da Virginia passando per Virginicchia. Al Congresso di Parigi, Cavour viene definito «il brutto cugino della bella cugina». Infatti Nicchia è di una bellezza sconvolgente, è anche sveglia, intelligente e piena di vita. Il 9 gennaio 1854 sposa, a 17 anni, il conte Francesco Verasis di Castiglione Tinella e di Costigliole d’Asti, assumendo così il titolo con cui è consegnata alla storia: contessa di Castiglione.
Nel giro di un anno scodella un figlio e si lancia in un vorticoso giro di relazioni amorose. Delle straordinarie doti della cugina si accorge subito Cavour (uno dei pochi – per quel che se ne sa – a non averne sorseggiato neppure un po’ le grazie), che la affida a Costantino Nigra per un’operazione di spregiudicata diplomazia segreta: farle sedurre l’imperatore di Francia e “indirizzarlo” verso l’appoggio alla causa dell’unità italiana. Confessa Cavour: «Se facessimo per il nostro personale interesse quello che stiamo facendo per l’Italia, saremmo le persone più spregevoli del mondo».
Nicchia ci si butta con l’entusiasmo dei suoi 19 anni e si occupa dell’uomo più potente d’Europa, che era amico della sua famiglia e “molto amico” di sua madre: dettaglio che ha spinto i più maliziosi a ipotizzare una complicazione incestuosa. In ogni caso lo infervora all’ideale unitario e gli fa assaporare le voluttuose brezze della redenzione italiana. Ma esagera in slancio patriottico: oltre a Napoleone, concede le sue fragranze anche a Nigra e a uno stuolo di ammiratori altolocati, suscitando le invidie delle dame di corte e pruriti alla pur spaziosa fronte imperiale.
Nicchia viene perciò esiliata da Parigi alla fine del 1857, ma ormai il suo compito è stato portato fruttuosamente a termine: Napoleone si è invaghito della causa sabauda e a Plombiéres mette nero su bianco il suo impegno. Riconoscendone lo straordinario apporto “diplomatico” alla causa nazionale, Urbano Rattazzi l’ha chiamata «la vulva d’oro del nostro Risorgimento», titolo con cui dovrebbe essere consegnata alla storia con il meritato rilievo.
Delusa per la scarsa riconoscenza della patria (tutte le spese della spedizione parigina sono state pagate dal povero conte Verasis), Nicchia se ne torna a casa, dove si consola diventando l’amante di molti altri baldanzosi eroi risorgimentali, come Emilio Faà di Bruno (perito a Lissa) e Guglielmo Acton (l’ufficiale borbonico che a Marsala «non aveva visto» lo sbarco garibaldino, poi diventato ammiraglio e ministro italiano), ma anche di politici e finanzieri, come i fratelli Rothschild, la cui frequentazione e familiarità le permette di accumulare una discreta fortuna economica in speculazioni di Borsa.

Gigantografia nuda
Diventa anche l’amante fissa del re per qualche stagione e spunta una pensione annua di 12.000 franchi per i servigi alla patria: dopo la morte di Vittorio Emanuele è stata trovata nel suo studio una gigantografia della contessa nuda, subito pudicamente distrutta, nascosta in un sottofondo assieme a 20 milioni di lire che malelingue associano al “prestito” che il banchiere Domenico Balduino avrebbe fatto al re in occasione della cessione del monopolio dei tabacchi, fra il 1868 e il 1869. Uno scrigno con le due più grandi passioni regali: il danaro e le grazie muliebri.
Negli anni che seguono, la sua dedizione a intessere rapporti diplomatici si rende ancora utile nel creare contatti con lo Stato della Chiesa (sarebbe interessante esplorare la versione curiale del suo bagaglio relazionale) e nell’aiutare la Francia a mitigare le conseguenze della sconfitta del 1870.
La Francia diventa la sua vera patria, si trasferisce a Parigi nel 1872 e lì resta fino alla sua morte, nel 1899. Viene sepolta nel cimitero parigino di Père Lachaise perché il governo italiano si rifiuta di accoglierne le spoglie: un brutto gesto di ingratitudine per una donna che ha fatto di più (e di meglio) di ogni altro per l’unità. Nicchia ne ha totale coscienza, avendo più volte affermato: «Ho fatto l’Italia». Aveva solo ragione.

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mercoledì 02.03.201