Francesco Proto Duca Di Maddaloni-Mozione del Novembre 1861

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RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO “MOZIONE DI INCHIESTA d Deputato FRANCESCO PROTO DUCA DI MADDALONI” estratto dall’Osservatore Romano.
Società Tiografica  A. GILLETTA 1862
(a cura del Prof.Renato Rinaldi)

Nella tornata dei 20 novembre 1861 il Deputato di Casoria Francesco Proto Duca di Maddaloni, deponeva sul banco della Presidenza della Camera elettiva la sua mozione, annunziando le seguenti parole :

Io mi oso di presentare alla Camera questa mia mozione d’inchiesta parlamentare per i fatti che si passano nelle provincie napolitane. Essi sono di tal natura, che richieggono pronti rimedi, e soprattutto rimedi, giusti e saggi. Nè ciò solamente è necessario per la salute del mio paese, ma sì per la salvezza di tutta Italia ad un tempo. La quistione napolitana; oggi non è quistione di colori, la questione napolitana è quistione di onore.
Egli è perciò che io mi sono deciso a scrivere le mie idee intorno ad essa, e presentarle sul banco della Presidenza, persuaso che cosi saranno meglio ponderate, che ciascuno in sè medesimo saprà più facilmente convenire della verità di ciò che narro e della opportunità dei rimedi che propongo. Ed ho divisato cosi governarmi, memore del volgato proverbio, che le parole volano e gli scritti rimangono, e però io spero non poter venire un giorno appuntato di aver assistito taciturno alle calamità del mio paese.

Onorevoli Signori.

Deputato della destra , e però non accusato mai nò sospetto di caldeggiare idee avverse alla monarchia costituzionale, od a quel pacifico andare che ò la ragion suprema ed obbiettiva, la idea archetipa di ogni reggimento ; eletto da quel collegio istesso che l’ anno 1848 mi deputava al Parlamento Napoletano , e vincitore nell’agone elettorale , tuttociò con assai male arti facesse guerra alla mia candidatura la oscena setta dei piemontizzatori , a quei di trapotente in questo mio infelicissimo paese; cittadino napoletano, e sin dalla prima età caldo e costante zelatore del bene e dell’ onore della mia patria; avea fatto disegno di levar finalmente la voce contro le enormità di codesto governo in queste provincie meridionali , si tosto sarebbersi riasscmbrati nell’aula parlamentare i rappresentanti della nazione. Ma troppi, e troppo gravi sono i fatti dei quali io deggio far parola, nè forse saprebbe esporli la mia inesperienza oratoria nè alle Onoranze Vostre piacerebbe forse lo ascoltargli tutti quanti — Ma frattanto il male imperversa, e corre a rovina lo Stato, e l’ignominia piove a dirotto sul nostro capo. Però io credo debito della mia coscienza e dell’ onor mio lo affrettarmi a presentare questa mozione d’inchiesta, avvalorata dalle ragioni che a ciò mi spingono, perchè Voi non possiate dire di non aver saputo dello stato vero della nostra cosa, ed io, quando che sia, non possa venire accusato di essermi taciuto o peritato innanzi al potere esecutivo; perchè io non sia posto fra coloro che, tempo non tarderà, saranno additati come assassinatori, come patricidi del loro paese; perchè i miei figliuoli non abbiano un dì a vergognare di un nome che ereditai senza macchia.

Il Marchese Dragonetti Senatore del Regno, scrivendo testé delle nostre sventure, diceva il Plebiscito del 21 ottobre 1860 “ figlio di un passaggiero entusiasmo,
e che nel vero fu voto di sudditanza a Re Vittorio Emmanuele, e non già di abdicazione della propria personalità. „
Ed io, dove modestia il permettesse, aggiungerei alle parole di quell’illustre uomo di stato, che il Plebiscito del 21 ottobre, non che di passaggiero entusiasmo, era anche figliuolo della temenza incussa agli abitatori di questa nostra contrada, non tanto dalla presenza delle già arrivate armi piemontesi, quanto dall’anarchia nella quale eravamo per cadere, e dalla quale credevamo il governo piemontese ci avesse a salvare.
Per i popoli, qualunque esso sia, è vitale bisogna un governo; perciocchè l’assenza di esso è peggiore di ogni tirannide. I popoli del Napoletano (non c’inganniamo
fra noi, non partiamo da falsi dati) sorpresi, affascinati da maravaglioso ardimento, stanchi di una signoria che contrastava loro le giuste aspirazioni di libertà e d’indipendenza italiana, accolse amico il Garibaldi.
Ma fasstiditi ben tosto, di lui no, ma degli uomini che per esso reggevano, o meglio sgovernavano la pubblica cosa e paurosi, ripeto , dell’anarchia, accettarono il partito di darsi a Casa Savoia; ed oggi abborrenti dalla tirannide e dalla rapacità piemontese, ed inorriditi dell’anarchia, la quale sotto il Garibaldi era alle porte del regno, ed oggi vi si è messa dentro e regnavi ferocemente, darebbersi a qualsiasi uomo o dimonio il quale, non il bene di queste contrade promettesse fare, sì il loro male minore. I popoli del napoletano non volevano i Piemontesi. Chi ciò niegasse non meriterebbe risposta, perchè uomo compro o demente — I popoli del Napoletano non volevano i Piemontesi: ma il Governo Subalpino, aggraffando fortuna per la gonna, avrebbe dovuto esso fargli volere e rendergli necessari. A ciò non si perviene se non coi benefizi e con il buon reggimento.
Bisognava il Governo Subalpino tenesse parola, divenisse daddovvero ciò che aveva promesso sarebbe, un governo riparatore.

E che facevano invece gli uomini di stato del Piemonte e i partigiani loro che qui nascevano? Hanno corrotto quanto vi rimanea di morale: hanno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da taanto secolo ammassate: hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane,del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo, dove contro Iddio potesse combattere umana potenza ! Hanno insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore. Il Governo di Piemonte toglie dal banco il danaro de’privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le accademie; annulla la pubblica istruzione; per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia; al reggimento delle provincie mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni; caccia nelle prigioni, nella miseria, nell’esiglio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi siano o no, che anzi più facilmente se onesti) ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato; ogni giorno fa novello oltraggio al nome napoletano,
facendo però di umiliare cosi nobilissima parte d’Italia; pone la menzogna in luogo di ogni verità;travolge il senso pubblico e le veraci idee di virtù e di onoratezza ; arma contro ai cittadini i cittadini; e tutti in una vergogna conculca e servi e avversari e fautori. II Governo Piemontese trucida questa metropoli che la terza è di Europa per frequenza di popolo, e la prima d’Italia per bellezza di doni celesti e la più gloriosa dopo Roma; questa metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo, questa stata sedia di tanti re potentissimi, che regnavano o proteggevano quasi tutti gli altri stati d’Italia e, sotto ai principi di Soave, capitale dello impero; e dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera ed alla meno nobile delle città d’Italia, a Torino la cui storia nelle istorie della penisola occupa non più lunghe pagine, che quelle dei feudi di Andria o di Catanzaro o di Atri o di Cotrone, ora le viene a togliere anche il misero decoro di una luogotenenza, a strapparle anche quel frusto di pane che un contino od un goneraletto di Piemonte potrebbero gittare dall’alto de’ sontuosi palagi dei suoi re.

Quando io mi recava a Torino per vacare ai lavori parlamentari, per cercar col mio povero ingegno che cosa di bene potessi fare pel mio sventurato paese, per portare
portare anch’io una pietra onde far puntello alla ruina della patria, fui a visitare il Conte di Cavour. E gli dicea provvedesse, pensasse a Napoli, non ponesse tempo in mezzo, che Italia dove volesse o potesse davvero unificarsi non potrebbe ciò che con Napoli, per Napoli ed a Napoli. Però portasse sulla plaga delle Sirene la sedia del nuovo regno.

— Ma non si deve andare a Roma ?
Mi rispose, domandando graziosamente quell’ illustre, che certo era il piò amabile spirito che io mi conoscessi.
Ed io dissi lui, che per verità non credevo a Roma si anderebbe mai, e che per le mie opinioni religiose e conservatrici non desiderava punto; che non avrei mai voluto Italia perdesse la sua maggior gloria, e tutta la società civile la pietra angolare che è il Papato. Dissi credere che il Pontefice Romano non potrebbe diventare il Cappellano del Re d’Italia. — A Roma il Re d’Italia potrebbe prendervi sì la corona, ma non sedervi a’piedi di tanta grandezza sovramondana: e dopo non brevi parlari (ne’ quali il nobile conte diedemi bella prova delle sue piacevolezze) concluse egli che in fin delle fini ben comprendeva, Italia non potrebbe governarsi da Torino e, dove Roma non si potesse avere, certamente Napoli, dove gravita il pondo della penisola, sarebbe la sua capitale. — Però non è mestieri confessi come io, Torinese di Napoli, mi accontentassi facilmente a tali porole, ed a tali condizioni non mi spiacesse molto la unità d’Italia. — Vedevo già Roma sedia santissima ed inviolabile della santissima maestà de’Pontefici, la Chiesa libera in libero stato, e Napoli divenuta metropoli d’un regno di 24 milioni di uomini e sedia dei Re d’Italia,siccome fu de’Romani Imperatori in antico. A tal prezzo raffreddavasi un tantino il mio amore per la confederazione italiana, per il prcculiare progredimento e la grandezza
delle singole parti della penisola….

Ma, tornato in patria, vidi che il Governo di Piemonte non cuciva ma tagliava e, più che tagliare, strappava e lacerava alla impazzata; ed oggi che esso non può più baloccarci colla parola Roma, che nei gabinetti d’Europa è stabilito a Roma non potervisi andare oggi ne mai, che fa ogra il Governo Piemontese? Trasferisce a Napoli la sedia dello stato? Rende a Napoli quel che le ha tolto? Cessa dal frodarne le ricchezze, dallo spogliarla de’suoi istituti e delle sue leggi e de’ suoi uomini, dallo insanguinarne la terra, dallo incendiarne le province?

No! Il governo di Piemonte le toglie ora pur l’ombra della sua autonomia; il governo di Piemonte la diserta d’ogni reliquie di reggimento, le toglie i ministeri, gli archivi, il banco del denaro de’privati, i licei militari, fa di suscitare il municipalismo delle province contro a quello dell’antica metropoli, senza addarsi che per ciò non ribellerà mal a Napoli le altre città del suo reame, ad essa congiunte per interessi e per gloria antichissimi, ma adescherà l’anarchia provinciale: dove di altra esca che della stessa dominazione piemotense avesse bisogno l’anarchia.

Ma abbiamo l’Unità! — Diranno le Onoranze Vostre. E sia pure. Ma io ricordo che Italia era Una anche sotto Tiberio e gl’imitatori di lui. Aveva le forme liberali, un
senato, una potestà tribunizia, due consoli, libertà municipale quant’hai voglia; e pure era serva, era misera, era cortigiana, era vile. Certo voi non la vorreste così.
Voi non vorreste rinnovellato il tempo di Odoacre, sotto le cui orde barbariche anche era Una l’Italia! Bella unificazione è quella di una contrada cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie ! — E pure questi misfatti perpetrano gli uomini preposti oggi alla cosa pubblica: essi che spengono ne’nostri popoli anche le dolci illusioni di libertà , che gli fan vedere come un reggimento costituzionale di leggieri potesse diventar sinonimo di despotismo; come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente si violarsi il domicilio, il segreto delle lettere, e la libertà personale si potesse manomettere e sin le forme stesse della giustizia; e gli accusati tener prigionieri ed ingiudicati lunga pezza, e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale o per sospetto o per delazione di qualche scellerato. Questi uomini ci danno a divedere come illusoria dovesse tornare la libertà della stampa, libera a Napoli per i servi non per gli amatori del pubblico bene; come si potesse violar impunemente, quando si voglia lo statuto fondamentale, senza che vi sia uomo o potere che vi metta inciampo o che ne faccia querela.E vulnerato hanno essi non una volta la Constituzione del 4 marzo 1848. — La violarono per la instituzione delle luogotenenze e poi per l’abolizione di esse, senza aver consultato le camere che le consentivano: la violarono con il concedere eccezionali poteri ai loro uomini: la violarono per la istituzione delle prefetture e il discentramento di non poche facoltà del ministero e per le quali, se timido il prefetto,il governo cadrà nell’inerzia; se arrischiato, le provincie gemeranno sotto il despotismo prefetturale: e violavasi finalmente quando testè cangiavasi il nome di ministro degli affari eeclesiasiici in quello di ministro de’culti, quasi che, per lo Statuto del 1848, diverso e non uno fosse il culto della Monarchia di Savoia.

La loro smania di subito impiantare nelle provincie napoletane quanto più si poteva delle istituzioni di Piemonte, senza neppur discutere se fossero o no opportune,
fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce piemontizzare. L’opera de’fuorusciti, e massime di quelli che avevano vissuto a Torino, confermò troppo la sentenza del Macchiavelli che gli dicea fatali alla cosa pubblica, largamente mostrando essi come nel reggimento di queste provincie non fosse unità di sistema nè di massime, non mezzi, non fini deterniinati, non giustizia distributiva, ma invece espedienti di governo presi e dismessi secondo le esigenze de’casi, personali favori ed ire personali, sdegno della propria gente non amore di patria, non il paese ma una setta.
— Non indarno stettero uniti otto secoli queste nostre contrade, e l’abitudine della loro autonomia, già divenuta coscienza di nove milioni di uomini, non si può scancellare dll’animo con un tiro di penna di un dicastero di Torino o con Ingrata compiacenza di un esule. — Le leggi sono espressione della nazione e de’bisogni
dei popoli, e questi bisogni (di opinione o di fatti che siano) nascono dal clima, dall’indole degli abitatori, dal loro civile progredimento, dalle loro condizioni religiose, economiche, politiche, dagli errori stessi e dai pregiudizi! delle plebi, i quali quantunque pregiudizi ed errori non vogliono andar rispettati. Tutto ch’è di un popolo è sacro, e chi per suffragio di popolo si tiene in sedia misconoscerà questa massima?
Conciossiachè, se per la natura delle cose e la varietà delle umane vicende, egli è impossibile che due popoli si trovino in pari condizioni materiali e civili, opera tirannica è il costringere l’uno nelle leggi dell’altro, perocché le leggi senza i costumi vanno vòte.

Quid leges sine moribus ?

diceva il nostro Cantor Venosino,e veramente di questa loro inefficacia non può non nascere la ribellione e l’anarchia. Roma soggiogò il mondo, e le sue leggi tuttoché
civilissime e sapientissime non furono ricevute dai nostri popoli d’Italia e da quei di fuori che ben tardi e come jus moribus receptum. E l’avvocato Mancini, per bandire le leggi piemontesi, lesto venne da Torino e, non aspettando neppure il consentimento del Parlamento Italiano, gran numero di esse pubblicava per decreto luogotenenziale il 17 febbrajo, la vigilia stessa dell’apertura di questa assemblea.
E di altre (approvate in massa!) faceva inserire un indice nel giornale uffizliale dello stesso giorno, però che al consigilo di luogotenenza era mancato il tempo, non che di discutere, di leggerle: ed egli è per questo che quando, nei giorni posteriori al 18 febbrajo,fu letto e poi dato a stampa il testo di esse, nacque di santa ragione nell’universale la opinione che si pubblicassero leggi apponendovi l’antidata.

E già l’avvocato Scialoja aveva bandito le rovinose leggi finanzieri con che capovolse il sistema delle entrate napoletane, ciò che nè egli nè i suoi superiori potevano fare. E queste arrischiate pubblicazioni nelle loro epigrafi non portan neppure la parola unificazione, ma sì quella anche più dura dell’annessione.
Nè la pubblicazione di esse facevasi in tutto il novello regno, zoppo ed acefalo, però che nella Lombardia attuavasi il solo Codice Penale de’Sardi,e la Toscana(tranne l’introduzione dei giurati) continuò a reggersi colle antiche sue leggi. II Corpus juris del Napoletano e massime il codice penale e quello di penal pracedura, per
sentenza di tutt’i giureconsulti di Europa è di gran lunga superiore a quello degli Stati Sardi. Mutare il buono per il buono per il mediocre, se può parer bello ai ministri piemontesi, non parrà certo provvido ed opportuno espediente a nullo uomo di stato, che logicamente ponderi i mali e le necessità delle unificazioni di provincie.
Le leggi contro agl’istituti cattolici, in queste contrade superlativamente cattoliche, non poco valsero a confermar la taccia di miscredente e di nemico di Santa Chiesa, che si aveva il Governo Sabaudo fra i nostri popoli (siccome per tutt’Europa veramente) e l’abolizione dell’antica polizia ecclesiastica e de’concordati mise il caos nella Chiesa del Napoletano. Arroge la persecuzione pazza e spudorata de’più degni pastori, le violenze fatte al loro ministero, la prigionia e gli esilii, senza neppur forma di processo, de’più venerandi ministri del Santuario, e sin di un Principe della Chiesa, carissimo ai napoletani per virtù e per benefizi, e la morte data a non pochi di essi nelle insurrezioni provinciali, e gli scherni e gli oltraggi gettati a piene mani al Sacerdozio, alla Chiesa Cattolica ed al suo Capo visibile dai sicofanti della rivoluzione piemontese, ed il vedere i teatri fatti scuola d’immoralitùà, di miscredenza, di ateismo o cangiato in prostibolo tutto, e la propaganda eterodossa che il governo (si, il dirò pure) non che lasciar correre a sua posta, assai perfidamente spalleggia emanoduce, tali ire hanno acceso e messo tale barriera fra l’una parte e l’altra della nazione che, dove fosse ancor tempo di guerre religiose ed una riformazione od una scisma fosse creduta possibile, giù da più mesi il sangue cittadino avrebbe polluto le nostre vie ed i templi, per propugnare la Fede de’nostri padri e mortificare gli orditi de’novatori.
Ma questo non è tempo di religiose riformazioni. Roma è sul punto di guadagnare non di perdere nello imperio delle nazioni; nè noi crediamo possibile distruggere in Italia l’unica e naturale unità della penisola, l’unitù della sua Fede, culla e palestra di ogni italiana grandezza. No, noi non siamo uomini da fondar nuova chiesa, noi che non ancora sapemmo fare una legge comunale! — Quel Giovambattista Vico, del quale tanto ipocritamente onorasi oggi la memoria, teneva somma ventura di un paese la unità di religione.
Tiberio dettava leggi per castigare la impudicizia e la irreligiosità de’teatri, ed il governo piemontese si mostrerà anche più turpe di Tiberio?

Fu un ministro piemontese che testé scrivendo ai vescovi d’Italia, sacrilego, osava minacciare uno scisma, ove essi non parteggiassero per la rivolta, non si separas-
sero dal Successore del Maggior Piero. Furono i piemontizzatori che sfecero la Università Napolitana, però che le università sono ne’professori, e questi furono tutti destituiti per dar luogo ad uomini, i quali (tranne l’illustre Roberto Savarese, e non so quale altro) non sono già uomini di scienza ma di parte.
Furono i piemontizzatori che sottrassero l’insegnamento pubblico alla necessaria vigilanza dell’Episcopato, ed essi abolirono dall’Università Napoletana la facoltà di teologia, senza la quale non è università, e di cui sono accomodati gli studii protestanti e scismantici e quelli di tutte le religioni e delle loro sette.
Ahimè! Era la Università di Napoli, la scuola dell’Aquinate e del Vico quella ohe doveva ateizzarsi prima in Europa ? Ed uomini della nostra terra erano designati a porgere tanto scandalo al mondo civile ?

Certo non felice era sotto ai Borboni lo stato dello insegnamento superiore; ma pure non s’insediavano nelle cattedre che uomini di gran reputazione, un Galluppi, un Lanza, un Flauti, un de Luca, un Bernardo Quaranta, un Macedonio Melloni, il quale, tuttoché esule di Parma ed in voce di gran liberale, fu chiamato qui e deputato a non poche faccende politiche; ed il Melloni era raccomandato al Governo Borbonico da Francesco Arago repubblicano ardentissimo. — E peggiorato è anche lo insegnamento secondario. Sette licei sono in piena dissoluzione, peroccchè diretti da uomini inesperti, e non di rado illetterati ed immorali.E frattanto l’istruzione elementare non progredisce passo.I comuni mancano quasi tutti di scuole ad onta dei tanti ispettori, sotto-ispettori,organizzatori, bidelli, e scelti tutti tra i piemontizzatori, nè pochi venuti di Piemonte. Per uomini del governo piemontese fu dato lo scandalo singolare della dissoluzione della famosa Accademia Napoletana delle Scienze e di Archeologia, e l’Istituto di Belle Arti venne abolito con un decreto di luogotenenza.
Ira di parte gl’istigava a ciò, ed in questo hanno gloria di aver passato i Delcaretto, i Peccheneda, i Mazza, gli Ajossa che non consigliavano a cacciar dal sodalizio de’dotti quegli di opinioni contrarie al reggimento assoluto, il
Borrelli, il Capocci, il Bozzelli, il quale venne nominato socio dell’accademia, appena reduce dall’esilio, benchè spesso braccheggiato dai cagnotti della polizia.
Fu tenuta scelleranza il vedere tolto l’Osservatorio Astronomico al Capocci dopo la rivoltura del 1848. Si diceva a Napoli e fuori “ che ci ha che fare la politica con l’Astronomia? „
Eppure il pauroso governo della reazione permetteva il Capocci liquidasse la sua pensione di giustizia ed a lui sostituiva il de Gasparis, astronomo, per certo, non men peritissimo del Capocci. Ma io non verrò facendo qui il parallelo degli uomini e de’fatti del Governo Borbonico e del nostro; questo farò altrove se giova; e pregovi frattanto notare che il bilancio del ministero d’istruzione pubblica del Napoletano, sotto ai Borboni presentava la spesa di ducati 378.442.92, e dopo la rivoluzione la spesa di ducati 543.499.91; e malgrado l’aumento di ducati 165.056.69, la pubblica instruzione, non che peggiorare, perisce.

Tutto disfacendosi per sistema, cercarsi distruggere anche la Zecca di Napoli, che è la prima dopo quello di Londra e di Vienna, che è superiore anche alla Zecca di Parigi, e sottomettesi a vergognoso processo lo antico Reggente di essa, ed il Presidente della gran Corte dei Conti, nè pochi altri bravi ed onesti uffiziali, per dar ragione del valore della moneta napoletana, moneta eccellente di tanto, che come esce di regno, vien rifusa. — Nè forse sapevasi in Piemonte come la Zecca di Londra mandasse a Napoli le sue monete per farne il saggio?— Ma questo è provvisorio — mi si risponderà; e così ad un provvisorio supponendo per solito, altro provvisorio, e spesso di gran lunga peggiore, testé per il governo de’luoghi di pena mandavasi da Torino il Regolamento e bandi per li bagni fatto a tempo di re Carlo Felice, e segnato dal primo segretario di guerra e marina des Geneys, il quale regolamento ricorda ancora i tempi in cui i servi di pena erano costretti al remo, e che però rimanda anche piò addieltro il già vecchio sistema penitenziario del Napoletano. La bella appendice che potrebbe fare il Gladstone alle sue lettere, ove leggesse questi regolamenti e bandi per li bagni del des Geneys!

E per le finanze che cosa vi dirò io? Nell’anno 1860 il reame di Napoli pagava un esercito di 100 mila uomini, una marineria ch’era fra le prime di secondo ordine, una
lista civile ed una rappresentanza all’estero: e questi quattro rami costavano una spesa annuale di duc. 16.203.625:—Oggi che queste provincie non pagano più nè esercito, nè armata, nè corpo diplomatico le entrate non bastano neppure alle spese degli altri rami di pubblico servizio! Le entrate napoletane nel bilancio del 1860, erano prevedute per la somma di duc. 30.135.442: —Questa cifra, non poteva essere più la stessa nell’anno 1861, essendo partita da Napoli la Sicilia, epperò veniva necessariamente ridotta di tutta la quota che la tesoreria dell’isola pagava a quella delle provincie continentali, in ducati cioè 4.157.525; e però le entrate delle provincie napoletme nell’anno 1861 andavan ridotte alla somma di duc. 25.977.917. — So ben io come a questa prima riduzione bisognasse aggiungerne altre, quale la modificazione delle tariffe doganali, la restituzione dei dazii di consumo alla città di Napoli, la diminuzione del prezzo dei sali, ed altre, e per le quali le entrate trovansi ridotte a duc. 22.408.659. E frattanto l’aumento di spesa dell’auno 1861 sul 1860, è di duc. 4.126.79,87, fra i quali figurano per aumenti di soldo ducati 1.578.894,18, e ducati 602,000, per aumento di pensioni di giustizia ed interessi del debito pubblico, e ducati 1.935.905,69, per aumento di spese di servizio. Ma dove si considera che nel detto aumento per le spese di servizio i soli lavori delle regie ferrovie figurano per ducati 1.302.000.e che questa somma va depennata per essere state vendute codeste ferrovie; e se d’altra banda ci facciamo a notare come le pensioni di giustizia per fnnzionarii pubblici messi al ritiro fossero aumentate di altri ducati 440.000 a tutto marzo 1861, e che il debito pubblico è cresciuto anch’esso di ducati 500.000, di rendita, ne inferisce che quasi tutto il disavanzo nasce dallo aumento dei soldi, del debito pubblico e di pensioni a funzionari messi al ritiro per cedere ad altri il loro posto, per pagare i facitori della presente rivoltura. Questo fatto è ben lo specchio che riflette la oscena opera degli uomini preposti alla pubblica cosa; e nella dilapidazione dello erario del Napoletano chi non saprebbe affigurare la ragion vera delle sventure che per noi si durano?

E dopo tanto sperpero della publica pecunia è egli ricco il popolo? — Ha pane, ha lavoro, suprema bisogna dell’umanità? — Intere famiglie veggonsi accattar l’ele-
mosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi e per lo annullamento delle
tariffe e per le mal proporzionate riforme; null’altro in fatto di pubblici lavori veggiamo fare se non lentamente continuarsi qualche branca di ferrovia o metter pietre inaugurali di opere che poi non veggonsi mai cominciare o continuare. E frattanto tutto si fa venir di Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato, che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A mercanti di Piemonte dannosi le forniture della milizia e delle amministrazioni, od almeno le più lucrose: burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napoletani e di una ignoranza e di una ottusità di mente cne non teneasi possibile dalla data gente del
mezzodì. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi, ed i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napolitani. A facchini della dogana, a car-
cerieri, a birri vengono uomini di Piemonte, e donne piemontesi si prendono a nudrici nell’ ospizio dei trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.
Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il Governo di Piemonte vuole trattar le provincie meridionali come il Cortes od il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico,come i Fiorentini nell’agro pisano, come i Genovesi nella Corsica, come gl’ Inglesi nei regni del Bengala.
Ma esso non le ha conquistate queste contrade; perciocché non é soggiogare un paese il prepararsene l’ausilio per cospirazioni od il corromperne e lo squassare la fede dello esercito ed il comperarne i condottieri ed i consiglieri del principe indurre al tradimento. Soffrite pur che il diciamo, il governo piemontese fa a Napoli come quel parassito che, invitato a desco fraterno, ne porta via gli argenti. E questa sua avarizia non è di lieve momento nella opinione invalsa nell’universale che la signoria subalpina sia fuggevole, però che non cape nel senso popolare il pensiero che si distrugga la casa nella quale si voglia far stanza.

Lo scioglimento dello esercito borbonico fu poi il più grave delitto del Governo Pieinontese, perciocchùè per esso sperperandosi follemente un gran nerbo di forza italiana, facevasi sempre più fiacco il nuovo regno, e serviva maravigliosamente il talento de’politici austriaci, che mal vedevano l’esercito delle provincie
meridionali si aggiugnesse a quello delle subalpine.
Ed ingiusta, e dirò più, bugiarda è la brutta taccia di codardia che il Barone Ricasoli insultando al vinto (al tradito dirò meglio) davagli nella sua famigerata nota
circolare del 24 agosto; perciocchè diversamento dicevano di esso esercito: ed il Garibaldi ed il Cialdini, e perchè i ministri di Piemonte (cerchino pure nel pro-
fondo della loro coscienza) se da una ragione erano sospinti allo scioglimento di quelle armi, ben era da quella tema che esse incutevano loro; si della tema che un giorno, sbriacate del passaggiero entusiasmo, vergognando della servitù, scotessero il giogo piemontese e volgessero le armi contro all’esercito settentrionale e
ristaurassero il trono napolitano.
Il Governo di Piemonte sciolse l’ esercito napoletano, perciocché dove quello fosse stato ancora in sulle anni non potrebbe far così aspro governo delle nostre pro-
vincie. Ed esso oggi lo ingiuria ne suoi atti diplomatici? E vuole far una l’Italia? E ne oltraggia cosi la maggior parte: Però che dar del codardo ad un esercito
egli è schiaffeggiar la Nazione ond’esso venne descritto — E di que’ pochi uffiziali che non lasciavansi poltrire nell’ozio od invilirsi nella miseria o suicidarsi
(come fece taluno di essi per non veder perire dalla fame i figliuoli) che cosa ha fatto il governo piemontese? Ha rispettato i gradi che guadagnò loro il valore
guerresco e quella fede verso il proprio Re, che tanto saggiamente si onora dall’onorato esercito subalpino, e senza la quale non è esercito?
— No, il Governo di Piemonte doveva favorire le promozioni dei suoi conterranei — Re Ferdinando 1. di Barbone rispettò i gradi guadagnati dai suoi sudditi nello esercito Murattiano, che pugnava contro ai legittimi diritti della sua corona. — L’Austria rispettò tutt’i gradi guadagnati dai suoi sudditi della Lombardia, che combattendola sotto le bandiere di Napoleone il Grande, ed il governo di Piemonte non ha saputo imitare neppure la generosità deU’Austria!

Ne egli è a dire ch’esso cosi governavasi a riguardo dell’ esercito napoletano del mio paese per abborrimento di chi osteggiava l’Unità Italiana, o per deficienza di valore che trovasse negli ufficiali napoletani. Perciocché egli è da un alto personaggio del reame che io ho udito a dire esser egli ammirato del valore napoletano, trovar la napoletana artiglieria superiore di molto alla piemontese,e lo aver fatto così per sordida malizia,bene il dimostra il modo cbe ha tenuto contro all’armata, a quella marineria napoletana che impediva a re Francesco II il respingere i mille del Garibaldi e che diedesi mano e piedi legata al Piemonte….il che Dio le perdoni
e la storia.
Essa fu sciolta, fu riordinata, secondo che mi dice, al peggio, e con un tiro di penna vennero cancellate tutte le sue tradizioni, certamente piò antiche e gloriose di quelle della cosi detta Marineria Sarda. In questo nuovo ordinamento gli uffiziali della flotta napoletana avrebbero dovuto essere i primi, e sono divenuti gli ultimi, e venner privati de’soldi goduti per sovrani decreti, dei gradi meritati per pubblici esami o per fatti di valore, del diritto di liquidar essi medesimi o le loro vedove la pensione, per cui avevano lunghi anni rilasciato il 2 e 1/2 per cento de’loro averi. — Ed io non entrerò già difensore degli uffiziali dello esercito napole-
tano che, add istigazione della setta unintaria, e degli stessi diplomatici piemontesi, abbandonarono le bandiere il giorno della battaglia per starsi a Napoli
neutrali, o peggio per combattere contro al loro Re ed ai loro fratelli d’arme. Ma il governo piemontese che non ha riconosciuto i gradi conceduti ai valorosi difensori di Gaeta, perocchè difendevano ciò che è sacro per ogni uomo di onore, di qualunque parte, di qualunque nazione esso sia, la Religione della loro bandiera, bene avrebbe dovuto poi, non che rispettare quelli guadagnati dai disertori dell’esercito borbonico, levare a cielo le loro persone, far loro l’apoteosi. Ma non ha fatto cosi, e però fu malvagio o verso gli uni o verso gli altri. Ma gli uni e gli altri sono napoletani e sappiamo che non vi ha d’uopo di altra colpa per dispiacere a ministri piemontesi.
E forse fu anche per ragione politica lo sfacimento del collegio militare della Nunziatella, la miglior scuola politecnica d’Italia, e quello della nostra accademia
di marina, onde uscivano i Caracciolo, i Bausan, i de Cosa ? — Ma che dico io di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi generali, tanti
onorati uffiziali, sol per sospetto che nudrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nella fortezza di Alessandria, od in altre inospite terre di Piemonte? Che dirò io degli uffiziali deportati all’ isola di Ponza? — Loro delitto fu il militare per la corona, allora che re Francesco II ancora combatteva per essa sullo riviere del Volturno e del Garigliano o fra le mura di Gaeta? Lo averlo seguitato a Roma nell’infortunio ? —
Accomiatati dalla Maestà di Lui, si restituirono a Napoli, credendo sacra la guarentigia dell’Imperadore dei Francesi, e le promesse di Re Vittorio Emanuele .
Il piroscafo la Costituzione fu spedito a posta a Civitavecchia per abbarcarli e portargli in seno delle loro famiglie; ma appena afferrato a Napoli furono circon-
dati da un battaglione di bersaglieri e così condotti nel Castello del Carmine. Ivi furono ritenuti prigionieri 17 giorni e quindi deportati all’isola di Ponza.
Sono discorsi sei mesi, e quei miseri gemono ancora su quello scoglio selvaggio. I soli Siciliani ebbero facoltà di ripatriare; ma tutti i napoletani che furono o militari od uffiziali di segreteria non poterono essere vendicati in libertà, ed, incredibile a dirsi, non hanno che la misera sovvenzione di un carlino al giorno (quaranta centesimi e mezzo) coi quali non è possibile cibarsi salutevolmente. Muoiono dalla fame. Chieggono lavoro, nè lo si vuol concedere loro. Vi ha gentiluomini
che sonosi offerti anche a vangare la terra per buscarsi pane più sufficiente. — Però sono essi trattati peggio che i galeotti. E perchè mai? Qual delitto hanno commesso eglino, perchè il Governo Piemontese abbia a spiegar tanto lusso di crudeltà? Perchè abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigionia uomini nati in Italia come noi?

Ma più che stolta ed ingiusta , fratricida ed immanissima tornava la dissoluzione dello esercito napoletano, perocché essa diede agio ai soldati di questo di riassem-
brarsi e di affortificar l’ira di un popolo conculcato, che da per ogni dove insorge per la indipendenza della nazione napoletana contro alla signoria subalpina. L’esercito napoletono, tradito da’suoi generali, voleva mostrare al mondo che non era esso traditore nè codardo, e si ragunava ne’ monti e, benché privo di armi e di condottieri, piombava terribile contro ad un esercito non reo della sua oppressione. — Il sangue di questa guerra fratricida piombi su quelli che l’accesero, ed esso gli affogherà, perocche sono rei, di meglio che ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perchè prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati; e di 13 paesi innocenti dati in preda al sacco ed al fuoco. Essi colpevoli dello aver fatto nascere e fecondato la insurrezione, crede poterla vincere con il terrorismo, e con il terrorismo crebbe l’insurrezione,e così corrompesi anche quel solo di buono che avevasi il Piemonte,l’esercito piemontese; conciossiachè misero quell’esercito
che la necessità della guerra civile spinge ad incrudelire od abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta !

La mente mi si turba e tremami la destra in pensando le immanità che faranno terribilmente celebre la storia di questa rivoltura, e la quale io mi propongo descrivere in altra opera, avvalorandola de’documenti opportuni, si tosto le ire saranno calme. — Gl’imbelli che perirono in questa guerra passarono di gran lunga gli armati, ed infinite le famiglie che scorrono prive di pane e di tetto per la campagna e ricoverano come belve negli antri e nei sotterranei, e gli orfani che cercano indarno de’ loro genitori morti nelle fiamme del borgo natio o passati per le armi da’piemontesi o periti in luride prigioni, dove a migliaia stivansi i sospetti, decimati dalle febri e dalle altre infermità che ingenera un aere putrido e rarefatto. I delitti perpetrati in questa guerra civile ci farebbero arrossire della umana spoglia che vestiamo.
Gente della nostra patria vien passata per le armi senza neppur forma di giudizio statario, sulla semplice delazione di un nemico, pel semplice sospetto di aver nudrito o dato asilo ad un insorto.
Soldati piemontesi conducono al supplizio i prigionieri, negando loro i supremi conforti della Fede; nè a pochi feriti venne ricusata l’opera del cerusico, cosicché furono lasciati morire nelle onibili torture del tetano. Testé a Caserta furono fatti prigioneri due dei così detti briganti, e da due giorni si teneano in carcere digiuni.
Gridavano essi, pane! pane! E niuno rispondeva loro.
Finalmente fu schiuso il doloroso carcere, e quando que’miseri fecersi alla porta credendo ricevere alimento, furono presi e condotti nella corte e fucilati.

Si fece un’amnistia. — Era nn contadino di Livardi per nome Francesco Russo, il quale ferito nell’anca viveva da più giorni tranquillo presso la consorte e i figliuoli, sotto alla fede dell’indulto. Gli amici di lui dicevaugli si celasse, non si credesse alle proclamazioni del Pinelli; ma egli non voleva sentir parola e rispondeva non esser possibile che un militare di onore rompesse fede; e mentre che questi detti ei forniva, soldati piemontesi entrarono nella sua casa e condottolo a Nola, il fucilarono. Si bandì risparmiarsi la vita a chi presentavasi; ed uncontadino dell’agro Nolano per nome Luigi Settembre,soprannominato il Carletto,presentatosi a preghiera dei suoi vecchi genitori, de’quali era unica prole e sostegno, tosto venne immanemente fucilato, non altrimenti che fatto prigioniero nella pugna.
I due genitori superstiti, uccisa dal rimorso la ragione, vagano dementi per la campagna!
— Uno scellerato di Somma faceva che il capitano Conte del Bosco vi accorresse e prendesse sei pacifici cittadini (tra i quali un giovane ventenne, uffiziale della Guardia Nazionale, che giaceva presso della consorte cui da pochi dì erasi congiunto) e presi, senza forma di giudizio e senza conforto di religione, colà sulla pubblica piazza furono passati per le armi sul subito. II generale Manhès, il cui nome fa orrore anche ai più duri partigiani della rivoltura francese, combattendo i briganti delle Calabrie, non mandava mai a morte persona senza regolare processo. — Ahimè! E verrà giorno che soldati italiani si dirà essere stati più crudeli del
Manhès straniero!
Presso Lecce facevansi prigionieri tredici soldati borbonici, sbandati, i quali non avevano che sette fucili.

Si credeva alcuni di essi sarebbero risparmiati. Ma no: furono tutti e tredici fucilati. — Testé a Montecilfone erano sostenuti ottanta insorti, e ne venivano passati per le armi quarantasette. — Domata la insurrezione di Montefalcione, cinquanta dei ribellati pensarono scampare alla strage rifuggiandosi nel tempio. Ma i soldati piemontesi, rotte le porte, vi penetrarono, ed i miseri nella stessa Casa di Dio furono scannati. — Nel Gargano infiniti carbonieri furono presi per briganti e morti issofatto, tra le loro consorti e i figliuoli, accanto alle loro stesso fornaci.
Molti di essi venivano condotti a Napoli come trofeo…. e fu chiaro quelli essere miseri e pacifici villani! — S’incendiano nella campagna tutti gli abituri de’ contadini e le ville e le taverne in che possano ricoverare gl’insorti. Si tira addosso a tutti che portan farsetto di velluto, abito che credesi da brigante, ed a data ora ogni contadino dee abbandonnar il suo campo, pena la morte!..
Aimè! Mercè questo governo che ci asserisce, il soldato onde speravamo la franchezza d’Italia, è tenuto nelle provincie napoletane siccome nemico di Dio!

— Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed aperto l’uscio, videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una croce con molti ceri accesi. Volevano salvarle; ma quelle gridando: — Indietro… maledetti! Indietro! … Non ci toccate, lasciateci morire incontaminate!… Si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto sprofondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti.

Il giorno posteriore a tanto eccidio, all’incendio di due paesi, di Pontelandolfo e di Casalduni, l’uno di cinque l’altro di sette mila anime, leggevasi nel Giornale Ufficiale di Napoli il telegramma: Ieri tnattina, all’alba giustizia fu fatta contro Ponlelandolfo e Casalduni. (Dispaccio telegrafico da Fragneto Monforte 14 Agosto ore 7 a. m. —Giornale ufficiale di Napoli, N» 194).

No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portata la novella di quegli orrori!
Ma io non istarò a fastidirvi più a lungo con il racconto delle mille ferità di tal sorta, di che sono pieni gli stessi giornali officiosi ed ufficiali del governo, e le quali facevano e fanno tuttora terribile la insurrezione delle provincie napoletane; nè d’altronde capirebbe negli stretti limiti di questa mia mozione il novero dei truci episodi di una guerra civile, che dai monti di Calabria si stende nel Basilicato e nell’Apulia e di colà nel Capitanato e nel contado di Molise e nel Beneventano e nei monti di Avellino e nella Campania e negli Apruzzi, o de’saccheggi e degli stupri e dei sacrilegi che precedettero gl’incendi paurosi di Auletta, di S. Marco in Lamis, di Viesti, di Cotronei,di Spinello, di Montefalcione, di Rignano, di Vico di Palma, di Barile, di Campochiaro, di Guardiaregia, e delle già dette Pontelandolfo e Casalduni, però che non è mestieri conoscere tutto per chiarire la signoria piemontese immanissima.

Ed il Governo Subalpino rese crudele la guerra civile coi disperati e crudeli mezzi di combatterla: ed esso, cosi facendo, fa l’Unità, uccisa l’unione: però che un popolo cosi manomesso non dimenticherà mai le perpetrate scelleratezze, ed apporrà a tutta una provincia italiana i delitti di una setta, e cosi imperversando non sarà possibile neppure la confederazione degli antichi stati della penisola. — In ogni angolo dello nostre provincie sorgerà un monumento di questi giorni nefasti. Ogni campo si troverà gremito di croci sepolcrali: ogni capanna ricorderà le stragi di questo tempo: ogni tempio adornerà un altare espiatorio che ricordi la guerra fratricida: ogni provincia mostrerà i ruderi di una o più città incendiate, e colà trarranno in pellegrinaggio i nepoti delle nostre vittime, e gli additeranno ai
loro figliuoli siccome esempio terribile del dove possa condurre una nazione il voler attuare pensieri innaturali od immaturi.
-Il Governo Piemontese siccome è avviso all’universale, rimoveva dal reggimento di queste provincie il generale Cialdini ed il Pinelli, però che comprese inutile, anzi più micidiale tornare il terrorismo che la buona guerra. Ma un’altra cosa, per amor d’Italia, deh faccia! — Sciolga la guardia nazionale mobile, però che la pestifera sua instituzione non è adatta ad estinguere la guerra civile, ma ad eternarla. — Il dì che il Governo di Piemonte se ne sarà andato con Dio, non riposeranno già queste provincie, ma troverassi il padre armato contro il figliuolo, ed il fratello contro il fratello, ed un comune inizzito contro l’altro, e le ire non quieteranno, e sarà mestieri altra forza che nel sangue degli uni e degli altri spenga la guerra intestina.
Sappiamo a tutte queste accuse mi si risponderà il consueto — Ma come si fa? Tempi eccezionali vogliono eccezionali misure!

Ma io farovvi considerare che così dicendo scrivesi la difesa del Mazza o del Campagna, le cui molestie diventano giuggiole accanto ai rigori del Pinelli,del Galateri, del Negri, del general della Chiesa, ecc.
Anch’essi dicevan — Come si fa? Il Piemonte cospira contro il reame, e noi dobbiamo frustarne gli orditi.
No miei Signori: vi hanno leggi, vi son consuetudini che noi non possiamo violare senza oltraggiare le leggi stesse della natura, e la pubblica moralità dilaniare
senza scalzar le basi della società, la cui salute è di maggior momento alle genti che la grandezza del Piemonte o d’ltalia. — No, non credasi si possa fondare un imperio sulla lubrica base del sangue, nella sedia dell’ingiustizia, o senz’altra legge che quella della opportunità momentanea, o della sanguinosa e rapace necessità di stato. Nò il Governo Piemontese non fonda, ma distrugge — L’Austria dall’alto delle fortezze di Mantova e di Verona ci guata; e sapete voi perchè non muove ad assaltarne? — Perchè noi ci suicidiamo: e veramente nuovo pazzo sarebbe quello che tirasse sul nemico nell’ora stessa, che questi di per se gettasi nel precipizio.
E nel precipizio già avvalliamo noi, caduti in discredito fuori, e dentro divenuti esosi agli onesti. Ed io mi ho il triste conforto dello aver preveduto il danno, e di averne parlato alto da meglio che due anni. — Allora che uscito una seconda volta in ingiusto esilio, venni, diciotto mesi or sono, a Firenze, e mi fu parlato dei vasti disegni di unificazione, della prossima dissoluzione del reame napoletano, inorridii, gridai mercè, chiedeva avvisassero al che sarebbe di Napoli. Mi fu risposto da taluno;
— Napoli starà peggio ma noi staremo meglio!

Fremetti a tali parole. Desiderai piuttosto si eternasse l’esilio, che il ritornare a prezzo della ruina della mia patria

Però non i Piemontesi io ho in odio. Tolga Iddio che io abbia in anima avversione popolo d’Italia e popolo probo e valoroso, se non dotato di spiriti elevati e peregini. Ma quei Napoletani io esecro che qui conducendo i Piemontesi tradirono il Piemonte e la propria patria, e che di continuo diffamandola, istigano il governo subalpino a perpetrar lo spolio e la strage del loro paese. — Io parlo per ver dire: io parlo per amor di patria; troppo forte, siccome taluno unitario dicevalo (quasi che troppo potesse mai essere amore di patria) e qualunque sarà la vendetta della setta dei piemontizzatori, venga pure che io l’aspetto; però che peggior di ogni danno sarebbe sempre il rimorso e la pubblica maledizione.

E la maledizione pubblica è sul suo capo.

Da per ogni dove sorge una voce che lo condanna e lo vilipende. La città ed il regno son divise in fazioni, ma le fazioni tutte si accordano nell’abborrire gli uomini di essa.
E voi ben dovreste accorgervene, sapendo come non fosse qui giornale, che possa esistere e voglia difendere la dominazione piemontese, se non sia stipendiato e venduto. Perchè si spacci una scrittura deve condannarla, colmarla d’ingiurie, di disprezzo. Se vien fuora opera di un propugnatore dei diritti del popolo e delle antiche ed imperiture nazionalità, tosto non se ne trova piò copia, tutti correndo a leggerla avidamente; e se questa metropoli che le dice anatema, non insorge tutta quanta come un uomo solo contro alla signoria piemontese, egli è perchè vede che pere, perchò il generoso, l’indomito cavallo napoletano già da gran tempo fiutò il suo cadavere!
Si, la è questa la verità delle cose, non quella che va strombazzando una stampa meretrice, il mendacio comperato a dieci o più mila franchi per mese. E a che valse al
governo piemontese lo aver chiuso tutti gli aditi perchè la luce non possa uscire? A che vale lo aver compro i giornali più letti di Europa? Questi che l’anno scorso , mentre sua fortuna rigogliava, maledicevano di esso, ne dicean perduto; ed oggi ch’è morituro, lo dicono forte e vincitore ?
E pure non valsero ad ingannare persona. Tutt’Europa ora sa che n’è delle cose nostre, ed il nome del governo piemontese si oltraggia per ogni terra.

L’oro che profondeva esso per abbindolare l’opinione europea non ha ingannato che lui stesso, lui che non volendo far sapere verità, ha finito per non saperla egli me-
desimo, e che rimasto al buio, simile ai ciechi della parabola, procede appoggiandosi ai ciechi. — Egli è per i suoi errori che vien vilipesa la rappresentanza nazionale, tutta quanta creduta correa di esso. — Un gentiluomo già carissimo al popolo napoletano e del cui infortunio politico, nonché le provincie nostre ed Italia, tutta Europa dolorava, oggi perchè partigiano del governo piemontese, caduto è in abominio dell’universale, ed i suoi amici per difenderlo deggiono dirlo imbecille, scemo dalla prigionia l’intelletto.
Questo sì ne dia la misura della pubblica opinione, non il ciarlone favore di una gente compera o grulla, eterna fautrice del potere, di pochi disonesti che hanno per patria la cassa del tesoriere, sanfedisti di Savoia, che non è crudeltà cui non trovino valorosa, non disonestà che non dicano pudica, non ingiustizia che non proclamino proba, di pochi bellimbusti, troppo presto scappati dalla scuola, ed i quali accalappiati dai furbi o politicando per moda, giudicano bello l’andare delle cose, perchè bella è la divisa della cavalleria piemontese ed in “good condition” i cavalli.

Ed egli è per queste ragioni che io mi fo oso domandare le Onoranze Vostre vogliano votare un inchiesta parlamentare nelle provincie meridionali, ed avvisare però al
che possa farsi per tenere in pace od in fede queste contrade. — Il governo Piemontese pose mano ad ogni mezzo.
Della luogotenenza del Principe di Carignano io non parlo, perocché essa non fu che laido sperpero di pecunia, ed uno scherno per il nostro paese, allora che nel paese più grave d’Italia (ché sotto l’ilare suo aspetto il popolo più serio e più superbo della penisola é il napoletano), nella Galilea della Filosofia, mandavansi a Ministeri gente più da spasso che da lavoro.Ma sotto di essa luogotenenza nasceva e cresceva la guerra civile, ed il Conte di Cavour mandava il Conte di San
Martino, perchè impiantando la legalità e la moralità dove il ministero di Nigra e de’suoi predecessori avevano posto l’arbitrio e la corruzione, potesse pacificare il
paese.
Ma la rivoltura era già rigogliosa, aveva già guadagnato gli animi e le cose, e la onestà e la esperienza del saggio amministratore non valsero punto. Egli si trovò solitario, perchè gli onesti non accostavanlo e dei turpi non poteva valersi, nè voleva.
— Il Barone Ricasoli spedì il Cialdini perchè col terrorismo domasse il già fuggente paese: e questi tutto che chiamasse a lui d’intorno tutte le frazioni della parte
liberale, tuttocchè facesse spargere a torrenti l’umano sangue, nè cosa niegasse che alla rivoltura piacesse, neppur feriva il segno, e lascia la reazione più forte che non era sotto il Carignano ed il San Martino. — Ora mandasi il General Lamarmora perchè cerchi di ristabilire la legalità.
Il nome di Lamarmora, il so, suonava giustizia e fermezza: ma farà esso più o meglio che non fecero i suoi predecessori?
Un uomo del Governo di Piemonte che ne’scorsi mesi venne in queste proviucie per avvisare al da farsi, diceva comprendere bene come il regno di Napoli non fosse domabile, ma che Italia doveva unificarsi “grand méme”, e che però queste provincie sarebbonsi tenute come una Turchia.

Se questo è il pensiero dei ministri piemontesi, badino che il guanto non sia fieramente rilevato dal paese mio e dall’Europa: dall’uno in nome dell’onore calpestato e dalla sua indipeudenza; dall’altra in sostegno dell’umanità conculcata.
Badino perchè il giorno della Vendetta Divina non può tardare, nè tarderà. Il destino delle nazioni non è nelle mani dei ministri ma in quelle di Dio! II governo di Piemonte è superbo, nò mai fu superbo che non cadesse misero e vile.
Esso ha sparso il sangue fraterno, e su lui pesa la maledizione di Caino. Troppo, troppo sangue innocente grida vendetta contro di esso, troppi miseri dal fondo delle prigioni, dall’esilio, dalla povertà in che gemono gli maledicono, e quando sorviene loro il pensiero della patria, e quando dedesiderano il puio aere del loro cielo, e quando veggonsi i figliuoli e la consorte e i vecchi parenti estenuati e mordonsi per rabbia le mani e per fame. Avvisiamo dunque al da farsi. Rinsaviamo. Salviamo da più lunghi mali questa patria.
Cansiamo una invasione di stranieri, oggi che la Francia ci abbandona a noi stessi, che Roma non potete piò sperare, che il fantasima dell’Austria e della coalizione nordica ci sorge d’incontro minaccioso, che Italia, al modo che si è pretesa farla, non par piò possibile si faccia, che da non pochi è tenuto nullo il plebiscito e da moltissimi, anche ammettendolo, non è tenuto piò valido il poter nostro, come quello che alle condizioni di esso non più si conforma. Il governo di Piemonte non può superare le difficoltà interne, e dove anche bastasse a ridurre in fede le provincie napoletane, sorgerà giorno che tutti insolliranno gli spiriti d’Italia contro a questa egemonia piemontese, e per verità ciò che io, sei mesi or sono, consigliava («pportuno a fare Italia ( Delle cose di Napoli-Discorso del Duca di Maddaloni. Deputato a primo Parlamento Italiano.Torino, Dall’ Unione Tipografica Klitrice, 1861.) cioè il trasferire a Napoli la sede della monarchia, oggi noi saprei più suggerire, perciocchè lealtà di gentiluomo mel difende. Il governo piemontese metterebbe in compromesso l’antico, senza poter più serbare il novello acquisto.

Rinsaviamo dunque. Il male è più radicale che non si pensa. Non ama Italia soltanto quegli che la vorrebbe Una ed Indivisibile; ma quegli è più suo amico che
la vuole civile e concorde, piuttosto che barbara e discorde ed una e morta, purché in deserto feretro di regina.
Napoli 6 novembre 1861.

Il Deputato Proto
Duca di Maddaloni.
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deponeva sul banco della Presidenza della Camera elettiva la sua mozione, annunziando le seguenti parole :
Io mi oso di presentare alla Camera questa mia mozione d’inchiesta parlamentare per i fatti che si passano nelle provincie napolitane. Essi sono di tal natura, che richieggono pronti rimedi, e soprattutto rimedi, giusti e saggi. Nè ciò solamente è necessario per la salute del mio paese, ma sì per la salvezza di tutta Italia ad un tempo. La quistione napolitana; oggi non è quistione di colori, la questione napolitana è quistione di onore.
Egli è perciò che io mi sono deciso a scrivere le mie idee intorno ad essa, e presentarle sul banco della Presidenza, persuaso che cosi saranno meglio ponderate, che ciascuno in sè medesimo saprà più facilmente convenire della verità di ciò che narro e della opportunità dei rimedi che propongo.

Ed ho divisato cosi governarmi, memore del volgato proverbio, che le parole volano e gli scritti rimangono, e però io spero non poter venire un giorno appuntato di aver assistito taciturno alle calamità del mio paese.

Onorevoli Signori.
Deputato della destra , e però non accusato mai nò sospetto di caldeggiare idee avverse alla monarchia costituzionale, od a quel pacifico andare che ò la ragion suprema ed obbiettiva, la idea archetipa di ogni reggimento ; eletto da quel collegio istesso che l’ anno 1848 mi deputava al Parlamento Napoletano , e vincitore nell’agone elettorale,  tuttociò con assai male arti facesse guerra alla mia candidatura la oscena setta dei piemontizzatori , a quei di trapotente in questo mio infelicissimo paese; cittadino napoletano, e sin dalla prima età caldo e costante zelatore del bene e dell’ onore della mia patria; avea fatto disegno di levar finalmente la voce contro le enormità di codesto governo in queste provincie meridionali , si tosto sarebbersi riassembrati nell’aula parlamentare i rappresentanti della nazione. Ma troppi, e troppo gravi sono i fatti dei quali io deggio far parola, nè forse saprebbe esporli la mia inesperienza oratoria nè alle Onoranze Vostre piacerebbe forse lo ascoltargli tutti quanti — Ma frattanto il male imperversa, e corre a rovina lo Stato, e l’ignominia piove a dirotto sul nostro capo. Però io credo debito della mia coscienza e dell’ onor mio lo affrettarmi a presentare questa mozione d’inchiesta, avvalorata dalle ragioni che a ciò mi spingono, perchè Voi non possiate dire di non aver saputo dello stato vero della nostra cosa, ed io, quando che sia, non possa venire accusato di essermi taciuto o peritato innanzi al potere esecutivo; perchè io non sia posto fra coloro che, tempo non tarderà, saranno additati come assassinatori, come patricidi del loro paese; perchè i miei figliuoli non abbiano un dì a vergognare di un nome che ereditai senza macchia.

Il Marchese Dragonetti Senatore del Regno, scrivendo testé delle nostre sventure, diceva il Plebiscito del 21 ottobre 1860 “ figlio di un passaggiero entusiasmo, e che nel vero fu voto di sudditanza a Re Vittorio Emmanuele, e non già di abdicazione della propria personalità. „

Ed io, dove modestia il permettesse, aggiungerei alle parole di quell’illustre uomo di stato, che il Plebiscito del 21 ottobre, non che di passaggiero entusiasmo, era anche figliuolo della temenza incussa agli abitatori di questa nostra contrada, non tanto dalla presenza delle già arrivate armi piemontesi, quanto dall’anarchia nella quale eravamo per cadere, e dalla quale credevamo il governo piemontese ci avesse a salvare.
Per i popoli, qualunque esso sia, è vitale bisogna un governo; perciocchè l’assenza di esso è peggiore di ogni tirannide. I popoli del Napoletano (non c’inganniamo fra noi, non partiamo da falsi dati) sorpresi, affascinati da maravaglioso ardimento, stanchi di una signoria che contrastava loro le giuste aspirazioni di libertà e d’indipendenza italiana, accolse amico il Garibaldi.
Ma fasstiditi ben tosto, di lui no, ma degli uomini che per esso reggevano, o meglio sgovernavano la pubblica cosa e paurosi, ripeto , dell’anarchia, accettarono il partito di darsi a Casa Savoia; ed oggi abborrenti dalla tirannide e dalla rapacità piemontese, ed inorriditi dell’anarchia, la quale sotto il Garibaldi era alle porte del regno, ed oggi vi si è messa dentro e regnavi ferocemente, darebbersi a qualsiasi uomo o dimonio il quale, non il bene di queste contrade promettesse fare, sì il loro male minore. I popoli del napoletano non volevano i Piemontesi. Chi ciò niegasse non meriterebbe risposta, perchè uomo compro o demente — I popoli del Napoletano non volevano i Piemontesi: ma il Governo Subalpino, aggraffando fortuna per la gonna, avrebbe dovuto esso fargli volere e rendergli necessari. A ciò non si perviene se non coi benefizi e con il buon reggimento.
Bisognava il Governo Subalpino tenesse parola, divenisse daddovvero ciò che aveva promesso sarebbe, un governo riparatore.

E che facevano invece gli uomini di stato del Piemonte e i partigiani loro che qui nascevano? Hanno corrotto quanto vi rimanea di morale: hanno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da taanto secolo ammassate: hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane,del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo, dove contro Iddio potesse combattere umana potenza ! Hanno insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore. Il Governo di Piemonte toglie dal banco il danaro de’privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le accademie; annulla la pubblica istruzione; per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia; al reggimento delle provincie mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni; caccia nelle prigioni, nella miseria, nell’esiglio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi siano o no, che anzi più facilmente se onesti) ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato; ogni giorno fa novello oltraggio al nome napoletano,
facendo però di umiliare cosi nobilissima parte d’Italia; pone la menzogna in luogo di ogni verità;travolge il senso pubblico e le veraci idee di virtù e di onoratezza ; arma contro ai cittadini i cittadini; e tutti in una vergogna conculca e servi e avversari e fautori. II Governo Piemontese trucida questa metropoli che la terza è di Europa per frequenza di popolo, e la prima d’Italia per bellezza di doni celesti e la più gloriosa dopo Roma; questa metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo, questa stata sedia di tanti re potentissimi, che regnavano o proteggevano quasi tutti gli altri stati d’Italia e, sotto ai principi di Soave, capitale dello impero; e dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera ed alla meno nobile delle città d’Italia, a Torino la cui storia nelle istorie della penisola occupa non più lunghe pagine, che quelle dei feudi di Andria o di Catanzaro o di Atri o di Cotrone, ora le viene a togliere anche il misero decoro di una luogotenenza, a strapparle anche quel frusto di pane che un contino od un goneraletto di Piemonte potrebbero gittare dall’alto de’ sontuosi palagi dei suoi re.

Quando io mi recava a Torino per vacare ai lavori parlamentari, per cercar col mio povero ingegno che cosa di bene potessi fare pel mio sventurato paese, per portare
portare anch’io una pietra onde far puntello alla ruina della patria, fui a visitare il Conte di Cavour. E gli dicea provvedesse, pensasse a Napoli, non ponesse tempo in mezzo, che Italia dove volesse o potesse davvero unificarsi non potrebbe ciò che con Napoli, per Napoli ed a Napoli. Però portasse sulla plaga delle Sirene la sedia del nuovo regno.

— Ma non si deve andare a Roma ?
Mi rispose, domandando graziosamente quell’ illustre, che certo era il piò amabile spirito che io mi conoscessi.
Ed io dissi lui, che per verità non credevo a Roma si anderebbe mai, e che per le mie opinioni religiose e conservatrici non desiderava punto; che non avrei mai voluto Italia perdesse la sua maggior gloria, e tutta la società civile la pietra angolare che è il Papato. Dissi credere che il Pontefice Romano non potrebbe diventare il Cappellano del Re d’Italia. — A Roma il Re d’Italia potrebbe prendervi sì la corona, ma non sedervi a’piedi di tanta grandezza sovramondana: e dopo non brevi parlari (ne’ quali il nobile conte diedemi bella prova delle sue piacevolezze) concluse egli che in fin delle fini ben comprendeva, Italia non potrebbe governarsi da Torino e, dove Roma non si potesse avere, certamente Napoli, dove gravita il pondo della penisola, sarebbe la sua capitale. — Però non è mestieri confessi come io, Torinese di Napoli, mi accontentassi facilmente a tali porole, ed a tali condizioni non mi spiacesse molto la unità d’Italia. — Vedevo già Roma sedia santissima ed inviolabile della santissima maestà de’Pontefici, la Chiesa libera in libero stato, e Napoli divenuta metropoli d’un regno di 24 milioni di uomini e sedia dei Re d’Italia,siccome fu de’Romani Imperatori in antico. A tal prezzo raffreddavasi un tantino il mio amore per la confederazione italiana, per il peculiare progredimento e la grandezza  delle singole parti della penisola….

Ma, tornato in patria, vidi che il Governo di Piemonte non cuciva ma tagliava e, più che tagliare, strappava e lacerava alla impazzata; ed oggi che esso non può più baloccarci colla parola Roma, che nei gabinetti d’Europa è stabilito a Roma non potervisi andare oggi ne mai, che fa ogra il Governo Piemontese? Trasferisce a Napoli la sedia dello stato? Rende a Napoli quel che le ha tolto? Cessa dal frodarne le ricchezze, dallo spogliarla de’suoi istituti e delle sue leggi e de’ suoi uomini, dallo insanguinarne la terra, dallo incendiarne le province?

No! Il governo di Piemonte le toglie ora pur l’ombra della sua autonomia; il governo di Piemonte la diserta d’ogni reliquie di reggimento, le toglie i ministeri, gli archivi, il banco del denaro de’privati, i licei militari, fa di suscitare il municipalismo delle province contro a quello dell’antica metropoli, senza addarsi che per ciò non ribellerà mal a Napoli le altre città del suo reame, ad essa congiunte per interessi e per gloria antichissimi, ma adescherà l’anarchia provinciale: dove di altra esca che della stessa dominazione piemotense avesse bisogno l’anarchia.

Ma abbiamo l’Unità! — Diranno le Onoranze Vostre. E sia pure. Ma io ricordo che Italia era Una anche sotto Tiberio e gl’imitatori di lui. Aveva le forme liberali, un senato, una potestà tribunizia, due consoli, libertà municipale quant’hai voglia; e pure era serva, era misera, era cortigiana, era vile. Certo voi non la vorreste così.
Voi non vorreste rinnovellato il tempo di Odoacre, sotto le cui orde barbariche anche era Una l’Italia! Bella unificazione è quella di una contrada cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie ! — E pure questi misfatti perpetrano gli uomini preposti oggi alla cosa pubblica: essi che spengono ne’nostri popoli anche le dolci illusioni di libertà , che gli fan vedere come un reggimento costituzionale di leggieri potesse diventar sinonimo di despotismo; come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente si violarsi il domicilio, il segreto delle lettere, e la libertà personale si potesse manomettere e sin le forme stesse della giustizia; e gli accusati tener prigionieri ed ingiudicati lunga pezza, e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale o per sospetto o per delazione di qualche scellerato. Questi uomini ci danno a divedere come illusoria dovesse tornare la libertà della stampa, libera a Napoli per i servi non per gli amatori del pubblico bene; come si potesse violar impunemente, quando si voglia lo statuto fondamentale, senza che vi sia uomo o potere che vi metta inciampo o che ne faccia querela.E vulnerato hanno essi non una volta la Constituzione del 4 marzo 1848. — La violarono per la instituzione delle luogotenenze e poi per l’abolizione di esse, senza aver consultato le camere che le consentivano: la violarono con il concedere eccezionali poteri ai loro uomini: la violarono per la istituzione delle prefetture e il discentramento di non poche facoltà del ministero e per le quali, se timido il prefetto,il governo cadrà nell’inerzia; se arrischiato, le provincie gemeranno sotto il despotismo prefetturale: e violavasi finalmente quando testè cangiavasi il nome di ministro degli affari eeclesiasiici in quello di ministro de’culti, quasi che, per lo Statuto del 1848, diverso e non uno fosse il culto della Monarchia di Savoia.

La loro smania di subito impiantare nelle provincie napoletane quanto più si poteva delle istituzioni di Piemonte, senza neppur discutere se fossero o no opportune, fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce piemontizzare. L’opera de’fuorusciti, e massime di quelli che avevano vissuto a Torino, confermò troppo la sentenza del Macchiavelli che gli dicea fatali alla cosa pubblica, largamente mostrando essi come nel reggimento di queste provincie non fosse unità di sistema nè di massime, non mezzi, non fini deterniinati, non giustizia distributiva, ma invece espedienti di governo presi e dismessi secondo le esigenze de’casi, personali favori ed ire personali, sdegno della propria gente non amore di patria, non il paese ma una setta.
— Non indarno stettero uniti otto secoli queste nostre contrade, e l’abitudine della loro autonomia, già divenuta coscienza di nove milioni di uomini, non si può scancellare dll’animo con un tiro di penna di un dicastero di Torino o con Ingrata compiacenza di un esule. — Le leggi sono espressione della nazione e de’bisogni
dei popoli, e questi bisogni (di opinione o di fatti che siano) nascono dal clima, dall’indole degli abitatori, dal loro civile progredimento, dalle loro condizioni religiose, economiche, politiche, dagli errori stessi e dai pregiudizi! delle plebi, i quali quantunque pregiudizi ed errori non vogliono andar rispettati. Tutto ch’è di un popolo è sacro, e chi per suffragio di popolo si tiene in sedia misconoscerà questa massima?
Conciossiachè, se per la natura delle cose e la varietà delle umane vicende, egli è impossibile che due popoli si trovino in pari condizioni materiali e civili, opera tirannica è il costringere l’uno nelle leggi dell’altro, perocché le leggi senza i costumi vanno vòte.

Quid leges sine moribus ?

diceva il nostro Cantor Venosino,e veramente di questa loro inefficacia non può non nascere la ribellione e l’anarchia. Roma soggiogò il mondo, e le sue leggi tuttoché civilissime e sapientissime non furono ricevute dai nostri popoli d’Italia e da quei di fuori che ben tardi e come jus moribus receptum. E l’avvocato Mancini, per bandire le leggi piemontesi, lesto venne da Torino e, non aspettando neppure il consentimento del Parlamento Italiano, gran numero di esse pubblicava per decreto luogotenenziale il 17 febbrajo, la vigilia stessa dell’apertura di questa assemblea.
E di altre (approvate in massa!) faceva inserire un indice nel giornale uffizliale dello stesso giorno, però che al consigilo di luogotenenza era mancato il tempo, non che di discutere, di leggerle: ed egli è per questo che quando, nei giorni posteriori al 18 febbrajo,fu letto e poi dato a stampa il testo di esse, nacque di santa ragione nell’universale la opinione che si pubblicassero leggi apponendovi l’antidata.

E già l’avvocato Scialoja aveva bandito le rovinose leggi finanzieri con che capovolse il sistema delle entrate napoletane, ciò che nè egli nè i suoi superiori potevano fare. E queste arrischiate pubblicazioni nelle loro epigrafi non portan neppure la parola unificazione, ma sì quella anche più dura dell’annessione.
Nè la pubblicazione di esse facevasi in tutto il novello regno, zoppo ed acefalo, però che nella Lombardia attuavasi il solo Codice Penale de’Sardi,e la Toscana(tranne l’introduzione dei giurati) continuò a reggersi colle antiche sue leggi. II Corpus juris del Napoletano e massime il codice penale e quello di penal pracedura, per sentenza di tutt’i giureconsulti di Europa è di gran lunga superiore a quello degli Stati Sardi. Mutare il buono per il buono per il mediocre, se può parer bello ai ministri piemontesi, non parrà certo provvido ed opportuno espediente a nullo uomo di stato, che logicamente ponderi i mali e le necessità delle unificazioni di provincie.
Le leggi contro agl’istituti cattolici, in queste contrade superlativamente cattoliche, non poco valsero a confermar la taccia di miscredente e di nemico di Santa Chiesa, che si aveva il Governo Sabaudo fra i nostri popoli (siccome per tutt’Europa veramente) e l’abolizione dell’antica polizia ecclesiastica e de’concordati mise il caos nella Chiesa del Napoletano. Arroge la persecuzione pazza e spudorata de’più degni pastori, le violenze fatte al loro ministero, la prigionia e gli esilii, senza neppur forma di processo, de’più venerandi ministri del Santuario, e sin di un Principe della Chiesa, carissimo ai napoletani per virtù e per benefizi, e la morte data a non pochi di essi nelle insurrezioni provinciali, e gli scherni e gli oltraggi gettati a piene mani al Sacerdozio, alla Chiesa Cattolica ed al suo Capo visibile dai sicofanti della rivoluzione piemontese, ed il vedere i teatri fatti scuola d’immoralitùà, di miscredenza, di ateismo o cangiato in prostibolo tutto, e la propaganda eterodossa che il governo (si, il dirò pure) non che lasciar correre a sua posta, assai perfidamente spalleggia emanoduce, tali ire hanno acceso e messo tale barriera fra l’una parte e l’altra della nazione che, dove fosse ancor tempo di guerre religiose ed una riformazione od una scisma fosse creduta possibile, giù da più mesi il sangue cittadino avrebbe polluto le nostre vie ed i templi, per propugnare la Fede de’nostri padri e mortificare gli orditi de’novatori.
Ma questo non è tempo di religiose riformazioni. Roma è sul punto di guadagnare non di perdere nello imperio delle nazioni; nè noi crediamo possibile distruggere in Italia l’unica e naturale unità della penisola, l’unitù della sua Fede, culla e palestra di ogni italiana grandezza. No, noi non siamo uomini da fondar nuova chiesa, noi che non ancora sapemmo fare una legge comunale! — Quel Giovambattista Vico, del quale tanto ipocritamente onorasi oggi la memoria, teneva somma ventura di un paese la unità di religione.
Tiberio dettava leggi per castigare la impudicizia e la irreligiosità de’teatri, ed il governo piemontese si mostrerà anche più turpe di Tiberio?

Fu un ministro piemontese che testé scrivendo ai vescovi d’Italia, sacrilego, osava minacciare uno scisma, ove essi non parteggiassero per la rivolta, non si separassero dal Successore del Maggior Piero. Furono i piemontizzatori che sfecero la Università Napolitana, però che le università sono ne’professori, e questi furono tutti destituiti per dar luogo ad uomini, i quali (tranne l’illustre Roberto Savarese, e non so quale altro) non sono già uomini di scienza ma di parte.
Furono i piemontizzatori che sottrassero l’insegnamento pubblico alla necessaria vigilanza dell’Episcopato, ed essi abolirono dall’Università Napoletana la facoltà di teologia, senza la quale non è università, e di cui sono accomodati gli studii protestanti e scismantici e quelli di tutte le religioni e delle loro sette.
Ahimè! Era la Università di Napoli, la scuola dell’Aquinate e del Vico quella ohe doveva ateizzarsi prima in Europa ? Ed uomini della nostra terra erano designati a porgere tanto scandalo al mondo civile ?

Certo non felice era sotto ai Borboni lo stato dello insegnamento superiore; ma pure non s’insediavano nelle cattedre che uomini di gran reputazione, un Galluppi, un Lanza, un Flauti, un de Luca, un Bernardo Quaranta, un Macedonio Melloni, il quale, tuttoché esule di Parma ed in voce di gran liberale, fu chiamato qui e deputato a non poche faccende politiche; ed il Melloni era raccomandato al Governo Borbonico da Francesco Arago repubblicano ardentissimo. — E peggiorato è anche lo insegnamento secondario. Sette licei sono in piena dissoluzione, peroccchè diretti da uomini inesperti, e non di rado illetterati ed immorali.E frattanto l’istruzione elementare non progredisce passo.I comuni mancano quasi tutti di scuole ad onta dei tanti ispettori, sotto-ispettori,organizzatori, bidelli, e scelti tutti tra i piemontizzatori, nè pochi venuti di Piemonte. Per uomini del governo piemontese fu dato lo scandalo singolare della dissoluzione della famosa Accademia Napoletana delle Scienze e di Archeologia, e l’Istituto di Belle Arti venne abolito con un decreto di luogotenenza.
Ira di parte gl’istigava a ciò, ed in questo hanno gloria di aver passato i Delcaretto, i Peccheneda, i Mazza, gli Ajossa che non consigliavano a cacciar dal sodalizio de’dotti quegli di opinioni contrarie al reggimento assoluto, il
Borrelli, il Capocci, il Bozzelli, il quale venne nominato socio dell’accademia, appena reduce dall’esilio, benchè spesso braccheggiato dai cagnotti della polizia.
Fu tenuta scelleranza il vedere tolto l’Osservatorio Astronomico al Capocci dopo la rivoltura del 1848. Si diceva a Napoli e fuori “ che ci ha che fare la politica con l’Astronomia? „
Eppure il pauroso governo della reazione permetteva il Capocci liquidasse la sua pensione di giustizia ed a lui sostituiva il de Gasparis, astronomo, per certo, non men peritissimo del Capocci. Ma io non verrò facendo qui il parallelo degli uomini e de’fatti del Governo Borbonico e del nostro; questo farò altrove se giova; e pregovi frattanto notare che il bilancio del ministero d’istruzione pubblica del Napoletano, sotto ai Borboni presentava la spesa di ducati 378.442.92, e dopo la rivoluzione la spesa di ducati 543.499.91; e malgrado l’aumento di ducati 165.056.69, la pubblica instruzione, non che peggiorare, perisce.

Tutto disfacendosi per sistema, cercarsi distruggere anche la Zecca di Napoli, che è la prima dopo quello di Londra e di Vienna, che è superiore anche alla Zecca di Parigi, e sottomettesi a vergognoso processo lo antico Reggente di essa, ed il Presidente della gran Corte dei Conti, nè pochi altri bravi ed onesti uffiziali, per dar ragione del valore della moneta napoletana, moneta eccellente di tanto, che come esce di regno, vien rifusa. — Nè forse sapevasi in Piemonte come la Zecca di Londra mandasse a Napoli le sue monete per farne il saggio?— Ma questo è provvisorio — mi si risponderà; e così ad un provvisorio supponendo per solito, altro provvisorio, e spesso di gran lunga peggiore, testé per il governo de’luoghi di pena mandavasi da Torino il Regolamento e bandi per li bagni fatto a tempo di re Carlo Felice, e segnato dal primo segretario di guerra e marina des Geneys, il quale regolamento ricorda ancora i tempi in cui i servi di pena erano costretti al remo, e che però rimanda anche piò addieltro il già vecchio sistema penitenziario del Napoletano. La bella appendice che potrebbe fare il Gladstone alle sue lettere, ove leggesse questi regolamenti e bandi per li bagni del des Geneys!

E per le finanze che cosa vi dirò io? Nell’anno 1860 il reame di Napoli pagava un esercito di 100 mila uomini, una marineria ch’era fra le prime di secondo ordine, una lista civile ed una rappresentanza all’estero: e questi quattro rami costavano una spesa annuale di duc. 16.203.625:—Oggi che queste provincie non pagano più nè esercito, nè armata, nè corpo diplomatico le entrate non bastano neppure alle spese degli altri rami di pubblico servizio! Le entrate napoletane nel bilancio del 1860, erano prevedute per la somma di duc. 30.135.442: —Questa cifra, non poteva essere più la stessa nell’anno 1861, essendo partita da Napoli la Sicilia, epperò veniva necessariamente ridotta di tutta la quota che la tesoreria dell’isola pagava a quella delle provincie continentali, in ducati cioè 4.157.525; e però le entrate delle provincie napoletme nell’anno 1861 andavan ridotte alla somma di duc. 25.977.917. — So ben io come a questa prima riduzione bisognasse aggiungerne altre, quale la modificazione delle tariffe doganali, la restituzione dei dazii di consumo alla città di Napoli, la diminuzione del prezzo dei sali, ed altre, e per le quali le entrate trovansi ridotte a duc. 22.408.659. E frattanto l’aumento di spesa dell’auno 1861 sul 1860, è di duc. 4.126.79,87, fra i quali figurano per aumenti di soldo ducati 1.578.894,18, e ducati 602,000, per aumento di pensioni di giustizia ed interessi del debito pubblico, e ducati 1.935.905,69, per aumento di spese di servizio. Ma dove si considera che nel detto aumento per le spese di servizio i soli lavori delle regie ferrovie figurano per ducati 1.302.000.e che questa somma va depennata per essere state vendute codeste ferrovie; e se d’altra banda ci facciamo a notare come le pensioni di giustizia per fnnzionarii pubblici messi al ritiro fossero aumentate di altri ducati 440.000 a tutto marzo 1861, e che il debito pubblico è cresciuto anch’esso di ducati 500.000, di rendita, ne inferisce che quasi tutto il disavanzo nasce dallo aumento dei soldi, del debito pubblico e di pensioni a funzionari messi al ritiro per cedere ad altri il loro posto, per pagare i facitori della presente rivoltura. Questo fatto è ben lo specchio che riflette la oscena opera degli uomini preposti alla pubblica cosa; e nella dilapidazione dello erario del Napoletano chi non saprebbe affigurare la ragion vera delle sventure che per noi si durano?

E dopo tanto sperpero della publica pecunia è egli ricco il popolo? — Ha pane, ha lavoro, suprema bisogna dell’umanità? — Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi e per lo annullamento delle
tariffe e per le mal proporzionate riforme; null’altro in fatto di pubblici lavori veggiamo fare se non lentamente continuarsi qualche branca di ferrovia o metter pietre inaugurali di opere che poi non veggonsi mai cominciare o continuare. E frattanto tutto si fa venir di Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato, che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A mercanti di Piemonte dannosi le forniture della milizia e delle amministrazioni, od almeno le più lucrose: burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napoletani e di una ignoranza e di una ottusità di mente cne non teneasi possibile dalla data gente del mezzodì. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi, ed i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napolitani. A facchini della dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini di Piemonte, e donne piemontesi si prendono a nudrici nell’ ospizio dei trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.
Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il Governo di Piemonte vuole trattar le provincie meridionali come il Cortes od il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico,come i Fiorentini nell’agro pisano, come i Genovesi nella Corsica, come gl’ Inglesi nei regni del Bengala.
Ma esso non le ha conquistate queste contrade; perciocché non é soggiogare un paese il prepararsene l’ausilio per cospirazioni od il corromperne e lo squassare la fede dello esercito ed il comperarne i condottieri ed i consiglieri del principe indurre al tradimento. Soffrite pur che il diciamo, il governo piemontese fa a Napoli come quel parassito che, invitato a desco fraterno, ne porta via gli argenti. E questa sua avarizia non è di lieve momento nella opinione invalsa nell’universale che la signoria subalpina sia fuggevole, però che non cape nel senso popolare il pensiero che si distrugga la casa nella quale si voglia far stanza.

Lo scioglimento dello esercito borbonico fu poi il più grave delitto del Governo Pieinontese, perciocchùè per esso sperperandosi follemente un gran nerbo di forza italiana, facevasi sempre più fiacco il nuovo regno, e serviva maravigliosamente il talento de’politici austriaci, che mal vedevano l’esercito delle provincie
meridionali si aggiugnesse a quello delle subalpine.
Ed ingiusta, e dirò più, bugiarda è la brutta taccia di codardia che il Barone Ricasoli insultando al vinto (al tradito dirò meglio) davagli nella sua famigerata nota circolare del 24 agosto; perciocchè diversamento dicevano di esso esercito: ed il Garibaldi ed il Cialdini, e perchè i ministri di Piemonte (cerchino pure nel pro-
fondo della loro coscienza) se da una ragione erano sospinti allo scioglimento di quelle armi, ben era da quella tema che esse incutevano loro; si della tema che un giorno, sbriacate del passaggiero entusiasmo, vergognando della servitù, scotessero il giogo piemontese e volgessero le armi contro all’esercito settentrionale e ristaurassero il trono napolitano.
Il Governo di Piemonte sciolse l’ esercito napoletano, perciocché dove quello fosse stato ancora in sulle anni non potrebbe far così aspro governo delle nostre provincie. Ed esso oggi lo ingiuria ne suoi atti diplomatici? E vuole far una l’Italia? E ne oltraggia cosi la maggior parte: Però che dar del codardo ad un esercito egli è schiaffeggiar la Nazione ond’esso venne descritto — E di que’ pochi uffiziali che non lasciavansi poltrire nell’ozio od invilirsi nella miseria o suicidarsi  (come fece taluno di essi per non veder perire dalla fame i figliuoli) che cosa ha fatto il governo piemontese? Ha rispettato i gradi che guadagnò loro il valore guerresco e quella fede verso il proprio Re, che tanto saggiamente si onora dall’onorato esercito subalpino, e senza la quale non è esercito?
— No, il Governo di Piemonte doveva favorire le promozioni dei suoi conterranei — Re Ferdinando I. di Barbone rispettò i gradi guadagnati dai suoi sudditi nello esercito Murattiano, che pugnava contro ai legittimi diritti della sua corona. — L’Austria rispettò tutt’i gradi guadagnati dai suoi sudditi della Lombardia, che combattendola sotto le bandiere di Napoleone il Grande, ed il governo di Piemonte non ha saputo imitare neppure la generosità deU’Austria!

Ne egli è a dire ch’esso cosi governavasi a riguardo dell’ esercito napoletano del mio paese per abborrimento di chi osteggiava l’Unità Italiana, o per deficienza di valore che trovasse negli ufficiali napoletani. Perciocché egli è da un alto personaggio del reame che io ho udito a dire esser egli ammirato del valore napoletano, trovar la napoletana artiglieria superiore di molto alla piemontese,e lo aver fatto così per sordida malizia,bene il dimostra il modo cbe ha tenuto contro all’armata, a quella marineria napoletana che impediva a re Francesco II il respingere i mille del Garibaldi e che diedesi mano e piedi legata al Piemonte….il che Dio le perdoni
e la storia.
Essa fu sciolta, fu riordinata, secondo che mi dice, al peggio, e con un tiro di penna vennero cancellate tutte le sue tradizioni, certamente piò antiche e gloriose di quelle della cosi detta Marineria Sarda. In questo nuovo ordinamento gli uffiziali della flotta napoletana avrebbero dovuto essere i primi, e sono divenuti gli ultimi, e venner privati de’soldi goduti per sovrani decreti, dei gradi meritati per pubblici esami o per fatti di valore, del diritto di liquidar essi medesimi o le loro vedove la pensione, per cui avevano lunghi anni rilasciato il 2 e 1/2 per cento de’loro averi. — Ed io non entrerò già difensore degli uffiziali dello esercito napoletano che, ad istigazione della setta unitaria, e degli stessi diplomatici piemontesi, abbandonarono le bandiere il giorno della battaglia per starsi a Napoli
neutrali, o peggio per combattere contro al loro Re ed ai loro fratelli d’arme. Ma il governo piemontese che non ha riconosciuto i gradi conceduti ai valorosi difensori di Gaeta, perocchè difendevano ciò che è sacro per ogni uomo di onore, di qualunque parte, di qualunque nazione esso sia, la Religione della loro bandiera, bene avrebbe dovuto poi, non che rispettare quelli guadagnati dai disertori dell’esercito borbonico, levare a cielo le loro persone, far loro l’apoteosi. Ma non ha fatto cosi, e però fu malvagio o verso gli uni o verso gli altri. Ma gli uni e gli altri sono napoletani e sappiamo che non vi ha d’uopo di altra colpa per dispiacere a ministri piemontesi.
E forse fu anche per ragione politica lo sfacimento del collegio militare della Nunziatella, la miglior scuola politecnica d’Italia, e quello della nostra accademia di marina, onde uscivano i Caracciolo, i Bausan, i de Cosa ? — Ma che dico io di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati uffiziali, sol per sospetto che nudrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nella fortezza di Alessandria, od in altre inospite terre di Piemonte? Che dirò io degli uffiziali deportati all’ isola di Ponza? — Loro delitto fu il militare per la corona, allora che re Francesco II ancora combatteva per essa sullo riviere del Volturno e del Garigliano o fra le mura di Gaeta? Lo averlo seguitato a Roma nell’infortunio ? —
Accomiatati dalla Maestà di Lui, si restituirono a Napoli, credendo sacra la guarentigia dell’Imperadore dei Francesi, e le promesse di Re Vittorio Emanuele .
Il piroscafo la Costituzione fu spedito a posta a Civitavecchia per abbarcarli e portargli in seno delle loro famiglie; ma appena afferrato a Napoli furono circondati da un battaglione di bersaglieri e così condotti nel Castello del Carmine. Ivi furono ritenuti prigionieri 17 giorni e quindi deportati all’isola di Ponza.
Sono discorsi sei mesi, e quei miseri gemono ancora su quello scoglio selvaggio. I soli Siciliani ebbero facoltà di ripatriare; ma tutti i napoletani che furono o militari od uffiziali di segreteria non poterono essere vendicati in libertà, ed, incredibile a dirsi, non hanno che la misera sovvenzione di un carlino al giorno (quaranta centesimi e mezzo) coi quali non è possibile cibarsi salutevolmente. Muoiono dalla fame. Chieggono lavoro, nè lo si vuol concedere loro. Vi ha gentiluomini che sonosi offerti anche a vangare la terra per buscarsi pane più sufficiente. — Però sono essi trattati peggio che i galeotti. E perchè mai? Qual delitto hanno commesso eglino, perchè il Governo Piemontese abbia a spiegar tanto lusso di crudeltà? Perchè abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigionia uomini nati in Italia come noi?

Ma più che stolta ed ingiusta , fratricida ed immanissima tornava la dissoluzione dello esercito napoletano, perocché essa diede agio ai soldati di questo di riassembrarsi e di affortificar l’ira di un popolo conculcato, che da per ogni dove insorge per la indipendenza della nazione napoletana contro alla signoria subalpina. L’esercito napoletono, tradito da’suoi generali, voleva mostrare al mondo che non era esso traditore nè codardo, e si ragunava ne’ monti e, benché privo di armi e di condottieri, piombava terribile contro ad un esercito non reo della sua oppressione. — Il sangue di questa guerra fratricida piombi su quelli che l’accesero, ed esso gli affogherà, perocche sono rei, di meglio che ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perchè prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati; e di 13 paesi innocenti dati in preda al sacco ed al fuoco. Essi colpevoli dello aver fatto nascere e fecondato la insurrezione, crede poterla vincere con il terrorismo, e con il terrorismo crebbe l’insurrezione,e così corrompesi anche quel solo di buono che avevasi il Piemonte,l’esercito piemontese; conciossiachè misero quell’esercito
che la necessità della guerra civile spinge ad incrudelire od abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta !

La mente mi si turba e tremami la destra in pensando le immanità che faranno terribilmente celebre la storia di questa rivoltura, e la quale io mi propongo descrivere in altra opera, avvalorandola de’documenti opportuni, si tosto le ire saranno calme. — Gl’imbelli che perirono in questa guerra passarono di gran lunga gli armati, ed infinite le famiglie che scorrono prive di pane e di tetto per la campagna e ricoverano come belve negli antri e nei sotterranei, e gli orfani che cercano indarno de’ loro genitori morti nelle fiamme del borgo natio o passati per le armi da’piemontesi o periti in luride prigioni, dove a migliaia stivansi i sospetti, decimati dalle febri e dalle altre infermità che ingenera un aere putrido e rarefatto. I delitti perpetrati in questa guerra civile ci farebbero arrossire della umana spoglia che vestiamo.
Gente della nostra patria vien passata per le armi senza neppur forma di giudizio statario, sulla semplice delazione di un nemico, pel semplice sospetto di aver nudrito o dato asilo ad un insorto.
Soldati piemontesi conducono al supplizio i prigionieri, negando loro i supremi conforti della Fede; nè a pochi feriti venne ricusata l’opera del cerusico, cosicché furono lasciati morire nelle onibili torture del tetano. Testé a Caserta furono fatti prigioneri due dei così detti briganti, e da due giorni si teneano in carcere digiuni.
Gridavano essi, pane! pane! E niuno rispondeva loro.
Finalmente fu schiuso il doloroso carcere, e quando que’miseri fecersi alla porta credendo ricevere alimento, furono presi e condotti nella corte e fucilati.

Si fece un’amnistia. — Era un contadino di Livardi per nome Francesco Russo, il quale ferito nell’anca viveva da più giorni tranquillo presso la consorte e i figliuoli, sotto alla fede dell’indulto. Gli amici di lui dicevaugli si celasse, non si credesse alle proclamazioni del Pinelli; ma egli non voleva sentir parola e rispondeva non esser possibile che un militare di onore rompesse fede; e mentre che questi detti ei forniva, soldati piemontesi entrarono nella sua casa e condottolo a Nola, il fucilarono. Si bandì risparmiarsi la vita a chi presentavasi; ed uncontadino dell’agro Nolano per nome Luigi Settembre,soprannominato il Carletto,presentatosi a preghiera dei suoi vecchi genitori, de’quali era unica prole e sostegno, tosto venne immanemente fucilato, non altrimenti che fatto prigioniero nella pugna.
I due genitori superstiti, uccisa dal rimorso la ragione, vagano dementi per la campagna!
— Uno scellerato di Somma faceva che il capitano Conte del Bosco vi accorresse e prendesse sei pacifici cittadini (tra i quali un giovane ventenne, uffiziale della Guardia Nazionale, che giaceva presso della consorte cui da pochi dì erasi congiunto) e presi, senza forma di giudizio e senza conforto di religione, colà sulla pubblica piazza furono passati per le armi sul subito. II generale Manhès, il cui nome fa orrore anche ai più duri partigiani della rivoltura francese, combattendo i briganti delle Calabrie, non mandava mai a morte persona senza regolare processo. — Ahimè! E verrà giorno che soldati italiani si dirà essere stati più crudeli del Manhès straniero!
Presso Lecce facevansi prigionieri tredici soldati borbonici, sbandati, i quali non avevano che sette fucili.

Si credeva alcuni di essi sarebbero risparmiati. Ma no: furono tutti e tredici fucilati. — Testé a Montecilfone erano sostenuti ottanta insorti, e ne venivano passati per le armi quarantasette. — Domata la insurrezione di Montefalcione, cinquanta dei ribellati pensarono scampare alla strage rifuggiandosi nel tempio. Ma i soldati piemontesi, rotte le porte, vi penetrarono, ed i miseri nella stessa Casa di Dio furono scannati. — Nel Gargano infiniti carbonieri furono presi per briganti e morti issofatto, tra le loro consorti e i figliuoli, accanto alle loro stesso fornaci.
Molti di essi venivano condotti a Napoli come trofeo…. e fu chiaro quelli essere miseri e pacifici villani! — S’incendiano nella campagna tutti gli abituri de’ contadini e le ville e le taverne in che possano ricoverare gl’insorti. Si tira addosso a tutti che portan farsetto di velluto, abito che credesi da brigante, ed a data ora ogni contadino dee abbandonnar il suo campo, pena la morte!..
Aimè! Mercè questo governo che ci asserisce, il soldato onde speravamo la franchezza d’Italia, è tenuto nelle provincie napoletane siccome nemico di Dio!

— Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed aperto l’uscio, videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una croce con molti ceri accesi. Volevano salvarle; ma quelle gridando: — Indietro… maledetti! Indietro! … Non ci toccate, lasciateci morire incontaminate!… Si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto sprofondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti.

Il giorno posteriore a tanto eccidio, all’incendio di due paesi, di Pontelandolfo e di Casalduni, l’uno di cinque l’altro di sette mila anime, leggevasi nel Giornale Ufficiale di Napoli il telegramma: Ieri tnattina, all’alba giustizia fu fatta contro Ponlelandolfo e Casalduni. (Dispaccio telegrafico da Fragneto Monforte 14 Agosto ore 7 a. m. —Giornale ufficiale di Napoli, N» 194).

No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portata la novella di quegli orrori!
Ma io non istarò a fastidirvi più a lungo con il racconto delle mille ferità di tal sorta, di che sono pieni gli stessi giornali officiosi ed ufficiali del governo, e le quali facevano e fanno tuttora terribile la insurrezione delle provincie napoletane; nè d’altronde capirebbe negli stretti limiti di questa mia mozione il novero dei truci episodi di una guerra civile, che dai monti di Calabria si stende nel Basilicato e nell’Apulia e di colà nel Capitanato e nel contado di Molise e nel Beneventano e nei monti di Avellino e nella Campania e negli Apruzzi, o de’saccheggi e degli stupri e dei sacrilegi che precedettero gl’incendi paurosi di Auletta, di S. Marco in Lamis, di Viesti, di Cotronei,di Spinello, di Montefalcione, di Rignano, di Vico di Palma, di Barile, di Campochiaro, di Guardiaregia, e delle già dette Pontelandolfo e Casalduni, però che non è mestieri conoscere tutto per chiarire la signoria piemontese immanissima.

Ed il Governo Subalpino rese crudele la guerra civile coi disperati e crudeli mezzi di combatterla: ed esso, cosi facendo, fa l’Unità, uccisa l’unione: però che un popolo cosi manomesso non dimenticherà mai le perpetrate scelleratezze, ed apporrà a tutta una provincia italiana i delitti di una setta, e cosi imperversando non sarà possibile neppure la confederazione degli antichi stati della penisola. — In ogni angolo dello nostre provincie sorgerà un monumento di questi giorni nefasti. Ogni campo si troverà gremito di croci sepolcrali: ogni capanna ricorderà le stragi di questo tempo: ogni tempio adornerà un altare espiatorio che ricordi la guerra fratricida: ogni provincia mostrerà i ruderi di una o più città incendiate, e colà trarranno in pellegrinaggio i nepoti delle nostre vittime, e gli additeranno ai loro figliuoli siccome esempio terribile del dove possa condurre una nazione il voler attuare pensieri innaturali od immaturi.
-Il Governo Piemontese siccome è avviso all’universale, rimoveva dal reggimento di queste provincie il generale Cialdini ed il Pinelli, però che comprese inutile, anzi più micidiale tornare il terrorismo che la buona guerra. Ma un’altra cosa, per amor d’Italia, deh faccia! — Sciolga la guardia nazionale mobile, però che la pestifera sua instituzione non è adatta ad estinguere la guerra civile, ma ad eternarla. — Il dì che il Governo di Piemonte se ne sarà andato con Dio, non riposeranno già queste provincie, ma troverassi il padre armato contro il figliuolo, ed il fratello contro il fratello, ed un comune inizzito contro l’altro, e le ire non quieteranno, e sarà mestieri altra forza che nel sangue degli uni e degli altri spenga la guerra intestina.
Sappiamo a tutte queste accuse mi si risponderà il consueto — Ma come si fa? Tempi eccezionali vogliono eccezionali misure!

Ma io farovvi considerare che così dicendo scrivesi la difesa del Mazza o del Campagna, le cui molestie diventano giuggiole accanto ai rigori del Pinelli,del Galateri, del Negri, del general della Chiesa, ecc.
Anch’essi dicevan — Come si fa? Il Piemonte cospira contro il reame, e noi dobbiamo frustarne gli orditi.
No miei Signori: vi hanno leggi, vi son consuetudini che noi non possiamo violare senza oltraggiare le leggi stesse della natura, e la pubblica moralità dilaniare senza scalzar le basi della società, la cui salute è di maggior momento alle genti che la grandezza del Piemonte o d’ltalia. — No, non credasi si possa fondare un imperio sulla lubrica base del sangue, nella sedia dell’ingiustizia, o senz’altra legge che quella della opportunità momentanea, o della sanguinosa e rapace necessità di stato. Nò il Governo Piemontese non fonda, ma distrugge — L’Austria dall’alto delle fortezze di Mantova e di Verona ci guata; e sapete voi perchè non muove ad assaltarne? — Perchè noi ci suicidiamo: e veramente nuovo pazzo sarebbe quello che tirasse sul nemico nell’ora stessa, che questi di per se gettasi nel precipizio.
E nel precipizio già avvalliamo noi, caduti in discredito fuori, e dentro divenuti esosi agli onesti. Ed io mi ho il triste conforto dello aver preveduto il danno, e di averne parlato alto da meglio che due anni. — Allora che uscito una seconda volta in ingiusto esilio, venni, diciotto mesi or sono, a Firenze, e mi fu parlato dei vasti disegni di unificazione, della prossima dissoluzione del reame napoletano, inorridii, gridai mercè, chiedeva avvisassero al che sarebbe di Napoli. Mi fu risposto da taluno; — Napoli starà peggio ma noi staremo meglio!

Fremetti a tali parole. Desiderai piuttosto si eternasse l’esilio, che il ritornare a prezzo della ruina della mia patria

Però non i Piemontesi io ho in odio. Tolga Iddio che io abbia in anima avversione popolo d’Italia e popolo probo e valoroso, se non dotato di spiriti elevati e peregini. Ma quei Napoletani io esecro che qui conducendo i Piemontesi tradirono il Piemonte e la propria patria, e che di continuo diffamandola, istigano il governo subalpino a perpetrar lo spolio e la strage del loro paese. — Io parlo per ver dire: io parlo per amor di patria; troppo forte, siccome taluno unitario dicevalo (quasi che troppo potesse mai essere amore di patria) e qualunque sarà la vendetta della setta dei piemontizzatori, venga pure che io l’aspetto; però che peggior di ogni danno sarebbe sempre il rimorso e la pubblica maledizione.

E la maledizione pubblica è sul suo capo.

Da per ogni dove sorge una voce che lo condanna e lo vilipende. La città ed il regno son divise in fazioni, ma le fazioni tutte si accordano nell’abborrire gli uomini di essa.
E voi ben dovreste accorgervene, sapendo come non fosse qui giornale, che possa esistere e voglia difendere la dominazione piemontese, se non sia stipendiato e venduto. Perchè si spacci una scrittura deve condannarla, colmarla d’ingiurie, di disprezzo. Se vien fuora opera di un propugnatore dei diritti del popolo e delle antiche ed imperiture nazionalità, tosto non se ne trova piò copia, tutti correndo a leggerla avidamente; e se questa metropoli che le dice anatema, non insorge tutta quanta come un uomo solo contro alla signoria piemontese, egli è perchè vede che pere, perchò il generoso, l’indomito cavallo napoletano già da gran tempo fiutò il suo cadavere!
Si, la è questa la verità delle cose, non quella che va strombazzando una stampa meretrice, il mendacio comperato a dieci o più mila franchi per mese. E a che valse al governo piemontese lo aver chiuso tutti gli aditi perchè la luce non possa uscire? A che vale lo aver compro i giornali più letti di Europa? Questi che l’anno scorso , mentre sua fortuna rigogliava, maledicevano di esso, ne dicean perduto; ed oggi ch’è morituro, lo dicono forte e vincitore ?
E pure non valsero ad ingannare persona. Tutt’Europa ora sa che n’è delle cose nostre, ed il nome del governo piemontese si oltraggia per ogni terra.

L’oro che profondeva esso per abbindolare l’opinione europea non ha ingannato che lui stesso, lui che non volendo far sapere verità, ha finito per non saperla egli medesimo, e che rimasto al buio, simile ai ciechi della parabola, procede appoggiandosi ai ciechi. — Egli è per i suoi errori che vien vilipesa la rappresentanza nazionale, tutta quanta creduta correa di esso. — Un gentiluomo già carissimo al popolo napoletano e del cui infortunio politico, nonché le provincie nostre ed Italia, tutta Europa dolorava, oggi perchè partigiano del governo piemontese, caduto è in abominio dell’universale, ed i suoi amici per difenderlo deggiono dirlo imbecille, scemo dalla prigionia l’intelletto.
Questo sì ne dia la misura della pubblica opinione, non il ciarlone favore di una gente compera o grulla, eterna fautrice del potere, di pochi disonesti che hanno per patria la cassa del tesoriere, sanfedisti di Savoia, che non è crudeltà cui non trovino valorosa, non disonestà che non dicano pudica, non ingiustizia che non proclamino proba, di pochi bellimbusti, troppo presto scappati dalla scuola, ed i quali accalappiati dai furbi o politicando per moda, giudicano bello l’andare delle cose, perchè bella è la divisa della cavalleria piemontese ed in “good condition” i cavalli.

Ed egli è per queste ragioni che io mi fo oso domandare le Onoranze Vostre vogliano votare un inchiesta parlamentare nelle provincie meridionali, ed avvisare però al che possa farsi per tenere in pace od in fede queste contrade. — Il governo Piemontese pose mano ad ogni mezzo.
Della luogotenenza del Principe di Carignano io non parlo, perocché essa non fu che laido sperpero di pecunia, ed uno scherno per il nostro paese, allora che nel paese più grave d’Italia (ché sotto l’ilare suo aspetto il popolo più serio e più superbo della penisola é il napoletano), nella Galilea della Filosofia, mandavansi a Ministeri gente più da spasso che da lavoro.Ma sotto di essa luogotenenza nasceva e cresceva la guerra civile, ed il Conte di Cavour mandava il Conte di San Martino, perchè impiantando la legalità e la moralità dove il ministero di Nigra e de’suoi predecessori avevano posto l’arbitrio e la corruzione, potesse pacificare il paese.
Ma la rivoltura era già rigogliosa, aveva già guadagnato gli animi e le cose, e la onestà e la esperienza del saggio amministratore non valsero punto. Egli si trovò solitario, perchè gli onesti non accostavanlo e dei turpi non poteva valersi, nè voleva.
— Il Barone Ricasoli spedì il Cialdini perchè col terrorismo domasse il già fuggente paese: e questi tutto che chiamasse a lui d’intorno tutte le frazioni della parte liberale, tuttocchè facesse spargere a torrenti l’umano sangue, nè cosa niegasse che alla rivoltura piacesse, neppur feriva il segno, e lascia la reazione più forte che non era sotto il Carignano ed il San Martino. — Ora mandasi il General Lamarmora perchè cerchi di ristabilire la legalità.
Il nome di Lamarmora, il so, suonava giustizia e fermezza: ma farà esso più o meglio che non fecero i suoi predecessori?
Un uomo del Governo di Piemonte che ne’scorsi mesi venne in queste proviucie per avvisare al da farsi, diceva comprendere bene come il regno di Napoli non fosse domabile, ma che Italia doveva unificarsi “grand méme”, e che però queste provincie sarebbonsi tenute come una Turchia.

Se questo è il pensiero dei ministri piemontesi, badino che il guanto non sia fieramente rilevato dal paese mio e dall’Europa: dall’uno in nome dell’onore calpestato e dalla sua indipeudenza; dall’altra in sostegno dell’umanità conculcata.
Badino perchè il giorno della Vendetta Divina non può tardare, nè tarderà. Il destino delle nazioni non è nelle mani dei ministri ma in quelle di Dio! II governo di Piemonte è superbo, nò mai fu superbo che non cadesse misero e vile.
Esso ha sparso il sangue fraterno, e su lui pesa la maledizione di Caino. Troppo, troppo sangue innocente grida vendetta contro di esso, troppi miseri dal fondo delle prigioni, dall’esilio, dalla povertà in che gemono gli maledicono, e quando sorviene loro il pensiero della patria, e quando dedesiderano il puio aere del loro cielo, e quando veggonsi i figliuoli e la consorte e i vecchi parenti estenuati e mordonsi per rabbia le mani e per fame. Avvisiamo dunque al da farsi. Rinsaviamo. Salviamo da più lunghi mali questa patria.
Cansiamo una invasione di stranieri, oggi che la Francia ci abbandona a noi stessi, che Roma non potete piò sperare, che il fantasima dell’Austria e della coalizione nordica ci sorge d’incontro minaccioso, che Italia, al modo che si è pretesa farla, non par piò possibile si faccia, che da non pochi è tenuto nullo il plebiscito e da moltissimi, anche ammettendolo, non è tenuto piò valido il poter nostro, come quello che alle condizioni di esso non più si conforma. Il governo di Piemonte non può superare le difficoltà interne, e dove anche bastasse a ridurre in fede le provincie napoletane, sorgerà giorno che tutti insolliranno gli spiriti d’Italia contro a questa egemonia piemontese, e per verità ciò che io, sei mesi or sono, consigliava («pportuno a fare Italia ( Delle cose di Napoli-Discorso del Duca di Maddaloni. Deputato a primo Parlamento Italiano.Torino, Dall’ Unione Tipografica Klitrice, 1861.) cioè il trasferire a Napoli la sede della monarchia, oggi noi saprei più suggerire, perciocchè lealtà di gentiluomo mel difende. Il governo piemontese metterebbe in compromesso l’antico, senza poter più serbare il novello acquisto.

Rinsaviamo dunque. Il male è più radicale che non si pensa. Non ama Italia soltanto quegli che la vorrebbe Una ed Indivisibile; ma quegli è più suo amico che la vuole civile e concorde, piuttosto che barbara e discorde ed una e morta, purché in deserto feretro di regina.
Napoli 6 novembre 1861.

Il Deputato Proto  Duca di Maddaloni.