ELISABETTA E ARCANGELA, DUE MOGLI.

ELISABETTA E ARCANGELA, DUE MOGLI.
di Valentino Romano *

Questa volta, accennando non a una ma a due donne del brigantaggio, raddoppio e non solo perché l’iconografia del brigantaggio le vede entrambe accomunate nella stessa foto ma, soprattutto, per i tanti comuni elementi alla base del loro darsi alla macchia.
Elisabetta Blasucci era nata a Ruvo del Monte nel 1834, Arcangela Cotugno a Montescaglioso nel 1822.
La prima era vedova di un contadino, Michele Scottini, dal quale aveva avuto quattro figli.
La seconda aveva sposato un suo compaesano, Rocco Chirichigno, meglio conosciuto come Coppolone, più giovane di lei di dodici anni. Rocco era un semplice bracciante che, come tanti, avevo sperato nella distribuzione e nell’assegnazione delle terre demaniali: attirato dalle promesse di Garibaldi di realizzare questo principale sogno contadino, aveva seguito il nizzardo. Ben presto però la speranza si era tramutata (e, onestamente, non per colpa dello stesso Garibaldi) in cocente delusione: la borghesia agraria latifondista aveva, infatti, avuto buon gioco dei populistici proclami garibaldini, vanificandoli del tutto. La delusione di Coppolone, al pari di quella di tanti altri subalterni agrari, si era tramutata in rabbia e per lui si era aperta la via della macchia.
Gli uomini di Elisabetta e di Arcangela avevano entrambi seguito Crocco e Borges nella scorreria dell’autunno-inverno del 1861 che aveva infiammato la Basilicata. Michele Scottini, però, era morto qualche tempo dopo. Tommaso Pedio sostiene come, a quell’epoca, Elisabetta si fosse già data al brigantaggio. La donna dichiarò, invece, nel corso del suo interrogatorio di aver incontrato nel giugno del 1862 nel bosco di Bucito, dove si era recata a far legna, Nicola Mazzariello che guidava una formazione minore di briganti collegata con la banda Tinna: della banda faceva parte anche il suo compaesano Giovanni Rubertone. Mazzariello, minacciandola di morte, ne avrebbe voluto fare una delle sue donne, ma Rubertone si era interposto ed era riuscito a tenere la donna con sé. Non sappiamo se il racconto di Elisabetta corrispondesse alla verità o se rispondesse a una precisa strategia difensiva, comune a quasi tutte le donne del brigantaggio, mirante ad accreditare la tesi dell’involontarietà e della costrizione nel darsi alla macchia. Sta di fatto che risulta processualmente provata la sua diretta partecipazione (vestita in abiti virili e armata di tutto punto) ad alcune scorrerie della banda.
Diversa, invece, fu la vicenda di Arcangela: dopo la morte di Borges, Coppolone se ne ritornò nella sua zona e fece parte delle bande di Angelo Antonio Masini di Marsico Vetere, di Egidio Pugliese (Egidione) e di Francesco Scurti (Percuoco). Il 23 agosto del 1863 incappò a Montepeloso nella formazione a cavallo di Davide Mennuni, subì una grave disfatta e dovette rifugiarsi nelle più sicure contrade tarantine. Coppolone morì il 22 febbraio del ‘65 dopo una lunga agonia causatagli da una ferita subita in uno scontro la guardia nazionale di Bernalda e fu sepolto nel sotterraneo di una masseria nella marina di Ginosa.
Arcangela, che nel paese era guardata con diffidenza e temeva di essere arrestata prima o poi come manutengola virgola decise di seguire il marito nella sua avventura: il 12 luglio del ’62, rotto ogni indugio, lo raggiunse e si diede a scorrere la campagna vestita da uomo e armata fino ai denti, partecipando a tutte le scorrerie della banda, dal potentino al tarantino. Fu avvistata fra i componenti della banda in molte azioni delittuose e molti paesi ne subirono la violenza (Montescaglioso, Bernalda, Ferrandina, San Mauro, Pisticci e Pomarico).
Elisabetta con Rubertone che, probabilmente era diventato il suo uomo, meditava la fuga e incappò nelle ire del capo Mazzariello, il quale tentò di uccidere entrambi a fucilate: i due, scampati fortunatamente all’agguato, ne approfittarono per costituirsi.
Arcangela, prostrata dalle privazioni e dagli stenti della vita alla macchia, non più giovanissima, si ammalò gravemente nel maggio del 1864: non riuscendo a trovare u rifugio sicuro per curarsi, il 2 giugno fu costretta a costituirsi al Delegato di P.S. del suo paese.
Elisabetta, processata, fu condannata a dieci anni di lavori forzati; Arcangela a venti della stessa pena.

L’immagine che le rappresenta in armi e vestite in abiti tradizionali, pur apparecchiata scenograficamente, ce le restituisce comunque per quelle che sono state veramente, al di là dell’immaginario romantico e/o morboso che vuole tutte le donne del brigantaggio belle, avvenenti e crudeli: due popolane “normali”, due contadine, con il volto segnato dalle privazioni, con il peso della sconfitta addosso, ma con la fierezza di essersi “ribellate”.

Amo questa foto proprio per questo, perché restituisce le popolane in armi alla normalità che fu loro negata. Alla prossima e buona domenica a tutti.
* Promotore Carta di Venosa

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