I fatti di Pontelandolfo-nel manoscritto di un contemporaneo

RIVSTORDA LA RIVISTA STORICA DEL SANNIO-ANNO IX N.III-BENEVENTO-1923-pag 71-76
(cooperativa tipografica chiostro S.Sofia-bn)
I FATTI DI PONTELANDOLFO (NEL MANOSCRITTO DI UN CONTEMPORANEO)
Per cortesia del dottor Gaetano Perugini, ebbi agio di esaminare tempo fa un grosso manoscritto dal titolo: « Storia dei fatti di Pontelandolfo scritta da Antonio Pistacchio: copia eseguita da don Rocco Caterini che assicurava essersi attenuto all’originale ». Un manoscritto spropositato e disordinato. Dopo poche pagine nelle quali espone gli avvenimenti locali dal primo al quindici agosto 1861, l’a. torna indietro e a mo’ di diario, senza alcun ordine di esposizione, narra le sue vicende in rapporto ai fatti di quei giorni, la sua fuga, le sue angustie per mettere al sicuro oggetti e denaro, l’inutile tentativo di salvare il paese. Domina il racconto una continua impressione di terrore che fuorvia lo scrittore e lo trattiene su piccoli personali incidenti che rompono il filo della narrazione e fanno sbadigliare chi legge: chiari di luna, fughe attraverso campi desolati, latrati di cani, ore di angoscia trascorse in remoti casolari, viaggi eterni su birroccini sgangherati… Con molta arguzia una intelligente signora, la sorella del proprietario del ms., soleva ripetermi che questa più che la storia dei fatti di Pontelandolfo fosse la storia… della paura di don Antonio Pistacchio.
AI farraginoso racconto di costui è corso tuttavia il mio pensiero, leggendo in questa Rivista ,un articolo che dell’ incendio di Pontelandolfo si
occupa (A.V, n. 6). E m’ è sembrato utile riassumerlo, perchè offre non solo 1’opportunità di correggere qualche inesattezza, ma suggerisce delle considerazioni necessarie per un più equanime giudizio su quel tristissimo episodio del nostro Risorgimento Nazionale: uno dei meno noti nella esattezza dei particolari, se non delle grandi linee.

Verso i primi di agosto del 1861 una banda di briganti scorazzava le montagne tra Cerreto, Pietraroia e Pontelandolfo, ingrossata da soldati sbandati. Circolavano voci paurose, e insistentemente si mormorava di un prossimo ritorno di Francesco II. I semi della reazione, abilmente sparsi in seno alla popolazione, composta nella massima parte di contadini, germogliavano. La guardia nazionale era insufficiente e restia al proprio dovere: i pochi liberali scoraggiati, disarmati, non protetti, anzi fatti segno a continue minacce. Erano stati chiesti aiuti al governatore della Provincia, e il 3 agosto giunse in paese l’ex colonnello garibaldino Giuseppe De Marco alla testa di 200 guardie mobilizzate. Il giorno seguente costui inviò corrieri nei Comuni vicini per avere altra forza. Ne richiese a Morcone, a Fragneto, a Circello, a S. Croce ed altrove. Casalduni ne richiese invece a lui, ma il De Marco -e gli avvenimenti dovevano dargli ragione – non stimò prudente dividere i pochi uomini che aveva seco, ed il 5 si recò a San Lupo per conferire in proposito con il cav. lacobelli. Le voci paurose ingrossavano: anche i soldati, sprovvisti del necessario, trovavano critica la loro situazione. Il sindaco e l’ufficiale della Guardia Nazionale si presentarono al De Marco, appena tornò da S. Lupo, e lo pregarono di trattenersi ancora in paese. Il comandante osservò che i soldati erano sprovvisti di tutto, e che si sarebbe fermato ben volentieri, se il Comune o i privati avessero provveduto al mantenimento della truppa. « Ma – nota il Pistacchio – non si trovò nessuno in Pontelandolfo che avesse cacciato un obolo per mantenere l’ordine e la forza ». Trionfava così l’occulto lavorio dell’ arciprete De Gregorio. Il De Marco, stretto tra le esigenze della soldatesca e le condizioni dello spirito pubblico, timoroso di un movimento reazionario che sarebbe stato impotente a reprimere, partì lo stesso giorno 5 agosto. Inutilmente si insistette per novelli soccorsi; inutilmente si esposero le gravi condizioni del paese, dove la popolazione era sparsa, poco disciplinata la scarsa forza locale, fervida la propaganda d’odio dell’ elemento borbonico. I due terzi circa della Guardia Nazionale, composti di individui che abitavano in campagna, furono disarmati dai briganti; l’altro terzo, per la sorte toccata ai compagni e per l’ abbandono in cui versava il paese, rimase in preda al terrore. Lo sbigottimento si propagò al ceto civile: molti, fra i migliori fuggirono, e da quel momento lo sventurato paese fu votato al suo triste destino.
Il 6 agosto cominciava la fiera di S. Donato. L’arciprete uscì in piazza e divulgò che, contrariamente a quanto aveva detto il Sindaco il giorno precedente, la fiera vi doveva essere: assicurò che i briganti non sarebbero discesi dalla montagna, e che, del resto, essi erano regi, e, se mai, avrebbero fatto male solo ai liberali. Serpeggiò la voce che il De Gregorio si fosse inteso con i briganti, o con un loro emissario, al Piano della Croce, e li avesse sconsigliati di venire in paese, di mattino: data l’affluenza dei forestieri, sarebbero avvenuti dei tumulti, e chi avrebbe portate le offerte al Santo? Meglio discendere verso sera, quando la processione tornava da S. Donato… Fondata o meno, la voce non era fatta per sollevare lo spirito pubblico. La plebaglia insultava pubblicamente i liberali; il Sindaco era fuggito; fuggiti i pochi gentiluomini. Il luogotenente della Guardia Nazionale aveva invitati i militi, ma appena 26 se ne erano presentati, pavidi e senza fiducia, e la sera di quello stesso giorno si sciolsero e al Corpo di Guardia non rimasero che pochi ufficiali. Un incubo pauroso gravava sul paese; cupe voci circolavano: c’era in aria l’odore del!a reazione.
Il giorno 7, festa e fiera di S. Donato, mentre il clero, verso le ore 22 italiane, tornava dalla cappellina intitolata al Santo, ove s’era cantato il Vespro, un gruppo di circa 40 briganti, ingrossato via via da rezionarii, da manutengoli, da paurosi, da indifferenti, impose al clero di fermarsi per poi procedere insieme verso il paese. Ivi briganti e popolo assalirono il corpo di guardia e lo devastarono; fu ucciso Angelo Tedeschi di S. Lupo, furono feriti Agostino Vitale e un eremita. L’esattore Michelangelo Perugini, malgrado si proclamasse borbonico, fu barbaramente massacrato e il suo cadavere bruciato nella casa. La calca inferocita si sparse poscia per il paese saccheggiando, imponendo disarmi e taglie, mentre il clero si rifugiava nella chiesa e in varie abitazioni.
Il giorno seguente si sollevarono i reazionarii di Casalduni e di Campolattaro, e il 9 convennero in Pontelandolfo insieme a quelli di altri luoghi vicini. I Campolattaresi, circa una trentina, armati di grossi pali e di schioppi,
con bandiera bianca, gridavano viva Francesco II, e unitisi a pochi di Pontelandolfo si limitarono a saccheggiare qualche casa.
Verso le ventuno e mezzo furono visti sulla Prainella circa cento tra briganti e sbandati, pochi armati di fucile, i più di accette e di pali. Indossavano camicia e calzonetti bianchi, e molti erano scalzi. Costoro si incontrarono per via con un altro gruppo che veniva dalla Parata, e giunti a S. Donato (l’entrata del paese) forzarono il tamburo della banda musicale a precederli, e fecero il loro solenne ingresso urlando e inneggiando a Francesco II. Assalirono poscia il giudicato regio, chiesero qua e là da mangiare e da bere, terrorizzarono il pubblico, e finirono con l’accamparsi in piazza Tiglio e su le Campetelle; ma col cadere della notte preferirono ritirarsi su la montagna, meno pochi, che più tardi si unirono a circa cinquanta briganti sopraggiunti da Casalduni e si diressero verso Campolattaro, a ciò indotti da voci di soldati marcianti.
Il 10agosto il paese rimase relativamente tranquillo; non si videro briganti nè paesani nè forestieri. Circolavano però le più strane notizie, e si dava a credere che Francesco II fosse giunto a Napoli.

Qualcuno rientrò nell’abitato per nascondere quello che non aveva fatto a tempo a celare il 7, ma scappò di nuovo all’annunzio, gravido di terrore, dell’ arrivo di 300 briganti. Invece il giorno seguente, domenica, si videro giungere 45 soldati italiani, sventolando fazzoletti bianchi in segno di pace. Si celebrava la messa cantata: il sacerdote si affrettò a finirla, e i villani di corsa scapparono nelle loro masserie. I soldati procedevano intanto guardinghi, incerti. Erano briganti coloro che fuggivano, o spie che correvano a are l’allarme? Si rassicurarono appena seppero che i briganti si erano ritirati su le montagne o nei paesi vicini. Chiesero delle autorità: si rispose che erano fuggite; chiesero di ristorarsi per poi partire: la popolazione, scarsa e paurosa, si mostrò restia a dar loro del cibo per tema di essere sorpresa dai briganti e di trovarsi in qualche conflitto. Giunse un soldato, rimasto indietro, e narrò di essere scappato dalle mani dei paesani, e che un altro compagno era stato forse disarmato e un altro ucciso. Accorsero allora tutti sul Piano della Croce e tirarono molte fucilate, ma senza ferir nessuno. Due soldati soltanto erano rimasti in una bettola del paese, e sarebbero stati certamente uccisi senza l’intervento del cocchiere di don Giovanni Perugini (Domenico Brugnetti) che scorto il gesto d’intesa di due briganti, riuscì ad intenerire Michelangelo Pistacchio, il quale scongiurò il delitto, facendo comprendere il male che ne sarebbe venuto al paese.
Dal Piano della Croce i soldati passarono nella masseria di don Saverio Golino, che risparmiò la fucilazione a qualche concittadino, e poscia rientrarono in paese e si diressero verso la Torre. Ivi, scavalcato il muro di cinta, si accamparono nel giardino, posero sentinelle, fecero portare pane e vino. Si intesero però subito dei colpi di fucile, e una delle sentinelle avvertì l’ufficiale che masse di contadini si riunivano nei dintorni, e che i colpi erano stati tirati in direzione della Torre. L’ufficiale decise allora di uscire per tema di un accerchiamento. Vuolsi che a tale determinazione non fosse rimasto estraneo il Golino, il quale per timore di rappresaglie da parte dei briganti, se fosse stato scorto con i soldati, avrebbe fatto intendere a costoro ssere pericoloso un posto come quello, facile ad essere accerchiato. I soldati uscirono infatti e, sparando, si diressero verso le Campetelle; di là si dettero a precipitosa fuga, temendo di essere raggiunti dai briganti che già si vedevano verso le masserie Guerrera. Quella fuga contribuì a perderli. Donne, uomini, ragazzi li avevano seguiti fermandosi su l’altura e gridando all’armi, Si ritenne fuggissero per paura dei soldati di Francesco II, e il dubbio che fossero dei vili rese feroci gli animi. La folla, composta in gran parte di donne, urlava dimenando le braccia, e il Pistacchio esprime il convincimento che, specie le donne, tutte della peggiore feccia del paese, volessero additare i fuggenti ai briganti. Per la via molino di sotto i Piemontesi erano intanto usciti su la Consolare, Di collina in collina si ripercuotevano le grida di allarme, e in un baleno la vetta di S. Nicola si gremì di gente discesa dalla montagna e di sbandati di varie contrade. I soldati, che erano su la strada che circonda la collina, si videro assaliti da un numero assai superiore di forze. Spaventati, storditi dalle grida incessanti,forse con poca energia guidati, piegarono su Casalduni, sperando in un paese amico, o dove, nella peggiore ipotesi, potessero soltanto essere fatti prigionieri.

Ma alle prime svolte della strada, nei pressi della cappellina De Angelis, intesero suonare a stormo le campane di Casalduni… Cominciò il massacro; due furono trucidati in una masseria di quelle vicinanze, l’ufficiale lungo la strada; gli altri consegnarono le armi e furono condotti al posto di guardia di Casalduni, ove accorse gente di Pontelandolfo e del paese. Ivi chiesero di confessarsi: fu risposto negativamente. I briganti di Casalduni e pochi di Pontelandolfo tennero consiglio e decisero di trucidare gl’infelici. Qualche sbandato tentò di opporsi, ma Angelo Pica e Pellegrino Meoli ne vollero il massaero, perchè non si unissero all’ altra forza piemontese, così come avevano fatto coloro che erano stati risparmiati dai briganti di Colle. Erano le ventidue e mezzo.Furono atterrati a colpi di schioppo, di scure, di falce, di zappelle, di pietre. Un Piemontese si finse morto e rimase nascosto sotto i cadaveri dei compagni fino a tre ore di notte; poi si diresse a Campolattaro, ove assalito da altri briganti fu, malgrado una strenua difesa, assassinato e sepolto.
Il giorno successivo, 12, in Pontelandolfo non furono visti che pochi briganti; molti se ne aggiravano invece su per la Prainlla. Il cav. lacobelli mosse contro di loro da San Lupo, ma, scortone il numero, non stimò prudente attaccarli, e tornò indietro sbigottito. Dettò allora, di accordo con un individuo di Morcone, che assicurava di aver modo come comunicare con Cialdini, un rapporto che segnò la fine di Pontelandolfo. Vi si diceva che 45 soldati, tra i più valorosi figli d’Italia, erano stati colà, il giorno precedente, tenuti a bada dai naturali sino all’ arrivo dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato, ma era accorso il popolo costringendoli a
fuggire: Inseguiti e sempre combattendo, erano pervenuti nel’abitato di Casalduni, ove sopraffatti dal numero s’erano dati prigionieri ed erano stati barbaramente uccisi. Si concludeva invocando un castigo che fosse servito di esempio. Il Pistacchio narra che il plico, accompagnato da una lettera privata per il ministro De Blasio di Guardia Sanframondi, fu recato con un calesse a Napoli, e che egli sbigottito accorse subito colà per tentare, informandone don Giovanni Perugini, di salvare il paese, ma giunse troppo tardi.
I briganti intanto, dopo che il lacobelli tornò indietro senza attaccarli, si riunirono su la Parata e nei luoghi vicini. Si aggiunse a loro Angelo Pica che propose qualcuno si recasse a prendere il Generale per avere gli ordini di Francesco II. Accettò di farlo Cosimo Giordano che, con una diecina di compagni tra i più arditi, andò in Casalduni, ove il Generale si trovava. Era costui tal Filippo Tommaselli, che spacciavasi generale di FrancescoII, e munito di pieni poteri. Egli gridò evviva Francesco, emanò dei bandi, arringò i seguaci e promise quattro carlini al giorno ai soldati semplici e uno di più per ogni grado superiore; tornato Francesco II avrebbero avuto ducati trenta e carlini quindici al mese ciascuno, vita durante. Venuto in Pontelandolfo, accompagnato dal Pica e dal Giordano, ordinò di portar viveri ai suoi, su la montagna, ma essendosi detto che a Solopaca erano giunti duecento soldati con alla testa il colonnello De Marco, li chiamò in paese. Un soldato del Piemonte tratto dinanzi a lui, ebbe promessa di libertà purchè gridasse viva Francesco II; rispose negativamente: aveva giurato, e ‘piuttosto che mancare al uo giuramento, preferiva di essere trucidato come i suoi compagni. Era uno dei 45 soldati, scampato all’eccidio del giorno undici per essere rimasto indietro agli altri, nascosto in un fosso, al toppa di S. Nicola. Il suo coraggio confuse il Tommaselli e gli altri briganti. Riuscito a fuggire, quel valoroso fu poi preso, al di là di Ponte, da un’altra banda.

Verso l’alba del 14 furono visti dei soldati avanzarsi alla volta del paese. I briganti che erano rimasti accampati su le Campetelle, chiamarono alle armi; il posto di Portanova tirò dieci o dodici fucilate, altre ne furono tirate da diversi posti: in tutto una trentina. Poscia, sgomentati dal numero dei soldati,fuggirono in varie direzioni, mentre qualcuno di essi, tolte le chiavi al sagrestano, prese a suonare a stormo. I cittadini atterriti si alzarono, si chia¬marono, fuggirono. I soldati entrarono nell’ abitato tirando contro chiunque incontrassero. Furono così uccisi i due figliuoli di don Nicola Rinaldi e varii altri; un solo brigante fu preso e ucciso. Il paese venne dato alle fiamme, e la prima casa che, bruciò fu quella dell’arciprete Epifanio De Gregorio che il Pistacchio chiama « reazionario, ambizioso, mangione e scialacquatore ». Dopo i soldati si abbandonarono al saccheggio e ad atti di lascivia…

I fatti, come sopra riassunti, non sono in modo uniforme narrati. Uno storico locale, Daniele Perugini, nell’esporre i motivi per i quali si indusse a non farne, parola, riferisce che anche coloro che erano stati presenti non furono di accordo nel narrargli le circostanze più interessanti. (D. Perugini. Monografia di Pontelandolfo, Campobasso 1878). Altri li espose invece formandone oggetto di giudizi non equanimi, e senza curarsi di approfondire le linee degli avvenimenti.
Per quanto sembrino strane, a proposito di un episodio così doloroso e così vicino a noi, possono trascurarsi le divergenze che riguardano particolari di poca o niuna importanza; ma tra questi non può annoverarsi l’uccisione di venti soldati sardi, narrata dal De Sivo, e che sarebbe avvenuta, ad opera dei briganti, capitanati da Cosimo Gior dano, la mattina di quel tristissimo 14 agosto. Scrive lo storico borbonico che i briganti rimasti in Pontelandolfo si erano ridotti a quelli della banda Giordano, circa una cinquantina, e che costoro, appiattati in un boschetto, fecero fuoco sui soldati che avanzavano verso il paese uccidendone alla prima scarica venticinque; poi si allontanarono.

Vincenzo Mazzacane