Brigantaggio nel Sud – La ” guerra dei caffoni “

BRIGANTAGGIO NEL SUD La ” guerra dei caffoni “

Romana Turchini
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna,
l’oasi verde della triste speranza,
lindo conserva un guanciale di pietra.
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Rocco Scotellaro

Dal proclama del generale piemontese Ferdinando Pinelli:
” 1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque, da taglio o da punta, e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente,
2) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con dinari e con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato immediatamente;
3) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma di Savoia, il ritratto del Re o la bandiera nazionale italiana. ( … ) deponete le anni, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti … ”
Sul brigantaggio meridionale sono stati scritti fiumi di parole. Concordi quasi tutti gli autori sul fatto che, salvo rare eccezioni, si trattò di un’armata di straccioni, alcuni dei quali assetati di sangue, altri mossi da ideali malfermi e da incerte fedi, e dunque pronti all’abiura e al tradimento, altri ancora attirati alla latitanza nel tentativo di sfuggire alle leve. Tuttavia, come nota Aldo De Jaco, che ha sviluppato un’analisi interessante sul fenomeno banditesco nell’Italia meridionale, “resta impreciso il volto del brigante, della gran massa dei “manutengoli”, dei “reazionari”, degli “sbandati”, nonché dei loro capi contadini”, e restano nascoste le ragioni umane che li spinsero allo “sfascio” (1).
Meno d’accordo si è sull’interpretazione dell’intero fenomeno come di una Vandea restauratrice, del tipo di quella promossa dal Cardinal Ruffo di Calabria contro la Repubblica Partenopea del ’99. Croce, dando le direttive “ideologiche” per una storia futura, indicava il titolo “Vandea napoletana”. Contro l’interpretazione del brigantaggio come reazione legittimista si espresse invece il Fortunato: “Il brigantaggio meridionale, espressione e frutto di una società rosa dalla miseria e moralmente fradicia, non merita tanto” (2).
Quanto durò questa guerra non dichiarata, sanguinosa, con violenze inenarrabili da entrambe le parti, che contrappose un esercito regolare a gruppi (anche foltissimi) di contadini e di sbandati e di delinquenti comuni (questi, in minor numero), in scontri senza trincee, senza retrovie, e, soprattutto, senza pietà? Dal ’60 al ’65 gli episodi più salienti. Impossibile precisare il momento in cui cessò del tutto, perché, naturalmente, “non fu firmato alcun armistizio”. Si può dire, con De Jaco, “che finì quando nelle selve incendiate e semidistrutte a colpi di cannone non rimasero che poche decine di banditi, mentre nelle carceri o a domicilio coatto migliaia di contadini d’Abruzzo, di Puglia, di Terra di Lavoro, di Basilicata, di Calabria, incominciarono a scontare le loro condanne. Lo Stato Italiano, appena costituito, impegnò nella repressione del brigantaggio meridionale un vero e proprio esercito: centoventimila uomini (3), ai quali andavano aggiunti i componenti della Guardia Nazionale, organizzata in ogni Comune. E l’esercito contadino? Buio completo. Si possono solo fornire cifre “medie”, indicative di particolari momenti e situazioni. Ad esempio, nella sola piazza del Comune di Melfi vennero fucilate in una volta trentadue persone: in tutto il Melfese, secondo notizie non prive di attendibilità, dovute a cronisti contemporanei, sarebbero state uccise complessivamente tremila persone. Ma, stando ad altri dati, nel solo periodo ’61-’63 in Basilicata furono fucilati l. 038 briganti; altri 2.413 furono uccisi in conflitto; 2.768 vennero catturati; 2.400 persone furono arrestate per “sospetta connivenza” e 525 (fra le quali 140 donne) spediti al confino.
Perché si diffuse il brigantaggio? Come mai i capibriganti, che si autodenominavano sul campo “colonnelli” e “generali”, riuscivano a raccogliere tante adesioni, fino a formare bande – come quella di Crocco – forti di 2.200 uomini?
In effetti, chiarisce De Jaco, la marcia dei garibaldini dalla Sicilia verso il Nord e la calata, poi, dell’esercito piemontese, erano avvenuti in un momento di grandi agitazioni sociali per la terra, in particolare per la redistribuzione delle terre demaniali. “Mentre poi Francesco Il da Gaeta e da Roma prometteva ai contadini partita vinta contro i signori d’ogni paesotto, buona parte di questi ultimi si schieravano col nuovo Re, col partito moderato, diventando insomma “anticristo liberali”, arrogandosi come prima funzione quella di impedire (o realizzare a loro vantaggio) la distribuzione delle terre. Essi poi (veri o men veri liberali che fossero) occupavano le cariche della burocrazia locale e provinciale e “interpretavano” le nuove leggi a seconda del loro interesse. Così in definitiva il nuovo governo si configurava agli occhi dei meridionali da una parte come il governo dello stato d’assedio e del terrore anti-contadino, e, dall’altra, come un solido appoggio ai nuovi ricchi che avevano lucrato dall’illegale acquisto delle terre di pubblica proprietà”.
Ma vanno registrate altre cause. Nella “Relazione della sorgente vera del brigantaggio” di Luigi Gargiulo, luogotenente dell’armata meridionale garibaldina, (opuscolo pubblicato a Napoli nel 1863), si legge che “con soprusi, maneggi ed infamie si riuscì a sciogliere l’esercito di volontari e più di 20.000 giovani furono gittati sulla strada e fra questi ve n’erano molti bisognosi e perché chiedevano pane furono caricati alla baionetta ( … ). I settantamila soldati borbonici fatti prigionieri dal ministro Fanti furono poi rinviati alle loro case, scalzi, laceri e senza mezzi, per essere richiamati sotto le armi a tempo più opportuno. Per tal modo in meno di un mese venivano posti alla balìa della fortuna e senza mezzi più di centomila uomini -fra borbonici e garibaldini oltre il numero grandissimo di operai senza lavoro … ”
Inoltre, va messa nel conto la gravissima politica fiscale varata dal Piemonte, che tentava così di rinsanguare le casse, dopo le emorragie degli anni che avevano preceduto l’unificazione. Gli italiani, dunque, vennero “fatti” innanzitutto sul piano delle tasse e dei balzelli, senza alcuna discriminazione tra aree tradizionalmente ricche e a contatto con i Paesi europei progrediti e aree isolate, al di qua della cintura pontificia, e protese in un mare Mediterraneo che già allora era una conca con sponde morte o semimorte dal punto di vista economico, produttivo e commerciale.
A tutti coloro che, più a meno direttamente, erano colpiti, erano rivolte le parole dell’appello di Crocco:
” … Non si commuove ancora il cielo, non freme la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall’iniquo usurpatore piemontese? Fuori dunque i traditori, fuori i pezzenti, viva il bel regno di Napoli col suo religiosissimo sovrano, viva il vicario di Cristo Pio IX e vivano pure i nostri ardenti fratelli repubblicani … ” .
Il 7 aprile ’61 ebbe inizio la lunga marcia vittoriosa dei briganti, da Lagopesole a Venosa, a Melfi, a Calitri, a Lavello. Quel giorno si incontrarono nei boschi lagopesolani 500 uomini delle aree vicine: appuntarono per riconoscimento coccarde rosse sul cappello, alzarono la candida bandiera francescana di Francesco Secondo, elessero Crocco generale e luogotenenti e capi di formazioni minori Ninco Nanco, Langlois, Caruso, Coppa ed altri. Espugnarono per primo h castello dei Doria, poi puntarono sui paesi d’origine, prendendo Ripacandida e Ginestra, il 10 Venosa, il 14 Lavello. E iniziarono la marcia su Melfi.
Narra De Jaco: “L’agosto del 1861 fu un mese di cruente esplosioni di guerriglia e di furore popolare esacerbato dalla carestia. Il 7 agosto si ribellò Pontelandolfo. Durante una processione alla quale partecipava tutto il paese, i preti diedero il segnale della rivolta, il municipio fu incendiato, le case dei liberali bruciate, due “galantuomini” uccisi. Si costituì un “nuovo governo” che mandò subito messaggi nei paesi intorno invitando tutti alla rivolta.
Dopo quattro giorni, l’undici agosto, giunsero in paese cinquanta bersaglieri. La folla li assalì, parte di essi si rinchiusero in una vecchia torre per far fronte agli assalitori, ma questi, incuranti delle fucilate, scalarono la torre e massacrarono tutti a colpi di roncola e di pietra. Gli altri bersaglieri, fuggiti verso la campagna, entrarono nell’abitato di Casalduni e furono accolti a fucilate; uno solo scampò alla morte.
Il 13 giunse, a trar vendetta, il 18° bersaglieri; trovò i cadaveri dei commilitoni nelle vie, i paesi semideserti, le donne chiuse nelle case, gli uomini fuggiti nei boschi.
I due centri abitati vennero completamente rasi al suolo. Il colonnello comandante il 18° bersaglieri telegrafò a Napoli: “Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni”.
Poi i piemontesi raggiunsero Ruvo del Monte, dove si era trincerato Crocco, e assalirono le fortificazioni del capobrigante. Per tre volte giunsero a un passo dalle trincee, per altrettante vennero respinti, e, di notte, furono costretti a ritirarsi a Rionero. Crocco festeggiò la vittoria nei boschi di Monticchio: furono uccisi mille polli e duecento pecore.
Ai giorni della fortuna seguono quelli della parabola discendente. Nell’udienza del 20 agosto 1872 aveva detto Crocco:
“Tutta la banda fu divisa in 44 comitive, capitanata ciascuna da un capobrigante il quale dava nome alla compagnia. Così vi era la compagnia di Sacchitello, quella di Ninco Nanco, quella di Giuseppe Cartiso, quella di Ciucciariello. Tutte le bande poi, mentre erano indipendenti l’una dall’altra, dipendevano dal supremo comando del francese Langlois ( … ). Partito Langlois, lasciò l’ordine a tutti i capibanda di dipendere da me e così col fatto divenni il capo di tutte le bande, che capitanai fino alla metà del marzo 1864.
Nei primi tempi le bande ubbidivano ciecamente ed eseguivano con ogni subordinazione i miei comandi. A poco a poco la disciplina cominciò a rallentarsi finché si giunse al punto che io comandavo e i briganti non ubbidivano, o pure agivano in controsenso dei miei ordini.
Quando la lusinga svanì e quando giungemmo al punto d’ammazzarci l’un con l’altro, seppi pure che qualcheduno si era compromesso con l’autorità a farmi prendere, vivo o morto, e mi decisi a partire”.
Comincia la diaspora. Gli intrighi, le delazioni, i compromessi, il desiderio di porre fine al “mangiar pane da cani” tra montagne e boschi, braccati, processati sommariamente, fucilati ed esposti, fanno registrare i primi rovesci. La parabola discendente non avrà più fine. Allora la leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, “paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e i ricchi”, trovava mille riprove: nascevano dicerie, lamenti segreti, canzoni popolari, credenze. Ad Andria, per molti decenni, le donne cantarono un lamento in memoria del brigante Ciucciariello, un uomo alto, dal volto pieno d’orgoglio, la barba e i baffi non folti, che somigliava vagamente a un monaco. Ad Andria era nato, e nei dintorni aveva combattuto nelle bande. Fu fucilato a Bari, e non aveva ancora trent’anni. E fantastiche storie si potevano ascoltare, fino a qualche decennio fa, sul Pizzichicchio, capo brigante della zona del Salento.
Briganti pugliesi, appunto. Chi erano, come si comportavano? Riportiamo alcuni testi, in qualche modo illuminanti, e certamente ricchi di riferimenti “oggettivi”, i soli con i quali si può ricostruire una storia del brigantaggio senza deformazioni e senza storture.
Lettera del brigante Giovanni Di Biase alla moglie abitante in Maschito.
Barile 17 aprile 1861
Mia carissima moglie, vengo con questa mia a notiziarvi il buono stato di mia salute (ma con grave stanchezza) e così spero dal signor Iddio che la passino con la famiglia, parenti e amici.
Vengo ad avvertirvi che nell’arrivo che noi faremo qui, tenete spalancate le porte, una bandiera bianca e gridando via Francesco Secondo. Fatto ciò non temete cosa di male. Lavello si arrese e coloro i quali avevano detto e fatto male al nostro Sovrano uscirono avanti alla colonna con bandiere bianche, gridando ad alta voce viva Francesco Secondo, con questo modo non hanno sofferto neppure un minimo rimprovero dal generale comandante la colonna, che con carta bianca del suddetto Sovrano avrebbe potuto distruggere tutto. A questo esempio i melfitani praticarono lo stesso, come Rapolla, ricevendo la colonna con gran gioia e campane all’armi.
Rionero con 150 piemontesi avevano cercato corrompere Barile ma avvisata la nostra colonna, subito ci siamo qui portati, e tenuti con loro ore sette di fuoco vivo, dei nostri mica ne hanno soccombuto la vita, ma dei loro molti così batterono ritirata ed in Barile rimasta la nostra truppa.
Domani, piacendo al Signore Iddio, ci attacchemo con Rionero, portandoci con noi una colonna di 7.000 uomini ed ho in pugno la presa di Rionero, ma guai a loro, tanto pel personale, quanto pei loro beni. Io son di parere che questi signori facessero lo stesso di Lavello, Melfi e Rapolla, altrimenti saranno distrutti loro, e di loro sostanze da sotto i pedamenti. Questo è il mio parere; perché saremo costà verso domenica con una numerosa colonna, sopra ai 10.000 uomini. Dunque se le suddette città si sono sottomesse pel numero di 7.000 come cotesti signori non vorranno concedere una forza di 10.000 uomini, e questi produrrebbero la distruzione di essi e dei loro beni?
Raccomandatemi al Signor Iddio ed abbracciando voi ed i figli e salutando li parenti e gli amici mi dico per sempre
P.S. Questa sera sono alla casa di Don Tommaso, con quattro uomini armati, guardandolo di non essere assassinati come gli altri.
Il vostro affezionatissimo marito
Giovanni Di Biase
Interrogatorio del brigante Giovanni Di Biase (imputato)
addì 6 giugno 1861
Successivamente si è fatto entrare l’altro imputato libero e sciolto da ogni legame, e l’abbiamo interrogato come segue:
Dimandato delle sue qualità personali ha risposto: “Mi chiamo Giovanni Di Biase del fu Francesco, di anni 52, agrimensore, nativo di Carovigno in provincia di Lucera e domiciliato a Maschito”.
Domandato se conosce la causa del suo arresto ha risposto:
“Conosco di essere stato arrestato come imputato di aver fatto parte della masnada del sedicente generale Crocco Donatello. Ed eccomi a manifestarvi sinceramente tutto ciò che mi riguarda in tale imputazione. In un giorno del mese di aprile ultimo che non ricordo con precisione si disse in Maschito che la vicina città di Venosa era stata invasa dalla così detta truppa del generale Crocco e che vi aveva ristabilito il governo di Francesco II. Nel giorno seguente questa voce fu confirmata e si aggiungeva che in Venosa la restaurazione borbonica era stata seguita da una perfetta tranquillità, e che a chiunque si andava ad arrolare alla banda del detto Crocco, se sotto la bandiera di Francesco II, dal medesimo inalberata, si dava la paga di sei carlini al giorno. Io vivea nella miseria e lusingato di avere pane per la mia famiglia, mi determinai di far parte di quel arruolamento, e preso concerto con altri Maschitani che avevano l’idea di curiosare gli avvenimenti di Venosa ci recammo tutti uniti in quella città nel giorno seguente. In Venosa infatti trovammo tutte le case munite di bianche bandiere, tolti gli stemmi di casa Savoia, e innalzati quelli del Borbone, e generalmente si riteneva il governo di costui come già restaurato.
Mi recai nel botteghino di un venditore privilegiato mio conoscente, chiamato Daniele, e di cui ignoro il cognome, e feci a lui nota la mia idea di arrolarmi nella banda di Crocco, per far fronte all’estrema miseria in cui vivea Nella sera di quel giorno mi fu consegnato un cattivo fucile, e nel giorno seguente rimanemmo tuttavia in Venosa, consegnandomisi la paga non già di sei carlini, ma di soli sei grani, e mi si disse che sarei stato pagato in seguito di ogni arretrato … “.
LA “REAZIONE” DI GIOIA DEL COLLE
Lettera del presidente del comitato borbonico di Capurso Tanzella al vicepresidente Traversa (Bari)
Capurso 2 luglio del 1861 Fratello Vicepresidente,
Con tutta fretta radunerete quanta più gente si può fedele al nostro buon Re Francesco II, tenendola pronta pel giorno 20 corrente, che sarà la reazione generale, cominciando da Gioia, come sapete, e dandole quelle altre istruzioni che con altro mio ufficio vi feci noto.
Al che adibirete insieme il nostro confratello Paolo Pizzuti a fare da cassiere, e segretario, essendo egli di tutta nostra fiducia, avendolo fatto componente della “Gesuitica Borbonica” sino da quando era in Giovinazzo impiegato alle Poste. Egli, tolto dall’impiego da questo governo usurpatore, tiene la promessa di essere fatto Direttore delle Poste in Bari, dove positivamente dimora; perciò vigilatelo se fa esatto il suo dovere. E perché fortunatamente il Pizzuti trovasi arruolato nella Guardia Nazionale di Bari, dove, come sapete, si è fatto mettere apposta per spiarne tutte le mosse, gl’imporrete fame rapporto giorno per giorno, e rimetterlo, onde mandarlo al “Gran Campo” in Gioia; egli è molto astuto, e vi adempirà esattamente, cui ingiungerete di ben affidare e conservare la corrispondenza in caso di qualche assalto della polizia ( …). La parola d’ordine settimanale l’avrete col corriere di domani … “.
Il presidente Tanzella
Relazione anonima conservata nell’archivio del comune di Gioia, probabilmente di mano del sindaco Filippo Taranto
Gioia, lì 8 agosto 1861
Nella sera del 20 pp. mese si procedé all’arresto divari individui per vasta congiura borbonica scoperta la quale dovea essere sostenuta dai soldati sbandati. Nel mattino del 21 si arrestava corriere spedito da Bari che portava una lettera diretta a D. Donantonio Losito del tenore seguente: “Si è tutto stabilito da parte nostra, ora si attende la vostra risposta e sarà quella di far venire delle persone di fiducia come meglio potrete e prendere per la volta di Modugno per tutti. Mercoledì 24 senz’altro, notandomi l’affermativa, e per qual via si recheranno che saranno incontrati da uno di noi. Il loro santo sarà, appena che udranno qualunque persona, Santa Maria e saranno risposti Benissimo: segno di riconoscenza per essere accompagnati al luogo destinato. Riscontratemi subito. Il modo del loro viaggio non tutti uniti nel marciare”.
Nella sera del 24 corrente circa un’ora di notte veniva notizia che a poca distanza dall’abitato si era commesso un assassinio. Il Sindaco con un drappello di Guardia Nazionale si recò sul luogo e rinvenne nella pubblica strada il cadavere di un caporale di Guardia Nazionale Teodorico Prisciantelli. Si seppe che l’assassinio si era commesso da quattro sbandati borbonici i quali gli tolsero via il fucile. Aglomeratisi una quantità di tali sbandati guidati da tal Pasquale Romano, ex sergente borbonico, principiarono a scorrere le campagne togliendo dalle masserie quante armi da fuoco si rinvenivano e munizioni. Sapendosi ciò dal Sindaco, fu questi sollecito tenerne informato il Governatore e l’Intendente e chiedendo una forza militare che riunita alla Guardia Nazionale avesse potuto dare la caccia a quei tristi. Gli fu risposto non poterne avere e invece si invitavano le Guardie Nazionali dei paesi limitrofi ad accorrere sul luogo. La banda si ingrossava e si armava guidata dal Romano, che assumeva il titolo di generale.
Nella sera del 27 giungeva qui una colonna di 40 Guardie Nazionali di Putignano e 20 di Turi.
Nel mattino del 28 usciva anche di qui una colonna mobile congiunta di Putignanesi, Turesi e Gioiesi nel numero totale di 130 dirigendosi verso Vallata, punto di concentramento di sbandati. Si avvisarono privativamente i Sindaci di Castellaneta, Laterza e Santeramo a far ripiegare verso quel punto le rispettive forze onde chiudere la ritirata. La nostra colonna a tre miglia dall’abitato scontrò quattro sbandati, uno dei quali scarico una pistola, e se la diedero tutti a gambe e nella fuga vennero due uccisi.(…)
Su di una torre vennero situati degli individui, che con telescopi guardassero la campagna.
Costoro ci annunziarono che un drappello di 30 o 40 uomini ( … ) si muoveva rasentando il Bosco La Giunta. Si era fermato sulla Consolare di Taranto. Poi rimasto qualche poco prendeva la direzione di qui. Si gridò all’arme. Si rinforzò il lato minacciato piazzandovi nei Giardini 30 Guardie a far fronte. Verso le ore 14 la specula avvertiva che quel drappello era giunto alla Casina Favale e si muoveva a passo di carica verso Gioia. Si portò tosto verso quel lato un pezzo di cannone e si aprì un vivo fuoco di fucileria ( … ). Circa le ore 20 giungeva rinforzo da Altamura… Verso le ore 22 faceva ritorno la colonna mobile locale … Fu allora che si decise darsi l’assalto( … ) mentre giungeva da Bari il Luogotenente Rama con 40 uomini ( … ). Giungeva in questo frattempo una colonna di Guardie di Acquaviva ed un’altra di Bari… Occupata la borgata, si viddero le vestiggia della stragge, il saccheggio commesso dagli sbandati e dai reazionari.
In una casa furono rinvenuti morti quattro individui barbaramente massacrati e bruciati e dilapidate tutte le sostanze. Un Vincenzo Pavone, ex garibaldino e Guardia Nazionale, che era in casa di una sua fidanzata, venne sbranato da quei malvaggi, che nel di lui sangue intrisero del pane ( … ).Il risultato di quelle operazioni diede 51 fra morti e fucilati, compresi quelli assassinati dai borbonici nel n. di 7.
Nel mattino seguente si circondò la città. s’intimò il disarmo e si procedé a visite domiciliari.”
Verbale dei primi interrogatori degli arrestati (documento conservato nel Comune di Gioia del Colle)
L’anno 1861, il giorno Primo Agosto in Gioia, provincia di Bari. Innanzi a noi Nicola Stolfa, Delegato di Pubblica Sicurezza, si è presentato
Rocco Dragone Projetto
Interrogato, se l’era Soldato Sbandato, ha risposto affermativamente.
Interrogato perché si trovasse arrestato, e se faceva parte della Banda Armata, che assaltò nel 28 detto mese la Città, ha risposto: Che domenica egli faceva parte della Banda Armata capitanato dal Sergente Romano quando si venne all’assalto della Città. Tentatosi il detto assalto, e respinto si ripiegò sul Borgo S. Vito che venne da essi occupato. Ma trovata la resistenza, esso dichiarante si portò nella masseria di Nicola Nico a richiedere soccorso, ed obbligò assieme a Giuseppe Pace, Lonardo Paradiso, ed altri, a Domenico Pace di armarsi, e seguirli. Si armò il Pace, si portarono dalla Pagliaia di Matteo Scarpetta, ed insieme mossero per il Borgo S. Vito. ( … ). S’inoltrarono ed aprirono il fuoco con gli altri ( … ). Interrogato chi avesse assassinato la famiglia del Matarrese, ha detto ignorarlo ( … ). Chiamato Leonardo Colacicco, ha dichiarato che nella gara del Ventinove, incontratosi col Dragone, seppe da costui che si era battuto dentro Gioia, che si era guadagnato un Cannone, che si era occupato il Corpo di Guardia, ( … ) e che si erano liberati i Carcerati. Che lui aveva tirato una fucilata a Francesco Losito. Che giorni prima in una masseria di Santeramo erasi recato col Sergente, ed altri, ed ivi avevano massacrato il Massaro, e deflorata la di lui figlia.
Domenico Pace di Vincenzo
Ha risposto uniformemente al precedente, ma ha detto che venne costretto a seguire la Banda Armata …
Giuseppe Pace di Vincenzo
Ha detto essere sbandato, ed è stato uniforme ai due precedenti, aggiungendo che seguiva armato il Sergente da molti giorni.
Matteo Scarpetta di Lucantonio
Ha dichiarato uniformemente ai precedenti, ma con l’aggiunta che si intrattenne poco nell’abitato e si ritirò subito nella sua Pagliaia. Chiamati i fratelli Pace, e Dragone, han dichiarato e sostenuto che lo Scarpetta fu sempre all’azione e che animava gli altri.
Domenico Giove
Ha dichiarato che dagli Sbandati si ebbe una Sciabola di Cavalleria, ma ha soggiunto che voltato una Strada si rinchiuse in una Casa. Chiamato Giuseppe Montanarelli, ha sostenuto che il Giove con la Sciabola insultava Vincenzo Pavone ( … ). Quando il Cadavere del Pavone era sulla Strada, il Giove li tirò de’colpi di Sciabola …
Biagio Bellacicco
Ha dichiarato di essere Soldato Sbandato, che prese parte nello Assalto ed occupazione del Borgo S. Vito. Confessa che fu presente allo assassinio di Vincenzo Pavone, ma asserendo di aver cercato di impedirlo. Rosalia De Marinis, e Giuseppe Montanarelli hanno sostenuto che il Bellacicco fu uno di quelli che uccisero il Pavone, avendo scaricato il fucile contro lo stesso”.
Rapporto urgente del tenente dei R. Carabinieri Cesare Paoli all’Intendente
“In succinto le porgo avviso dei fatti che a Gioia si verificarono nello scorso giorno: num. 50 sbandati verso le ore 10 a.m. assalirono il paese; e nonostante la resistenza trovata dai militi della Guardia Nazionale, s’impadronirono d’una contrada colla perdita di tre dei loro ed un ferito della Guardia Nazionale. Verso le ore 3 p.m. giunse in Gioia il sottoscritto col distaccamento ed unitamente agli altri militi nazionali tennero fermo fino alle ore 6. Ché, giunto un drappello di truppa regolare, attaccammo il fuoco e c’impadronimmo a viva forza della contrada sopraddetta, ove nel combattimento restarono morti 30 reazionari e 20, presi con le armi alla mano, furono all’istante fucilati, 30 sono in potere della forza. L’ordine in Gioia è ristabilito …
Da “La reazione di Gioia del Colle nel 1861 ed il sergente Romano”, di Vincenzo Grimaldi, Bari 1901
“… Il mattino la città fu circondata e s’intimò il disarmo; e quando più tardi si procedette alle visite domiciliari furono sorpresi 19 fra sbandati e reazionari colle armi alle mani, i quali vennero immediatamente fucilati …
Intanto alla famigerata banda del Romano, che abbiamo vista stretta come in un cerchio di ferro e di fuoco, quale sorte era stata serbata? Quanti erano riusciti a porsi in salvo e quanti erano periti? Indicare con precisione la cifra esatta dei ribelli, che con la morte pagarono il fio della loro tracotanza, non lo si può assolutamente. ( … ). Il giornale “II paese”, che si Pubblicava in quel tempo, parlando succintamente dei moti reazionari di Gioia, dice che il numero dei morti fu di 150. Tale cifra non è affatto esagerata perché, se teniamo calcolo di ciò che scrive il sindaco nella sua relazione, cioè che la banda, composta di 93 uomini, fu quasi tutta distrutta, ad eccezione del capo e di altri due, aggiungendo a questi 90 i 44 fucilati quella sera stessa, più altri 19 il mattino seguente quando si procedette al disarmo generale, si ha complessivamente o io totale di 159 morti ( … ). A tanto eccidio però era sfuggito il più forte e temuto degli sbandati, il sergente Romano, il quale, forse ferito alla coscia ed al braccio, pure riuscì ad allontanarsi dal paese ed a nascondersi la notte in una grotta tufacea sita in una traversa della strada che mena ad Acquaviva. Poi non si ebbero più notizie di lui … ”
Morte del sergente Romano Giudicato regio del circondario di Gioia
Gioia li 6 gennaio 1863
Signore
In adempimento dei miei doveri mi affretto rassegnarle che ieri a circa le ore 21 una colonna di questa Guardia Nazionale, al numero di circa 50, ed un distaccamento di circa 60 Cavalleggeri ebbero uno scontro nella contrada denominata Vallata in questo tenimento, colla banda dei briganti capitanata dal famigerato ex sergente Borbonico Pasquale Romano esito di che oltre di quest’ultimo rimasero sul suolo uccisi 22 briganti, e due altri furono catturati vivi. Di questi ultimi l’uno ha subito già l’ultimo supplizio..”
Dall’interrogatorio del bandito Cosimo Manieri di Nardò, che prese parte al combattimento di Vallata
” … Ci portammo verso l’albeggiare al limitare del bosco, che confina col tenimento di Gioia, e mettemmo le fazioni alle diverse mura di cui è circondato, mandandosi dal Maggiore quattro briganti in cerca di vitto, e che portarono dopo circa un’ora e mezza. Dopo mangiato, il Maggiore mi diede a tenere due cavalli e mi pose a dormire con tutti gli altri. Verso le ore 22 le fazioni chiamarono all’armi dissero che arrivava la cavalleria; ma non avemmo neanche il tempo di metterci a cavallo che si cominciò a far fuoco. Circondati però ben presto da tutte le parti da Cavalleria, Fanteria, Guardie Nazionali e Carabinieri, rimasero molti briganti uccisi e tra questi il Maggiore, cioè il Sergente di Gioia”.
Da “Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860” di Antonio Lucarelli, Laterza 1922.
Eran le due pomeridiane del 5 gennaio 1863, allorché le scorte vigilanti nel bosco danno ai compagni l’allarme ( … ). I masnadieri tentano di fuggire; ma sessanta cavalleggeri di Saluzzo ( … ) piombano loro addosso e li circondano da ogni lato. ( … ). Completa la disfatta: ventuno o ventidue uccisi, parecchi feriti, due prigionieri, armi e cavalli abbandonati. Pochi riescono a fuggire durante la mischia; alcuni si salvano, fingendosi morti.
E cade, dopo mille fortunose vicende, lo sciagurato condottiero! La tradizione popolare racconta che il Romano, mentre dibattevasi fra uno stuolo di cavalleggeri capeggiato dal sergente Michele Catù, intravveduta l’inevitabile fine, implorò la fucilazione, esclamando: “Finitemi da soldato!”. Ma il Cantù a sua volta: “Muori da brigante!”. E così il sergente borbonico, visionario ed illuso fino all’estremo della vita, soggiacque alle sciabolate del sergente lombardo, proprio là, nei boschi di Vallata, che per la prima voltalo raccolsero profugo e ribelle, e donde il 28 luglio mosse, suo malgrado, all’assalto della terra natia. Stranocapriccio degli eventi!”
Da”La reazione di Gioia del Colle ed il sergente Romano”, cit.
“Il corpo del Romano, legato su un asino, è trasportato a Gioia. ( … ) Ma la gloria di questa ultima vittoria fu in parte oscurata da un’ignobile azione che la plebe, uscendo come sempre fuor idei limiti, commise nell’eccesso della gioia. Le innocenti sorelle del disgraziato sergente, ignare di quanto era accaduto, si stavano affacciate al balcone quando videro accostarsi alla loro casa una ciurmaglia che, quasi briaca, proferiva a voce alta parole oscene gesticolando maledettamente( … ). D’un tratto, in mezzo a quel chiasso infernale, s’udirono ben distinte delle fortissime grida di disperazione, e subito dopo si videro chiudere in tutta fretta e con fracasso le finestre della casa ove abitava la famiglia del Romano. Le sorelle avevano riconosciuto nel freddo cadavere che giaceva legato sulla schiena dell’asino il proprio fratello ( … ). Il corpo del Romano, privo dei suoi abiti e affatto nudo, stette per due giorni esposto alla pubblica indignazione, nella Piazza del Castello e dopo venne sepolto di nascosto”.
Da “De Naples à Palerme”,di Oscar De Poli, Parigi, 1865
“… Il sergente Romano era stato sciabolato, tagliato a pezzi … A Gioia, in Terra di Lavoro, un vecchio contadino mi mostrò il posto dove i vincitori aveva esposto orgogliosamente, per tre giorni, questo cadavere a brandelli. Tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un’ultima volta questi resti irriconoscibili dell’eroico brigante; si veniva là come ad un pellegrinaggio santificato dal martirio; gli uomini si scoprivano il capo, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano. Mai un’accusa si levava contro la memoria del morto, mai un grido di riprovazione fu inteso; egli portava nella tomba il rimpianto e l’ammirazione dei suoi compatrioti … ”
Dalla relazione della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio letta alla Camera nel Comitato segreto del 3 e 4 maggio 1863
“… Il sergente di Gioia, quegli medesimo che faceva prestar giuramento di fedeltà ai suoi masnadieri, e che li intitolava giurati della fede cattolica, aveva l’uso di scrivere di tempo in tempo qualche memoria e qualche appunto, che vennero rinvenuti nel suo taccuino, e che ora fanno parte dei documenti del processo in via d’istruzione a carico dei suoi complici. Cotesto brigante non era così abietto come gli altri: aveva coraggio e difatti perì combattendo; nella sua indole era uno strano miscuglio di bieco fanatismo e di rozza pietà, né la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà; un qualche spiraglio di luce rischiarava talvolta la oscurità della sua coscienza, e componeva l’animo suo alla invincibile malinconia del rimorso. In quei momenti di abbandono con sé medesimo scriveva il suo diario che intitolava: ‘ le mie disgrazie ‘”.
Da una lettera di Romano alla fidanzata Lauretta D’Onghia
“… prediletta dell’anima mia, la tua lontananza mi sento stringere il cuore giorni per giorni ma quello che alquanto tranquillizza il mio spirito, è quella che io ben conosco quale e quante preghiere voi rivolgete all’Altissimo per me, onde liberarmi da questo infame cimento, locché spesso mi rattrista. Solo posso assicurarvi, prediletta del mio afflitto cuore, che non appena sentiremo la novella di essere nel trono il nostro Re, noi tutti saremo liberi … ”
Giuramento dei briganti del sergente Romano
“Nel momento medesimo da disposizione superiore si conforme che nell’anno… mese … e giorno… noi tutti in unanimità di voti contestiamo il presente atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli. Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il sommo Pontefice Pio IX Francesco II, re del Regno delle Due Sicilie ed il Comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine …
Promettiamo e giuriamo inoltre di non mai appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato … Promettiamo e giuriamo ( … ) distruggere il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità dell’intera nostra colonna ha sopra espresso… ”
Da “La campagna di San Martino” del 4 novembre 1863
“Gli esiliati che mendicano pane in terra straniera sono per lo meno 30.000; nelle province meridionali vi sono 8.639 impiegati destituiti e ridotti in miseria; so no state fucilate o scannate 18.000 persone; circa 7.000 ufficiali dell’antica armata sono stati congedati in ispregio della capitolazione di Gaeta; 14.000 napoletani sono stati incarcerati in un solo anno. Queste cifre ufficiali sono state comunicate dal Ministero di Torino ( … ). Ed ecco che il governo si vanta di essere popolare! Ma dove vede mai il popolo, se esso è imprigionato, fucilato, deportato o esiliato?”
Dall’autobiografia di Crocco
“… Dei duemila uomini già un dì miei dipendenti, nell’anno 1864 eravamo ridotti a cento e sedici tutti feriti da una fino a cinque volte. Dei rimanenti per compiere la cifra, ottantasei caduti vivi nelle mani della forza, sedici fucilati, cento e venti presentati spontanei, gli altri tutti morti con le armi alla mano … ”
Dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio
“Le perdite patite dai briganti nel medesimo periodo di tempo sono le seguenti: nei primi otto mesi del 1861, 365 fucilati, 1.343 morti in conflitto, 1.571 arrestati; nel 1862,594 fucilati, 950 morti in conflitto, 1.106 arrestati; nel primo trimestre 1863, 79 fucilati, 120 morti in conflitto, 91 arrestati: in totalità, 1.038 fucilati, 2.413 morti in conflitto, ossia 3.451 morti e 2.768 arrestati ( … ). Oltreciò nei primi otto mesi del 1861 si presentarono 267 briganti, 634 nel 1862, 31 nel trimestre del 1863; in tutto 932. Il numero totale perciò approssimativo dei briganti per morte, per arresto e per presentazione volontaria posti fuori combattimento ascende a 7.151. Il numero dei presentati è cresciuto in proporzione della cresciuta energia della repressione. Nell’ultimo quadrimestre del 1861 in Capitanata furono fucilati 7 briganti, e morti in conflitto 30; nel quadrimestre corrispondente dell’anno successivo i fucilati furono 136, e 322 i morti in conflitto; nella prima epoca non si presentò nessuno, nella seconda il numero dei presentati ammontò a 281.
Dall'”esposto” di Fabio Carcani indirizzato alla Commissione d’inchiesta, pubblicato poi nel paese natio, Trani, 1863, col titolo “Sul brigantaggio nelle provincie napoletane”
“… Io non posso scusare i loro eccessi, le loro barbarie, ma dimando a chiunque sente battersi il cuore nel petto, fu tutta loro la colpa? … ”

NOTE
1) – A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1969. “Manutengoli erano detti i favoreggiatori delle bande dei briganti, sia che si trattasse di grossi proprietari di terra legati ai “comitati borboniani” sia che si trattasse dei familiari dei briganti e, in genere, di povera gente che, abitando o lavorando in campagna, aveva rapporti con loro. Reazionari erano tutti i meridionali schierati, a qualunque titolo e per qualunque motivo, contro l’unificazione del Paese. Venivano definiti o si definivano con quel termine anche alcuni che solo si opponevano alle misure liberticide (o lesive dell’ auspicata autonomia e dell’autogoverno della dittatura militare). Sbandati erano tutti gli ex militari borbonici o i giovani in età di andare soldato, che si sottraevano a quest’obbligo – che implicava la partenza per sconosciute regioni del Nord – rifugiandosi nei boschi”.
2) – Pronio, Rodio, Fra’ Diavolo, Mammone furono capibriganti nel periodo della Repubblica Partenopea e della guerriglia antifrancese. Di Mammone, il Cuoco racconta che “allorché pranzava aveva sempre sulla tavola una testa tagliata di fresco e beveva sempre in un cranio umano”. Non diversamente si espresse il relatore della Commissione d’inchiesta, Massari, per il brigantaggio post-unitario: “Bevono il sangue, mangiano le carni umane, sono rozzi, superstiziosi, ignorantissimi … “.
3) – la cifra è fornita dal Cesari in Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal ’60 al ’70. Secondo altri (v. l’inchiesta parlamentare sul brigantaggio), si sarebbe trattato di 85.940 uomini, cioè del Sesto corpo d’armata dell’Esercito Regio.
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