Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C.

COP. AdrianoLaReginaRID

“Adriano La Regina. Aspetti istituzionali del mondo sannitico, «Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C.» Atti del Convegno 10-11 novembre 1980, Soprintendenza del Molise 1984, 17-25.”
Consiglio Regionale/Soprintendenza Archeologica del Molise

 

 

 

 

SANNIO Pentri e Frentani dal VI al I sec. a.C.
L’occasione di questo convegno nasce dalla mostra Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I sec. a. C. che la Soprintendenza del Molise, d’intesa e con la collaborazione della Regione Molise, ha presentato ad Isernia nel complesso monumentale di S. Maria delle Monache, destinato a diventare uno dei caposaldi del sistema museale molisano. La documentazione raccolta offre il
modo dì trattare alcuni aspetti particolari di un tema che sarebbe altrimenti troppo ampio, e che potrebbe essere qui solo genericamente sfiorato.

La mostra costituisce un bilancio completo delle attività di ricerca archeologica svolte dalla Soprintendenza negli ultimi anni, i cui risultati sono per altro inquadrati nell’ambito delle conoscenze acquisite con le precedenti indagini fin dal secolo scorso. Un notevole impegno è stato rivolto, negli anni più recenti, all’esplorazione di necropoli arcaiche sia nelle aree interne (Pozzilli, nell’agro venafrano, dal 1977), sia sulla fascia costiera della regione (Larino, dal 1977; Termoli, dal 1978). A partire dal 1974 anche la Soprintendenza degli Abruzzi aveva intanto ripreso l’esplorazione della necropoli di Alfedena e la revisione critica dei materiali già noti. Si presenta, cosi, ben ampliato il panorama delle conoscenze archeologiche sul Sannio antico e, come sempre in questi casi, si pongono anche nuovi argomenti di discussione.

Un primo problema riguarda i Frentani e, in particolare, la loro appartenenza al gruppo etnico dei Sanniti, che viene ora messa in dubbio sulla base della documentazione archeologica relativa alla fase arcaica. Sono infatti emersi, in seguito alle più recenti ricerche, alcuni caratteri culturali che distinguono questa popolazione dai Sanniti delle aree appenniniche interne (B. d’Agostino, in Sannio, Pentri e Frentani dal Vi al I sec.a.C. roma 1980,p.25 ss. ). Con i Frentani si ripropone dunque la discussione sulle ben più ampie questioni di etnostoria italica. A lungo dibattute e certamente mai risolte, esse hanno infatti interessato in passato ambiti disciplinari diversi, ma sempre in termini di classificazione dei caratteri culturali.
Per quanto riguarda i Frentani e la loro distinzione dai Sanniti, vi è quindi da osservare che differenze culturali nell’ambito della produzione artigianale e negli usi rituali non implicano in alcun modo per se stesse una distinzione etnica. Lo stesso vale, naturalmente, in senso contrario per i caratteri di omogeneità. Per definire la questione dei Frentani è pertanto necessario utilizzare anche altre categorie di dati. In secondo luogo vi è un problema di terminologia: Frentani può avere infatti due accezioni, una etnico-culturale ed una istituzionale, le quali devono essere ambedue individuate nella loro estensione geografica da una parte e nella loro evoluzione storica dall’altra.
Il territorio occupato dai Frentani da quando le fonti ce ne documentano l’esistenza, si estendeva per circa 80 km a nord del Biferno e per circa 20 km a sud. Il Biferno è un confine storico, lo sappiamo per certo da Plinio che lo indica come confine della regione IV augustea.

Non si è mai riusciti a trovare un motivo plausibile per cui nell’ordinamento augusteo i Frentani venissero suddivisi tra la regione IV e la regione II. Il motivo può essere solamente uno: nel momento in cui furono costituite le regioni augustee il territorio a sud del Biferno non era frentano, ma non in senso etnico, ossia che non fosse abitato da genti frentane, bensì in senso istituzionale, ossia le genti che vi risiedevano non facevano parte dei municipi istituiti dopo la guerra sociale con l’annessione dei territori della respublica Frentanorum. La prova di ciò è in Livio (XXVII, 43) ove Vager Larinas viene menzionato insieme con Vager Frentanus e con i territori di altre entità tutte statali: Marrucini e Pretuziani. Già alla fine del III secolo il Biferno costituiva dunque un confine politico fra lo stato frentano e lo stato di Larino; questo confine può essersi determinato alla fine del IV secolo, quando viene stipulato il patto di alleanza con i Frentani, accettati come soci da Roma. In tale occasione, e siamo nell’anno 304, solo 10 anni dopo la deduzione della colonia a Luceria, fu certamente imposta da Roma la separazione di Larino dallo stato frentano. La città, infatti, emette successivamente monetazione propria ed appare latinizzata, a differenza dei restanti Frentani che mantengono fino alla guerra sociale uno stato unitario con estensione territoriale compresa tra il Biferno e il Foro, fin quasi al fiume Pescara. Nonostante l’assetto politico ed istituzionale diverso i Larinati conservano memoria della loro pertinenza etnica nella denominazione municipale: Larinates cognomine Frentani in Plinio. Questa è la situazione che si viene a determinare nella Frentania meridionale alla fine del IV secolo a.C; in precedenza lo stato frentano rispecchiava la situazione etnico-culturale.
Resta ora da vedere quale fosse il grado di affinità tra popolazioni frentane e popolazioni sannitiche dell’interno per la fase post-arcaica. Le forme di differenziazione culturale che si manifestano in ambito larinate sono da collegare con la situazione politica sopra esposta: alfabeto latino, forse un impianto urbano a pianta regolare già nel III secolo a.C, come sembra risultare dagli scavi più recenti, mentre perdura, d’altra parte, l’uso della lingua osca. In tutta la restante parte della Frentania, ossia nel territorio che si estende sin quasi al Pescara, nulla della documentazione disponibile indica alcuna differenza rispetto ai Sanniti Pentri, nella lingua, nell’alfabeto, nei culti, nelle formule onomastiche ed istituzionali dello stato. Gli elementi distintivi più evidenti nel carattere degli insediamenti consistono nella scarsità dei centri fortificati, senza che questo implichi però una diversa forma delle strutture insediative. I Frentani vengono definitivamente debellati da Roma nel 319 a.C, ossia proprio quando inizia per i Samnites Pentri il periodo più tormentoso delle invasioni da parte degli eserciti romani. Sempre in connessione con la situazione di ordine politico possono giustificarsi nel corso del III secolo a.C. i fenomeni di maggiore floridità economica, per altro favoriti dalla migliore disponibilità di suoli utilizzabili per lo sfruttamento delle risorse agricole sulla fascia costiera. Si manifesta, tuttavia, con ogni evidenza una distinzione fondamentale: i due popoli hanno nomi diversi, Pentri e Frentani, e costituiscono due stati diversi.
Abbiamo visto dunque la situazione dei Pentri e Frentani nella loro fase recente, ma ciò non è certamente sufficiente per proiettare tale situazione anche in età arcaica. I Frentani, si potrebbe dire, possono anche essere una propaggine sannitica sopravvenuta sulla fascia costiera nel corso del V secolo, cosi come sappiamo essere avvenuto per altri gruppi sul versante tirrenico. In tal caso, la documentazione archeologica dell’area frentana sarebbe pertinente ad altre popolazioni poi sottomesse dai Sanniti, che, insediatisi nella Frentania, avrebbero formato un nuovo stato; questa ipotesi non trova alcun sostegno nella documentazione esistente. Può essere provato, invece, il contrario: la più meridionale delle iscrizioni appartenenti al gruppo cosiddetto sud-piceno, ed ora anche medio adriatico, è comparsa in area frentana, a Crecchio, nel retroterra di Ortona.
Questi testi documentano una lingua che ancora nel 1951 il Devoto considerava non sabellica, ma di cui ora è pienamente documentata l’italicità. Il testo di Crecchio, per sé difficilmente databile, ma comunque non posteriore al V secolo a.C, fa parte di un gruppo di documenti di cui il più antico risale alla metà del VI secolo: la statua di Capestrano. Questi documenti sono diffusi in ambito vestino, peligno, pretuzio e poi più a nord nell’area sud-picena. Nell’ambito di questo gruppo di iscrizioni sono compresi tre documenti di Penna S. Andrea, presso Teramo, che recano la più antica menzione dell’etnico safin-, che equivale indifferentemente a Sabino e a Sannita. A maggior riprova sulla lapide di Crecchio compare il gentilizio staties-Statius, di cui è ben documentata la diffusione in ambiti sannitici. Per concludere su questo argomento, a cosa si riducono i caratteri distintivi tra Pentri e Frentani? Si riducono al possesso di oggetti di produzione diversa che dimostrano l’esistenza di ambiti commerciali ristretti, ed una organizzazione elementare dello scambio, si riducono all’affermarsi di prodotti locali di imitazione: ceramica di tipo dauno nelle zone contigue alla Daunia, ecc., mentre nelle stesse zone i caratteri fondamentali del rituale funerario frentano restano distinti da quelli dauni: il cadavere supino, come nelle zone sannitiche di Alfedena e Venafro e non rannicchiato come nella Daunia. Il precedimento critico che tende ad individuare i fenomeni di trasformazione o di differenziazione sociale, mediante il riconoscimento di modelli culturali specifici, i quali possano caratterizzare nella loro successione cronologica, o nella loro contiguità spaziale, determinati ambiti sociali, può essere considerato corretto solo a determinate condizioni. I contenuti ideologici che emergono dalla fisionomia del modello culturale, possono certamente essere utilizzati per interpretare i caratteri strutturali del contesto sociale che li ha prodotti, ma non in termini di rapporto semplice. Questo non consente infatti alcuna forma di controllo, si risolve tautologicamente e non produce ulteriore conoscenza.

La formazione di gruppi diversi, socialmente e istituzionalmente organizzati, in uno stesso contesto etnico non presuppone condizioni di differenza culturale e strutturale. Se condizioni di omogeneità determinano processi del tutto analoghi, nei livelli ideologici questi processi si possono risolvere in forme di identità collettiva che assumono una funzione delimitativa
rispetto ad altri ambiti di identità del gruppo. Il criterio classificatorio dei caratteri culturali è quindi difficilmente praticabile per identificare un gruppo etnico, se non facendo ricorso anche alla categoria rappresentata da quel particolare carattere culturale che consiste nella nozione che il gruppo ha di sé, e che esso esprime mediante forme istituzionali. Ciò significa, che se noi escludiamo il predetto elemento soggettivo, i caratteri empiricamente valutabili sono insufficienti per la definizione del gruppo. Essi si rivelano invece particolarmente importanti per lo studio del processo di identificazione.
Considerato questo, appare decisamente preferibile, per la maggiore coerenza teorica, la nozione di gruppo etnico come forma di organizzazione sociale piuttosto che come unità portatrice di cultura, con l’ovvia implicazione che i caratteri culturali comuni vadano considerati aspetti secondari e non elementi costitutivi del gruppo (F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries, 1969; R. Cardoso de Oliveira, Idenliiade, etnia e eslrutura social, 1976).
La corretta comprensione di un modello elaborato da società diverse può essere mediata solamente dalla definizione del significato che a quel modello attribuiva la società che l’ha prodotto; si corre altrimenti il rischio di utilizzare categorie non pertinenti. Proprio a tal fine gli aspetti istituzionali offrono indicazioni particolarmente utili anche per l’interpretazione della documentazione archeologica. A questo proposito è di estremo interesse un altro fenomeno il quale rivela come non sia possibile istituire rapporti di tipo elementare: il modello costituzionale della touta e del meddis tùvtiks, ossia l’ordinamento statale sannitico con le sue forme magistratuali, viene applicato uniformemente in condizioni estremamente diverse. Nei Samnites Pentri come nei Frentani e nelle altre popolazioni di ceppo sannitico, esso si adegua all’estensione dell’intero nomen tribale, mentre nelle città-statodiorigine greca, cadute sotto dominio sannitico, esso si riduce alla dimensione urbana. In queste città di nuova occupazione l’ordinamento delle magistrature appare più articolato, ma il modello essenziale è identico: magistratura annuale del meddis tùvtiks che esercita giurisdizione e comando militare, ossia il più elevato potere pubblico, e poi la censura e l’assembleadeliberante del Senato. Quale che sia l’origine di questo modello, esso si è affermato con il declino di ordinamenti di tipo monarchico come a Roma, ma nel corso del V secolo; nel IV secolo infatti, le diverse entità tribali si configurano già organizzate nella forma di res publicae distinte, con i caratteri che manterranno per i successivi tre secoli. La comprensione di questo modello, così bene analizzato dal Salmon, stenta ad affermarsi ed è pressoché totalmente ignorato sia in ambiti linguistici che in quelli archeologici, ove perdura uno stato di confusione per l’accostamento indebito di situazioni documentate in Campania ed altre presenti in aree sannitiche. L’accostamento può essere, in effetti, giusto solamente se si tiene in debito conto la differenza strutturale già indicata tra città-stato, come Capua, Pompei, Ercolano e Nola, e stati tribali come quelli dei Pentri, dei Frentani e così via. Questa confusione preclude inoltre la comprensione della funzione svolta da strutture di rilevanza statale, quale ad esempio il santuario di Pietrabbondante, da più parti interpretato come una struttura federale, a partire da un recente articolo di Lejeune; non si tratta di una questione meramente nominalistica, perché nelle due accezioni si riflette una concezione totalmente diversa della struttura dello stato sannitico. Pietrabbondante è in effetti il santuario dello stato, totalmente diverso nelle sue funzioni da ogni altro conosciuto nel territorio dei Pentri.
La sua peculiarità non consiste solamente nella monumentalità che pure rivela un’ingente concentrazione di spesa, ma soprattutto nelle caratteristiche specifiche. Ha un teatro collegato con un tempio secondo uno schema che deriva dal tipo dei comitia, il che indica non solo la sua utilizzazione per ludi scenici, quali probabilmente aveva ogni santuario anche di interesse più strettamente locale (si veda ad esempio il santuario da cui proviene la Tavola di Agnone ove si celebravano i ludi Florales), bensì anche come sede di concilia. Probabilmente il senato stesso vi si adunava in particolari occasioni. Denota questo carattere, inoltre, l’adozione del tempio a cella tripartita di evidente ispirazione capitolina sullo scorcio del II secolo a.C, allorquando si manifestano i segni di insofferenza politica nei confronti di Roma e se ne calcano modelli in funzione distintiva; ma ciò che soprattutto indica in Pietrabbondante l’interesse che lo stato sanni tico aveva per il santuario è la presenza costante di magistrati supremi negli interventi di carattere edilizio. La menzione del nome stesso del Sannio in una delle iscrizioni del II secolo a.C, il culto della Vittoria, ed infine il carattere degli oggetti votivi. Le dediche di carattere pubblico prevalgono su quelle private.

La grande maggioranza degli oggetti rinvenuti nei livelli più antichi del santuario è costituita da armi. Oltre al vecchio nucleo di armi scoperte nel secolo scorso, ora al Museo di Napoli, gli scavi hanno restituito una grande massa di frammenti di ferro e di bronzo relativi a lame, punte di lancia, cinturoni, elmi, ornamenti di corazza, ecc. (AA.VV. in Sannio. Pentri e Frentani dal VI al l sec. a.C, cit. , pp. 139 ss.. ). A differenza delle armi rinvenute nelle sepolture della Troccola, non lontano dal santuario ( M. Suano in Sannio Pentri e Frentani dal VI al l sec. a.C, cit., pp. 132 ss..), queste non possono in alcun modo considerarsi come provenienti dall’armamento di contingenti sannitici dell’area pentra. Le armi devono essere appartenute ad eserciti nemici. Armi e corazze deposte nei santuari sono infatti spolia hostium che il comandante dell’esercito vincitore raccoglie dopo il combattimento, con ampia facoltà di disporre della loro destinazione. Solamente nel caso di un duello le spolia sono considerate proprietà private del vincitore che può utilizzarle come virtutis ornamenta in casa e poi nel sepolcro, quando non debba donarle ex voto a qualche divinità nel santuario prescelto a tal fine.

La documentazione che possediamo a questo riguardo è ingente, e consiste sia in materiali archeologici, sia in informazioni storiche. Essa si riferisce alla pratica, ben affermata nel mondo greco e poi in quello romano, di riservare alla divinità una decima del bottino di guerra (Per un esame approfondilo delle fonti letterarie greche cfr. W.K. Pritchett, Ancien! Greek Military Practices, I, 1971, pp. 53-100. ). Talvolta il dedicante è un singolo individuo, il quale utilizza come dono votivo la parte che gli era stata assegnata con la suddivisione del bottino o le armi strappate al nemico abbattuto in duello (Per dediche individuali cfr. H. Hoffmann, Early Crelan Artnorers, 1972). Ad Olimpia, ove è grande il numero di armi con dedica scritta, molto raramente l’offerente è un singolo. Per lo più le iscrizioni recano il nome della comunità dedicante e quello della popolazione su cui si ebbe il successo militare. Basti ricordare gli esempi degli elmi dedicati a Zeus da Gerone e dai Siracusani dopo la battaglia di Cuma (Meiggs-Lewis, SGH1, n. 29. ), o le lance date dai Tarantini come decima del bottino preso a Thurii (Meiggs-Lewis, SCHl, n. 57. ). Ancora più significativa è la presenza, a Olimpia, di complessi di armi, come quelle che costituivano il trofeo inviato per commemorare la vittoria degli Argei sui Corinzi (L.H. Jeffery, Locai Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961. p. 162, n. 18. ), di cui restano due elmi e sei scudi. La pratica risulta comunque diffusa in tutto il mondo antico. Nel 293 a.C. Papirio Cursore, dopo aver distrutto Aquilonia e Sepino, dedicò a Roma il tempio di Quirino (Liv. X, 46, 7) exor navitque hostium spoliis, decorandolo dunque con le armi che aveva portato per il trionfo. Ne aveva una tale quantità che non solo adornò il tempio di Quirino ed il Foro, ma anche templi ed edifici pubblici di città vicine. Nel 324 Quinto Fabio Rulliano, magister equitum, dopo aver sconfitto i Sanniti contro le disposizioni di Papirio, multis potitus spoliis congesta in ingentem acervum hostilia arma subdito igne concremavit (Liv. Vili, 30, 8) per voto assunto con qualche divinità oppure, come anche si sostenne, per impedire che Papirio le usasse come spolia in triumpho. Il voto delle spolia ad una divinità, di solito espresso dal comandante prima della battaglia, poteva infatti venire esaudito anche mediante un rogo, come a Sentino: spolia hostium coniecta in acervum Iovi Victori cremavit (Liv. X, 29, 18). Le armi depositate nei santuari venivano utilizzate, all’occorrenza, per l’armamento di contingenti militari arruolati in fretta, com’è noto in almeno due occasioni durante la guerra annibalica: arma, tela, alia parari iubent et vetera spolia hostium detrahunt templis porticibusque (Liv. XXII, 57, 10); sex milia homi-
num Gallicis spoliis, quae triumpho C. Flamini tralata erant, armavit (Liv.XXIII, 14, 4).

Anche le armi di Pietrabbondante sono certamente spolia hostium, consegnate al santuario in occasioni diverse come decime di bottino dopo essere state utilizzate, in alcuni casi, durante il trionfo del vincitore. I tipi ricorrenti e la grande quantità degli esemplari simili lasciano intendere come le donazioni fossero effettuate, almeno nella gran parte dei casi, da comandanti militari nell’esercizio della loro funzione. Ciò non esclude la possibilità che oggetti particolari siano stati donati da singoli individui privatamente; in tali casi però le armi recano incisa, di solito, la dedica individuale, che tra gli esemplari di Pietrabbondante non compare mai. Altrove sono note armi donate privatamente da Sanniti a santuari nell’Italia meridionale, ove essi dovevano trovarsi ad operare forse in qualità di mercenari. Abbiamo l’elmo di un sepinate con iscrizione dedicatoria in alfabeto greco-lucano (Vetter, n. 190. ), nonché un secondo elmo con iscrizione della stessa classe alfabetica che però non denuncia l’origine del dedicante (Vetler, n. 191 ).
Le armi rinvenute a Pietrabbondante non sono tutte della stessa epoca.
Alcuni frammenti si possono datare tra la fine del V e la prima metà del IV secolo, e sono di produzione tarantina, come ha ben dimostrato Bruno d’Agostino (B, d’Agostino in Sannio, Pentri Frentani dai VI ai l sec. a.C, cit . . pp. 140 ss.. ), mentre altri, e sono la maggior parte, si datano tra la fine del IV ed il III secolo. Il primo nucleo precede quindi il periodo delle guerre sannitiche, ed a quali vicende si possa attribuire la sua presenza nel Sannio è difficile dire. Certamente ad attività belliche che non riguardavano i rapporti con Roma; la cattura del bottino potè avvenire nei territori apuli, o sul versante tirrenico. Il secondo nucleo di armi appartiene invece ad un periodo in cui il Sannio stesso venne interessato dalla presenza di eserciti romani, ed in cui comunque le ostilità riguardarono, quasi incessantemente per oltre cinquanta anni, i rapporti con Roma e con i suoi alleati.

Dal 326 a.C, quando ebbe inizio la seconda guerra sannitica, al 272 a.C. quando si concluse la guerra combattuta dai Sanniti insieme con Pirro contro Roma, si estende l’arco di tempo entro il quale vanno collocati gli avvenimenti a cui è possibile riferire la cattura delle armi del secondo nucleo.
Teatro delle ostilità, in quegli anni, fu tutta l’Italia centro-meridionale. Successi sannitici contro i Romani ed i loro alleati si verificarono certamente in occasioni ben più numerose di quanto ci sia rimasta memoria, nei territori del Lazio, degli Abruzzi, delle Puglie e della Campania. Gli elmi del tipo cosiddetto celtico, con paragnatidi anatomiche (AA.VV. in Sannio. Pentri e Frentani. dal VI al I sec. a.C, cit., pp. 143 ss., nn. 41.2, 41.26-33 e 41.41. ) possono attribuirsi all’armamento romano (F. Coarelli, in Mélanges Heurgon, I, 1976, pp. 157 ss..).

Gli esemplari rinvenuti non sono tutti coevi; essi documentano che la dedica di armi catturate a seguito di successi militari su eserciti romani si riferisce ad occasioni diverse. Altri tipi di armi, come ad esempio gli elmi con paragnatidi trilobate, appartennero più probabilmente all’armamento di popolazioni alleate di Roma, in Campania e nelle aree sabelliche settentrionali.
Dopo gli ultimi trionfi de Samnitibus, nel 272 a.C, non si hanno per il Sannio notizie, né motivi, di ostilità che avrebbero potuto dare luogo ad alcuna dedica di bottino fino agli anni della guerra annibalica. Cinquanta anni di pace, dunque, in cui si svilupparono profondi legami di interessi e di alleanza con Roma, al punto che, nella guerra contro Annibale i Sanniti Pentri, e solo essi tra gli alleati sannitici, sopportarono le conseguenze di una onerosa fedeltà a Roma. Per ammissione delle stesse fonti romane il primo insuccesso di Annibale, nella battaglia di Gerione presso Larino, fu dovuto all’intervento di un contingente sannitico (Liv. XXII, 24, 12): il santuario di Pietrabbondante presenta tracce evidenti delle devastazioni che tutto il Sannio subì durante la presenza degli eserciti punici. Le paragnatidi forate da grossi chiodi per l’affissione degli elmi, con le altre armi, alle trabeazioni lignee degli edifici secondo la pratica che costituì da modello allo schema pergamene del fregio d’armi, rappresentano i relitti dì una rapida spoliazione del santuario.

Le armi rinvenute nel secolo scorso ed ora al Museo di Napoli erano state deposte all’aperto su un piano di terra; esse sono evidentemente i resti di una congeries armorum che doveva costituire un trofeo dopo un successo milita- re. Trattandosi di un nucleo di armi radunate in una particolare occasione, l’erezione del trofeo può essere datata sulla base degli esemplari più recenti, attribuibili alla fine del IV secolo ed agli inizi del III secolo a.C. ( D. Ciiampaola in San/iio. Pentri e frrntani dal VI al I sec.a.C, p. 139.) ossia nell’ambito della terza guerra sannitica. È dunque plausibile che si tratti di un trofeo costituito con armi predate dopo uno scontro con un esercito di Romani e di socii.

Tutta questa documentazione attribuisce dunque al santuario una connotazione precisa: esso era il luogo ove si consacravano le decime del bottino predato ai nemici dopo una vittoria, affiggendo le armi alle trabeazioni lignee degli edifici o erigendo trofei. A riprova del perdurare di questa pratica vi è la dedica di un donario alla Vittoria, offerto nel corso della guerra sociale.