Il Brigantaggio alla Frontiera Pontificia-Capibanda

Pagine da ilbrigantaggioa01saingoog_Pagina_2Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Il Brigantaggio alla Frontiera Pontificia dal 1860 al 1863” Milano 1864

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Capibanda, biografie e ritratli, parenti di briganti, catture e ricatti, preti e frati, usi, costumi, vizj, delitti e brutture.

CHIAVONE (Luigi Alonzi detto Memmo), il più noto ed il più antico fra i capi briganti, era d’origine Sorano.
Antico soldato indisciplinato dell’esercito Borbonico e condannato a pene infamanti per infrazioni all’onore, quindi uomo di mal affare e guardaboschi nel paese di Sora. Si fe’ conoscere per la sua vita sregolata, le sue irruenze e le sue prepotenze, e fu oggetto di spavento nella propria città per le sfrenate libidini, le vessazioni e le concussioni di cui si rese autore.
Ferdinando II amava ed assai apprezzava cotesta sorta di ribaldaglia, e la teneva d’occhio amorosamente, ed all’occasione sapeva premiarla, impiegandola lucrosamente, onde farla propria creatura, per giovarsene poi nelle sue truci persecuzioni contro quel ceto di popolo ch’egli supponeva nutrisse umori liberali. Chiavone fu uno dei primi a prendere il cammino della montagna e ad innalzare il vessillo della ribellione contro il Governo
Nazionale.

Le sue gesta brigantesche saranno registrate con più larghezza nel capitolo ultimo, in cui tratterassi della parte storica e militare della guerra per bande. Basti ora uno schizzo biografico tracciato alla sfuggita per far conoscere l’uomo piuttostochè il capo banda.
Il suo carattare era cupo, feroce e veemente. Il suo aspetto ruvido ed aspro. Aveva però qualche cosa di meditativo nella sua fisionomia che non era senza attrattive, e gli dava somiglianza d’uomo non affatto comune e di non limitati pensieri: ma non era che un riflesso ingannevole della sua figura, imperocchè non aveva nè talenti nè ingegno. Se nel suo guerreggiare non ha dato prove di sapienza militare e di soverchia baldanza ed ardimento, fu però il migliore fra tutti i capibanda della sua specie, eccetto lo spagnuolo Josè Borjés, e il più audace e il più sagace. Amava il vestire teatrale alla Fra Diavolo suo antesignano nei fasti briganteschi dell’antico reame di Napoli. Egli era quasi llletterato, od almeno scriveva con difficoltà, in lingua barbara e scorrettissimo, ma scriveva molto, a tutti e ad ogni proposito.
Avido di danaro ed anelando a future dovizie, è voce fra suoi che abbia distolte ingentissime somme dall’assegnatole impiego all’ex re Francesco, e che mucchi con­ siderevoli di pecunia tenesse celatamente sotterrati in una grotta nelle vicinanze della casa della vedova Cocco, sua druda in Scifelli, e che il giovinetto Cocco, figlio dodicenne della vedova predetta, che Chiavone teneramente amava, fosse il solo depositario del suo segreto e con esso solo si recasse nella grotta contenente il suo tesoro; segreto che fu sempre gagliardamente e nobilmente conservato, poiché malgrado l’arresto del giovinetto Cocco, e minaccie, e perquisizioni, ed
interrogatorii moltiplicati non si pervenne mai a saper nulla sul conto di Chiavone e delle sue presupposte ricchehezze.

La tresca di Chiavone colla vedova Olimpia Cocco di Scifelli ha la sua parte curiosa, faceta e drammatica nella vita accidentata di cotesto brigante.
Egli s’intitolava Generalissimo delle armate di Francesco II e mandava ultimati ai comandanti delle nostre truppe veramente singolari e divertenti, e datava abitualmente le sue lettere ed i suoi proclami da un paese occupato dai nostri distaccamenti come Roccavivi, Rendinara o Balzorano. Finalmente si dice ch’egli sia stato fucilato per ordine del capobanda Tristany, per antagonismo di mestiere e per quistioni di autorità e di competenz e la sua morte è però ancora un mistero, a Sora non vi si presta fede; i suoi nemici istessi la mettono in dubbio: Intanto per opera dei comitati reazionarj di Roma sorse un secondo Chiavone, un birbaccione qualunque senza fama e senza numeri, un burattino che non fece più nulla, perché troppo nullo sè stesso; ma ciò a disegno certamente e per ordine del comitati prementovati, per nascondere la morte del vero Chiavone ai suoi benamati Sorani, pei quali era divenuto un uomo di proposito , e la cui morte accertata- avrebbe gettato nello scoramento i suoi amici, e indispettita contro il nuovo capo e la reazione quella buona popolazione di Sora, che in Chiavone spera e in lui vede il campione della causa Borbonica, un generale di senno, una indigena celebrità.
CENTRILLO (Domenico Coja detto) fu un capobanda animosissimo ed operoso, molto ardito nelle sue operazioni, amante dei colpi strepitosi ed inaspettati, marciatore
indefesso e manovratore espertissimo; tenne in continua lena le truppe, scorazzò le Majnarde, e tutta quella catena d’asprissime montagne che da Sora ed Arce si stende a San Germano ed Isernia. Arrecò danni ai popoli senza però aver mai versato il sangue per truculenza d’animo e ferocità di carattere, anzi fu buono il più delle volte, e nel disarmo di Vallerotonda invadendo il corpo di guardia della Nazionale Milizia salutò rispettosamente l’immagine del Re d’Italia Vittorio Emanuele II.
Egli fu pure soldato borbonico e della peggiore specie che vi sia, indomabile, insofferente di ogni più mite disciplina; venne condannato a più anni di carcere per atti riprovevoli d’indisciplina e per recidiva diserzione.
Tornato a Cardito suo paese, vi fece tutti i più infami mestieri, fu ladro e soverchiatore, temuto per le sue birbonate arditissime, e creduto capace di qualunque maggior iniquità. ‘
Appena sorsero le turbolenze politiche, che ridussero alla fuga la dinastia Borbonica, per far posto al Governo costituzionale del Re Italiano, raccolse quanti ribaldi di sua specie trovò a sua mano , e si diede con efferatezza al brigantaggio, ricattando, devastando, incendiando poderi, ville e masserie.
Aveva un talento tutto particolare per travestirsi, simularsi, immascherarsi in ogni maniera e in tutte le condizioni, per isfuggire ai rintracciamenti della truppa. Era piccolo e snello della persona, svelto, con viso mobile e vivace, piacevole, brunetto con pinzo e baffetti nericcioli. Fu nel suo genere un buon capobanda, poiché mise sui fianchi la truppa senza cader mai nei tranelli tesigli, e lasciando sempre la peggio a coloro che s’incocciavano d’impadronirsene. Fu un ladro di buona stampa, un gran malfattore se vuolsi, non un assassino.
Si può dire che ha sbandeggiato per due anni non interrotti con gloria ed onore, se queste due belle e nobili parole si potessero accozzare senza lordarle parlando di un malandrino qual fu Centrillo.
Andato a Roma per non so quali sue faccende, fu arrestato dalla Gendarmeria francese in una osteriaccia dove praticavano i Cuccitto, i Conte, i Gallozzi, i Soscia, i Piccirilli, i Demascolo, i Ramoniello, i Ficocciello, i Trani, i Capotosto, i Cinquegrana e cento altri mariuoli di simil conio agli stipendj di Francesco Borbone e di papa Pio Nono, e quindi restituito al Governo Italiano. Rinchiuso in non so qual carcere, non si udi mai più parlare di lui nè del suo processo: Requiescat in pace !
MATTEO (Vincenzo) era uno de’più bei capibanda che veder si potesse, grande, forte, nerboruto e svelto della persona; era di membra fatto a pennello, con una bella testa artistica, una barba rigogliosa; egli era audace, rischioso, sprezzatore di pericoli, e come il suo amico Centrillo amava le spedizioni difficili e clamorose. Le sue gite nei paeselli della frontiera sono in piccola scala belle d’impudenza, d’insolenza, di sprezzo e di noncuranza.
Nulla i seppe mai del suo passato. Sparì, senza che nessuno mai abbia saputo qual fine abbia fatto. Alcuni pretendono che sia stato ucciso dalle nostre truppe in un conflitto.
CUCCITTO ( Francesco Piana detto) è un uomo rozzo e brutto, grande e macilente, con barba ispida e capelli disordinati ed irti,il suo aspetto è truculento e ributtante, una vera figura da capestro !
Egli assassinò vilmente il suo benefattore; tolse alla sua vittima il mento colla barbozza grigia e la portò a Roma per attestare ai reazionari il compiuto assassinio, e per più giorni portò seco quest’orribile avanzo ed a molti il mostrò in Roma, come i selvaggi dell’Africa attestano le loro vittorie e i loro trionfi col numero delle capigliature che hanno scalpellate !
Fu un assassino nella più bassa espressione della parola, non un capobanda, nemmeno un brigante comune, fu una tigre !

omissis