‘NDULURATA

Mi è parso giusto dare inizio oggi, 13 febbraio, che per molti rappresenta anche la Giornata della Memoria dei dolori del Sud, alla mia rubrica per “Carta di Venosa” sulle vittime (spesso incolpevoli), le più dimenticate e, allo stesso tempo, le più vilipese e le più mistificate di quella guerra fratricida che ebbe come teatro le terre del Sud, di quella guerra che conosciamo come “grande brigantaggio”.
Lo faccio, com’è mio costume, senza anacronistici rancori e senza ridicole rivendicazioni nostalgiche; lo faccio solo con malinconia e comprensione, pensando a ciò che è stato e poteva non essere stato.
Ogni puntata della rubrica vuole essere un semplice rametto di mimosa offerto a chi – nel torto o nella ragione – pagò dazio di sofferenze. Nulla di più.
Valentino Romano
‘NDULURATA

* di Valentino Romano
Si sarebbe chiamata ‘Ndulurata (Addolorata). Ma avrebbe potuto chiamarsi con qualsiasi altro nome di donna, di “donne del brigantaggio”. Perché la sua storia è paradigmatica, è lo stereotipo dominante del pre-giudizio che accompagnò (e forse ancora accompagna) tutte le “donne del brigantaggio”.
Non si meravigli più di tanto chi – conoscendo la mia particolare propensione a raccontare fatti storici verificabili documentalmente – non si aspetta certamente che io dia inizio alla rubrica per la “Carta di Venosa” con un racconto fantastico.
Nulla strano, nessuna contraddizione. Non vuole essere, infatti, nelle particolari corde di questa rubrica, inseguire i particolari anagrafici delle sue protagoniste, né raccontare solamente dei loro fatti di sangue o delle loro violenze (presunte o meno); così come non lo è il tentativo maldestro di dipingerle – a seconda delle contrapposte letture ideologiche – come eroine o come donne di malaffare.
Questa rubrica vuole solo tentare di raccontare il dramma di donne normali, la cui vita – ancor più di quella degli uomini che seguirono alla macchia – fu stravolta da un rivolgimento istituzionale vissuto sulla loro pelle; ogni storia che racconteremo vuole essere il grano di quel lungo e insanguinato rosario di dolori e di sofferenze, di orgoglio e di vergogna, di eroismi e di viltà, di amore e di odio che ha costituito il caleidoscopio dell’universo femminile del “brigantaggio”; cioè di tutti quei sentimenti, contrastanti ma umani, che quel caleidoscopio colorano, agitano e caratterizzano.
Non si vuole “giudicare”, condannare o assolvere: si vuole solo “comprendere”. Il che, in fondo, è l’unico tentativo possibile per restituire a queste donne ciò di cui maggiormente sono furono scippate: la normalità negata da un periodo storico che “normale” non appare. Che, anzi, non lo fu affatto.
Una finestra, dunque. Solo una finestra socchiusa sull’altra metà del brigantaggio, sull’altra metà del purgatorio (perché parlare di paradiso sarebbe bestemmia) di quegli anni nei quali nacque la Nuova Italia.
La rubrica vuole essere veramente aperta, nel senso che ognuno degli aderenti a “Carta di Venosa” potrà intervenirvi, suggerendomi personaggi locali e non, integrandomi, correggendomi, anche smentendomi se necessario. In ogni caso si auspica un dibattito scevro dalle ideologie.
L’immagine che farà da sfondo alla rubrica è quella della “Filomena Pennacchio”, splendidamente interpretata da una mia cara amica, l’attrice Jole Franco, nel cine-spettacolo della Grancia a Brindisi di Montagna, che ringrazio per la disponibilità.
Veniamo a ‘Ndulurata, la donna neretina che anche nel nome, “nomen omen”, richiama la sua sorte e il suo destino; quella della Madonna di tutti i dolori.
La sua vicenda, come detto in premessa, appartiene alla tradizione orale locale salentina (in particolare del paese che le avrebbe dato i natali, Nardò, in provincia di Lecce) e, quindi, è del tutto priva di credibilità e riscontri storici. Appartiene alla leggenda, in definitiva al mito: ma, come per tutti i miti, anche questa leggenda deve affondare necessariamente le radici in un humus di verità.
Ed è paradigmatica, dicevamo, perché mette a nudo l’ultima pena alla quale, chi in misura maggiore, chi in misura minore, tutte complessivamente soggiacquero le donne ribelli: il disprezzo dell’opinione pubblica benpensante, la paura del diverso e l’emarginazione sociale. Qui, per inciso e con riferimento all’attualità, dovrebbero fischiare le orecchie a più di qualcuno, impegnato nel medesimo esercizio razzistico nei confronti dei migranti dei giorni nostri. Ma questo è altro discorso, pur utile a comprendere il presente leggendo il passato.
La vicenda umana di ‘Ndulurata ricorre ancora oggi nelle memorie popolari del Salento: si dice che la donna fosse stata l’amante del brigante Cocozziello e che avrebbe fatto parte della comitiva di Cosimo Mazzeo, Pizzichicchio, uno dei luogotenenti di Pasquale Domenico Romano, il famoso Sergente Romano. Sconfitto nel sangue dei suoi protagonisti il brigantaggio, ‘Ndulurata avrebbe condotto una vita da reietta, ridotta a mendicare un tozzo di pane, allontanata e disprezzata da tutti, temuta anche, ogni oltre possibile ragionevolezza.
Su di lei pesava perfino l’accusa di una presunta antropofagia.
Uno scrittore locale che ne tratteggiò (si fa per dire) la storia, sostenne addirittura che «non aveva parenti, non aveva nessuno […] veniva dai bassifondi umani, ove non esiste né famiglia né parentela e, tranne la schietta animalità, più nulla: una creatura che sta tra l’umano e il bestiale».
Si racconta che una volta la donna, per sfamarsi, si fosse arrampicata su un albero di fichi per raccoglierne qualche frutto: i suoi concittadini credettero, al contrario, che avesse voluto avvelenarli: è così la disgraziata passò anche per untrice, rischiando di essere lapidata. Perché il “diverso” va demonizzato. Sempre e ad ogni costo, compreso quello di sconfinare nel ridicolo.
E, all’origine della leggenda, vi è proprio questo bisogno del consorzio “civile” di demonizzare la figura del brigante, in quanto “diverso”, confinandolo in una assurda collocazione di bestialità.
La “storia” di ‘Ndulurata diventa perciò la storia esemplare della donna che, avendo oltrepassato i confini della legalità, precipita nel baratro della diversità bestiale, nei gorghi dell’esecrazione moralistica.
E così la storia delle “donne dei briganti” – tra letterature d’evasione, narrazioni fantastiche, storiografie “benpensanti” e pregiudizi di genere e di classe – è diventata, con crudele semplificazione, nella stragrande maggioranza dei casi, la storia delle “drude”, delle “femmine” di malaffare dei briganti, di esseri umani al limite della bestialità e anche oltre.
Un’altra, ancor più immeritata, condanna, dell’altra metà del purgatorio della rivolta contadina?
Giudicate voi!

* Promotore Carta di Venosa

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