Antonio e Maria Rosa

LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 16° episodio ANTONIO E MARIA ROSA di Valentino Romano (*)

Potenza, maggio del 1865.
Alla sbarra del Tribunale Militare di guerra, insieme ad altri c’è una giovane, una delle tante: è Maria Rosa Marinelli, contadina di Marsicovetere; non ha ancora compiuto ventidue anni. Qualche anno prima il fratello, Nicola alias Lupomusso, si è dato alla macchia con un paesano, Angelo Antonio Masini e, nel 1862 è morto in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine.
Il padre della ragazza, a sua volta, si è dovuto dare alla latitanza perché accusato di favoreggiamento.
Maria Rosa, attirata forse con un tranello da un congiunto, si ritrova anch’essa nella banda del Masini che, nel frattempo si è meritoriamente guadagnato fama di violenza inaudita. La pubblica voce attribuisce anche a lei lo stereotipo dei ruoli e delle funzioni nel quale viene ghettizzata la partecipazione delle donne alla lotta contadina: lavar panni, cucinare, imbracciare il fucile e scaldare il letto dei compagni; in aggiunta, è giovane e bella. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per soddisfare il palato morboso della ricorrente opinione dei borghesi benpensanti. La stagione delle gesta del Masini ha termine però sul finire del ‘64, allorché il capo brigante viene ucciso dalle forze dell’ordine a Padula, nella casa di un manutengolo che lo ha venduto.
Maria Rosa si costituisce immediatamente e, dopo pochi mesi, viene chiamata dal Tribunale Militare a rispondere di “associazione di malfattori, estorsione, sequestro di persona, lesioni”.
La presenza del difensore, nella quasi totalità dei giudizi sommari che questi tribunali celebrano, è considerato solo un fastidio formale o, comunque, un elemento secondario: e il difensore – quando pure c’è – è un militare facente parte della guarnigione competente territorialmente e di più basso grado rispetto al collegio giudicante, sottoposto cioè gerarchicamente in via diretta sia all’avvocato fiscale militare (la pubblica accusa) sia al collegio stesso. Il risultato è che la funzione della difesa rappresenta poco più di una inutile formalità e che l’impegno del difensore si concretizza in un lapidario rimettersi alla clemenza (in questi casi leggasi rigore) della Corte. Maria Rosa almeno in questo è più fortunata di altri: le viene assegnato d’ufficio Antonio Polistina, un sottotenente del 21° fanteria che, nella vita civile, è fresco di studi giuridici: il giovane – vuoi perché le coercizioni della divisa non ne hanno sopito l’orgoglio della toga e la dignità nell’indossarla, vuoi perché rimane colpito dalla tenebrosa bellezza dell’accusata – dà vita a una difesa puntigliosa che sfocia in un’appassionata arringa finale.
L’accusa per Maria Rosa è di “complicità in brigantaggio per avere appartenuta banda armata; che il numero maggiore tre persone scorreva le pubbliche vie e le campagne onde commettere crimini e delitti, e per aver preso parte a molti reati per presenza e collaborazione”.
Antonio non ci sta. Non si limita ad invocare generiche attenuanti, ricorrendo al trito escamotage della costrizione: riconosce la partecipazione della donna ma cerca di approfondirne le cause, anche smontando le false testimonianze. Su tutte quelle del più implacabile persecutore della ragazza, il comandante della Guardia Nazionale, Ciccio Pomarici che, con il pretesto di perseguire la banda, mascherava l’inconfessata voglia di godere dei favori delle ragazze.
Antonio non si preoccupa di lanciare in udienza il suo veemente j’accuse: “onestà ed avvenenza, funesta cagion di sventura. E il fu segno persecuzione crudelissima, invereconda”.
E il giovane ufficiale, che pure non preoccupa di rimanere più di tanto nel vago, non indica espressamente chi sia questo bieco individuo. D’altronde, è la sua sferzante teoria, a cosa serve? La Corte lo sa benissimo, se vuole giudicare serenamente ha tutti i mezzi e le prove per farlo: “ben vel sapete o Signori, e mi dispenserete dal ripeterne il nome che s’egli alcun riguardo non merta, lo merta invece quel posto di cui si è reso indegno, facendosene scudo e pretesto a lubrica barbarie”.
Antonio si chiede e chiede ai giudici; cosa avrebbe dovuto fare Maria Rosa? “Poteva vendersi o comprarsi qual merce, in questa Italia ancora bagnata di sangue sparso a torrenti perché fossimo liberi?”
Il giovane è ormai un fiume in piena: nello scranno della difesa non c’è più il sottotenentino comandato e nemmeno solo l’avvocato corretto: nelle sue parole ci sono l’orgoglio e la dignità di un uomo libero; c’è l’onestà di interrogarsi , non solo sul caso della giovane che difende, ma anche e soprattutto l’analisi onesta e lucida del dramma del brigantaggio intero:
“Nel prologo di questo dramma stanno le arti subdole ed insidiose di gente perversa e turbolenta, che nascosta in seno alla società lavorava a’ sui danni; e le prepotenze intollerabili, gli enormi abusi, i funestissimi errori di chi, o per soverchio zelo, smarrita la via del patrio incivilimento, questo che credé trovare ove non era, ov’era invece abbrutimento e rovina, o per scellerata libidine di potere e di sensi, profittò dei tempi, libertà tradusse in licenza, e tutto credendo a se lecito, giunse fino a farsi della legge strumento e dell’umanità sgabello.
Sul rovescio di quella tela stanno da un lato i nequitosi consigli, le fallaci promesse, le misteriose lusinghe, le occulte minacce; dall’altro i maltrattamenti, le ingiurie, le percorse, le onte, le torture, gl’ingiusti sospetti, le carcerazioni arbitrarie e financo le barbare, le capricciose uccisioni; tutta insomma, tutta specie di infamie, tutta specie di offese nell’amor proprio, nella proprietà, nell’onore, nella persona bastevoli anche in minima parte a trarre gente già per se medesima a ferocia corriva, nella sdrucciolevole china del delitto e del sangue”.
L’arringa è finita: Antonio siede esausto; poco lontano su un’altra panca siede Maria Rosa.
Forse gli sguardi s’incrociano, forse si abbassano confusi, forse arrossiscono entrambi.
Il Tribunale … assolve!
Di Maria Rosa resta oggi una foto di scena con tanto di pistolone, e una filastrocca popolare; di Antonio ci rimane l’arringa che poi darà alle stampe e che, a ben vedere, è la summa del brigantaggio e delle sue cause reali. Da sola vale più di un saggio completo.
Si sono persi, invece, l’incrocio dei loro sguardi e il loro rossore.
Nessun documento certifica inequivocabilmente l’ipotizzato sentimento affettuoso tra i due che il romanticismo di alcuni autori, invece, dà per certo. Ma, anche a uno come me, semore condizionato dalla lettura delle famose “carte”, piace pensare che sia così; a costo anche dell’ennesimo ribollire del sangue al pensiero di una guerra maledetta che ha rubato la gioventù e forse anche l’amore a un uomo e a una donna.

(*) Promotore Carta di Venosa

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