Giustino Fortunato – Il Mezzogiorno e lo Stato italiano 2°

cop ilmezzogiornoelo01fortuoft_Pagina_1RICERCA EFFETTUATA DAL Prof. Renato Rinaldi su “Il Mezzogiorno e lo stato italiano; discorsi politici (1880-1910)” – Giustino Fortunato

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Pag 82. IL MEZZOGIORNO E LO STATO ITALIANO

L’abolizione della feudalità con rescritto del 2 agosto 1806, non senza distinzioni che affievolivano il rigore della regola, si compi ne’quattro anni susseguenti più per via di fatto che per virtù di legge; che, tolte le relative controversie ai tribunali ordinari, con decreti dell’11 novembre 1807 e del 27 febbraio 1809 fu comandato a un magistrato speciale di sette persone, detto Commissione feudale, di giudicare inappellabilmente per tutto l’agosto del 1810 senza forme giudiziarie, ma col ministero di un procuratore generale a patrocinio dei Comuni, delle cause feudali di qualunque natura intentate o da intentare: spediente tenuto allora e poi, tanta fu la fama della fermezza e dell’attività spiegate nelle decisioni da quel magistrato, un capolavoro di civile sapienza.
Queste decisioni, quasi tutte dipendenti dalla norma suprema dell’espresso titolo a giustificazione del possesso legale, e prescritte a base di simili controversie per l’avvenire dinnanzi ai tribunali ordinari, si possono riassumere nella piena libertà concessa alle antiche difese od a quelle legalmente costituite dopo la prammatica aragonese, nella divisione con le Università dei demani feudali illegalmente ridotti a difese, e nella restituzione dei demani universali usurpati od illegalmente alienati.

Ma non cosi avventurata come l’abolizione della feudalità fu la divisione a prò dei Comuni dei demani feudali, e la ripartizione di essi,insieme con quegli universali, a favore dei cittadini: il compito di semplice esecuzione dei giudicati riusci molto più scabroso del compito affidato ai giudici di cognizione. La legge del settembre 1806, con cui fu dichiarata e la divisione degli uni e la ripartizione degli altri, rimase priva di effetto, sia perché non diede norme sicure per valutar diritti e compensi, sia perché l’esecuzione fu affidata ai Consigli d’Intendenza. È vero che sovvenne ad essa il decreto dell’8 giugno 1807, che informandosi all’editto del 1792, prescrisse che la divisione dei demani feudali con le Università si avesse a compiere secondo una scala proporzionale degli usi civici, e la ripartizione dei feudali pervenuti per tal via ai Comuni, e degli universali, avesse a farsi tra i cittadini con preferenza dei più bisognosi, dietro classificazione dei ruoli della fondiaria e col peso di un annuo canone redimibile al cinque per cento. Ma tardi apparve il decreto del 23 ottobre 1809, che inviava nelle province per eseguir le divisioni, con i poteri dei consiglieri d’intendenza, cinque Commissari ripartitori, contro i cui giudicati non si ammetteva gravame se non alla Corte dei Conti; né l’opera loro, checché ne abbia scritto il Colletta, fu poi cosi attiva e proficua come quella della Commissione feudale. Giudicando, d’ordinario, senza recarsi personalmente sui terreni soggetti alle divisioni, essi delegarono più volte i loro poteri ad agenti subalterni,o ignoranti o, quel che è più, facilmente corruttibili. Usciti di carica sul finire del 1811, i rappresentanti il Governo nelle province ne assunsero le facoltà, riconfermate ad essi dalla legge borbonica del 12 dicembre 1816 e dalla legge italiana del 20 marzo 1865, che riconobbe questa unica eccezione, nella soppressione del Contenzioso amministrativo, in omaggio al diritto pubblico interno napoletano, per il quale è imprescrittibile il demanio comunale: imprescrittibilità, che proclamata con le prammatiche 1^ De Salario e 2^ De Baronibus del 1443 e del 1536, fu sanzionata con gli articoli 176 e 177 della legge del 12 dicembre 1816.

Sono scorsi settantasei anni, e la questione non è ancora esaurita! Quali le cagioni di cosi lungo ritardo?
Senza dubbio, l’argomento meriterebbe una larga profonda disamina. Su lo scorcio del secolo passato era già sorto numeroso nell’Italia meridionale il ceto della borghesia, né già come altrove per l’esercizio delle armi o per il commercio o per l’industria, ma solo per mezzo del fòro, della chiesa e del fitto: era già sorto audace nei Comuni ed organato nelle città, nemicissimo ai baroni. Quando la monarchia diede l’ultimo crollo al decrepito feudalismo, quel ceto, che nelle leggi di abolizione le fu di valido aiuto, si trovò solo a rappresentare i diritti del Comune e dei contadini, solo a caldeggiare i nuovi ordini francesi, solo addirittura e padrone in quel subbuglio vertiginoso di mutamenti civili e di politici avvenimenti. In breve, ai baroni seguirono i borghesi maggiorenti, cui più tardi, mediante la creazione del capitale per via dell’industria pastorale e del risparmio, non mancò l’assunzione di pubblici uffici, non mancaron titoli di nobiltà. A questo modo ebbero inizio, nel maggior numero delle province, le presenti classi dirigenti, cui si accomunarono a mano a mano tutte le famiglie della borghesia minuta, che delia
stentata professione e del piccolo commercio e dello scarso capitale, impiegato in prestiti ad alta ragione, fecero scala sempre difficile, ma non sempre sicura, alla possidenza territoriale, e sole ormai costituiscono ivi l’unico centro di gravitazione politica e amministrativa dello Stato: lontano accenno, e dubbio ancora, di una lenta laboriosa formazione di migliori classi direttive.
I più gravi ostacoli al compimento delle leggi per la divisione de’ demani furon dunque suscitati da’novelli possessori, più o meno recenti, più o meno facoltosi, il cui interesse personale, e prima e poi, fu sempre opposto ad ogni pronta decisione; né con l’andare degli anni si palesò diverso, per altre ragioni, l’interesse politico del Governo borbonico. Il quale, non potendo far capo dall’aristocrazia, che già prima della rivoluzione aveva distrutta, né potendo far cieco assegnamento su la borghesia, che non esso ma il Murat avea spinta e menata al potere della cosa pubblica, si piacque segretamente di tener viva quell’arruffata questione, che in sua mano, ad ogni moto di ribellione, era facile divenisse sorgente inesausta di guerra civile. E cosi, mentre che da un lato i Borboni si fecero leva (l’osservazione è di uno storico illustre, l’Amari), or di Sicilia contro Napoli e or di Napoli contro Sicilia, dall’altro in fondo alle province più derelitte non intesero se non a seminare odio e disprezzo, né mancavan certo i motivi, fra contadini e borghesi.

Ogni moto politico non fu distinto se non dal desiderio della borghesia di aver libere, una buona volta, le mani; e que’moti, immancabilmente, finirono uno per uno, specialmente nel 1848 (De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, 1863, voi. I, L. VI.), tra le grida selvagge delle reazioni sociali dei contadini. Re e galantuomini, ad ogni loro conflitto, facevano a gara vane mostre, col mezzo di larghe promesse di ripartizioni demaniali, per ingrazionirsi con i contadini: ma questi mostravano, quasi sempre, di aver fede maggiore nella parola del Re, forse perché sicuri a ogni sommossa della pronta apparizione di un delegato speciale, certo perché increduli e diffidenti del ceto borghese. L’ultimo atto del dramma, terribile ne’suoi episodi e nei suoi effetti, che parvero spezzare ogni vincolo di civile comunanza, è la storia del brigantaggio, succeduto alla rivoluzione del 1860: lugubre storia, che soltanto nei primi suoi venti mesi a quanto si legge in documenti ufficiali (Massari, Relazione della Giunta parlamentare su la inchiesta per il brigantaggio nelle province napoletane, Torino, 1863. ), numera mille fucilati, duemila cinquecento morti in conflitto, poco meno che tremila condannati al carcere o alla galera!

Un decreto luogotenenziale del  1 gennaio 1861 assegnò per compito a nuovi commissari governativi speciali la reintegrazione de’demani usurpati e la quotizzazione fra i proletari de’terreni ancora indivisi; e dando loro facoltà di scegliere agenti subalterni, e di convertire le usurpazioni in colonie perpetue ne’casi dell’articolo 51 della circolare 3 luglio, impose, come termine improrogabile, nel corso dell’anno, la definizione di tutte le pendenze demaniali. E li per li si diè opera a definir liti e a rettificare divisioni; poi, soppressa la Luogotenenza, tornò l’antica noncuranza, perché, senz’altro, passarono a’prefetti le attribuzioni de’commissari. — E si capisce facilmente il perché.
« Reso autonomo il municipio con voto conceduto ai soli borghesi, e raddoppiate perciò nei Comuni le vecchie ire delle famiglie e delle clientele, fu nuovo originale trovato di guerra muovere da un lato a vanvera liti e contese demaniali, dall’altro frammettere a bella posta indugi senza fine a ogni pronta espletazione di giudizi: novella spada di Damocle, — la legge elettorale fu fatta, cosi, cieco strumento di vecchi odi e di vecchi rancori,mezzo sovrano di mantener viva e accesa una questione per sé stessa ardente e corruttrice. E ciò, d’ordinario, nel caso in cui la minuta borghesia abbia preso la mano all’alta borghesia; che neill’ipotesi contraria, i titoli di possibili diritti o di possibili azioni sono messi a dormire negli archivi comunali il sonno dei giusti, quando, una volta per sempre, non vengano sottratti alla chetichella dagli stessi amministratori, ignoranti o noncuranti i prefetti neill’intentare di piena autorità l’azione pubblica, del cui diritto sono investiti eccezionalmente. Di qui la ormai quasi totale esclusione dai municipi dei maggiori censiti, la dannosissima incertezza dei privati domini, quella nube di non so quale triste sospetto, che involge, quasi da per tutto, l’origine e il progresso della possidenza territoriale, per cui si avvera tuttavia ciò che or sono ottant’anni, non sfuggi all’occhio sagace di un pubblicista e patriota di Basilicata del 1799, il Lomonaco, al quale parve l’esistenza del ricco proprietario meridionale esposta, senza eccezioni di sorta, alle insidie della calunnia
( Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnet, Milano, anno IX.), a’ si dice, agli aneddoti coniati Dio sa dove e da chi. Di qui il sobillare indefesso all’orecchio dei contadini, cosi proclivi alla credulità, per diritti o realmente o bugiardamente conculcati, di falsi tribuni gaudenti a spese del gravoso bilancio comunale; le occupazioni a mano armata dei boschi del Gargano; i dolosi incendi delle selve cedue de’Principati. Di qui, insomma, o lo scandalo vivo e perenne di sindaci e di consiglieri usurpatori e di usurpazioni impunite, ovvero, nel più dei casi, lo spettacolo corruttore di giudizi famosi, minacciati a semplice spauracchio dei gonzi, non sempre mossi da sereno spirito di equità, affrettati o sospesi a seconda delle occasioni, sostenuti per una parte e per l’altra da avvocati politici ritenuti di grande influenza (1), autori di prolisse allegazioni da azzeccagarbugli, infarcite di vecchi aforismi dottrinali, assolutamente contrari ad ogni verità storica: causa necessaria, inestinguibile, indomabile, di abusi e di vendette senza nome e senza esempi. Chi scrive può sicuramente affermare di piena esperienza, che Comuni di montagna, anche poveri di entrate patrimoniali, sono bene amministrati e concordi, se liberi da ogni contesa fra possidenti e municipi, mentre che popolose città di Puglia, civili e ricchissime, sono da più anni in preda all’anarchia e alla guerra civile, se coinvolte in grosse annose liti demaniali (2). E, dopo tutto, l’ultima circolare del 14 ottobre 1879 parla del « concorso illuminato » dei Comuni, e della « vigorosa iniziativa » dei prefetti; forse per fare riscontro al censimento e alle quotizzazioni della Sila di Calabria,« affidate » nel 1875 ai Consigli provinciali di Cosenza e di Catanzaro! O che viviamo nel regno della luna?

(1) Dal n. 32 dell’anno I della « Rassegna » di Roma tolgo quanto segue a proposito degli avvocati politici:

« L’avvocato, il quale entra in Parlamento, compie, indipendentemente dal suo grado più o meno elevato di scienza e di moralità, un passo gigantesco nella sua carriera d’avvocato. Nella opinione dei clienti possibili esso aggiunge, ipso facto, alla dottrina, all’abilità, alla integrità, un altro merito, valutato in reputazione e in
contanti quanto e più degli altri, l’influenza. Chi ha pratica dei nostri Tribunali e delle nostre Corti sa che, non dappertutto nella stessa misura, ma dappertutto in misura notevole, gli affari più gravi non si trattano senza che all’avvocato ordinario si unisca un avvocato politico aggiunto, il quale talvolta è invitato a
sussidiare la difesa con la sua dottrina, ma per lo più è invitato a sussidiarla col suo potere. Si ammetta pure ad onore della nostra magistratura, che il potere reale degli avvocati politici è di gran lunga inferiore a quello che la voce pubblica loro attribuisce, e il presente stato di cose dipende in buona parte da difetto di senso morale nei clienti piuttosto che negli avvocati. Ma fatte queste riserve, non si può negare che tra il pubblico e il Foro si è stabilita una serie di sottili correnti di corruzione, che si alimentano da una parte e dall’altra, senza che se ne possa discernere esattamente l’origine. E può infatti non sentirsi a disagio il giudice, che deve sentenziare, quando l’avvocato ha potuto ieri, o potrà domani direttamente, può oggi forse indirettamente, favorire od avversare, in modo decisivo, la sua carriera ? È lecito presumere in qualunque condizione sociale l’eroismo permanente? Si possono in tali casi impedire i sospetti e le malignazioni ? D’altra parte, si può chiedere che i molti rimasti fuori della condizione privilegiata, cerchino, a qualunque patto, di conseguirla, mossi non dall’ambizione di governare il paese, ma dall’ambizione di fare carriera? E dove si giungerà, se si farà sempre più generale il concetto, che la vita politica sia un mezzo per la vita economica, se, secondo il detto famoso di Rabagas, non si tratterà più di questioni sociali, ma di posizioni sociali? Tale è il problema, gravissimo. Si tratta dell’onore e della dignità degli avvocati, dei magistrati, degli stessi uomini politici.
Si tratta di tenere alta e intatta dinnanzi al paese la reputazione della Camera e quella della magistratura. Si tratta di salvare la fiducia, già scossa, nell’amministrazione della giustizia, senza la quale non v’è Stato, libero o non, che possa durare ».

(2) Giova al proposito, come a conferma di queste affermazioni, riferire qui testualmente quanto è detto nel n. 325 dell’anno XXII del « Pungolo » di Napoli:

« Due sono, per solito, i casi possibili in tutti quei Comuni, che non hanno ancora risolute le loro liti demaniali. O si trovano alla direzione del municipio gli usurpatori stessi dei demani, e allora vien meno da parte dei Comuni ogni interesse di por fine alle contese, i cui atti e le cui pratiche sono messe a dormire nei polverosi laceri scaffali dell’archivio, quando, come avviene d’ordinario, i documenti non vengano addirittura sottratti e trafugati. Ovvero a capo del municipio è una rappresentanza di piccoli borghesi, nemicissimi dei possidenti e desiderosi di esser padroni assoluti dell’azienda pubblica, e allora, pur movendo le azioni e pur rinfocolando i sospetti nell’animo delle plebi, ma non curando poi né punto né poco di menare innanzi e di compiere i giudizi, allora tutto l’interesse del Comune par si limiti ad avere viva e terribile questa minaccia, che esclude dai Consigli tanta parte di cittadinanza, e apre un fomite inestinguibile di odi, di vendette, di calunnie: vera guerra civile, che perturba tutta la vita sociale dei nostri Comuni di provincia. Epperò, nell’un caso e nell’altro, quanto dissidio e quanta ipocrisia nell’animo dei cittadini, quanta incertezza nei titoli di proprietà, quanta incuria d’ogni miglioria agricola, quanto sciupio della finanza comunale, quanti tranelli, quante menzogne, quante birbonate! In una parola, la questione demaniale è nell’ Italia meridionale come un campo inesauribile di corruzione, in cui sguazzano allegramente gli usurpatori e i prepotenti, i mestieranti e i politicanti di ogni genere, gli avvocati e i medici senza clienti, tutti coloro, insomma, che vogliono mantenere o dar la scalata al potere per impinguare le proprie tasche: vasto campo di corruzione, in cui non primeggia se non un don Rodrigo o un tribuno da strapazzo, a danno dei proprietari onesti e dei lavoratori di buona fede;corruzione, che forse pur troppo venne favorita, non certo combattuta, dalle nuove leggi sul’ordinamento
comunale del 1865! I lettori di provincia posson dire in buona fede, se noi esageriamo menomamente le tinte del quadro. Ed essi soli possono mettere un confronto fra l’ambiente sano e civile dei Comuni affatto liberi da ogni contesa demaniale, con la vita paurosa, incerta, ricca di tristi ricordi e di tristi presagi, dei Comuni
tuttora commossi e agitati dallo spettro d’una questione demaniale ».

Né basta. La circolare, fiduciosa nella « provvida opera » delle leggi del 1806, fa voti perché al proletariato meridionale non sia ulteriormente ritardato « un beneficio, che innalzi il bracciante allo stato di agricoltore ».

In verità, per quanto è noto all’universale, quei contadini che dal 1806 in poi ebbero amica la sorte nelle ripartizioni demaniali, non sono punto usciti ancora « dall’abietta condizione di cafoni »; tutt’altro (Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, Firenze, 1875). Le quote assegnate ai contadini, che variano da ottantatre are a un ettaro e mezzo, secondo la fertilità del terreno, sono troppo piccole per dare sussistenza a una famiglia; ed anche ammessa una estensione maggiore, manca loro assolutamente il capitale necessario per consacrare alla terra cure assidue e per assicurare i prodotti annuali. La produzione è scarsa, la terra presto si esaurisce; ma corre pur sempre l’obbligo del canone al Comune e della fondiaria allo Stato. Allora, o la quota vien ripresa dal Comune per inadempiuto pagamento, o è venduta per pochi soldi a un proprietario del luogo, o infine è ceduta all’usuraio per debiti contratti : e ciò, senza parlare delle frodi che sono accadute e accadono nelle divisioni a vantaggio dei più abbienti, delle usurpazioni che si sono avverate e si avverano per opera dei proprietari limitrofi dei demani già passati ai Comuni, ma non per anche quotizzati (VILLARI, Lettere meridionali, Firenze, 1878. ).

A dir tutto, le quotizzazioni, come furono prescritte dalle leggi, non hanno agevolato nell’ Italia meridionale se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari; esse, insieme con le nuove leggi d’ imposte, accrescono, di giorno in giorno, le grandi proprietà a danno delle piccole. E valga al proposito ciò che afferma uno degli uomini più sereni del Mezzogiorno, che onora in Roma l’Amministrazione dello Stato (Racioppi, Contadini e proprietari nel Napoletano, Napoli, 1877.). « Il Governo del decennio (egli scrive) credè, con le teorie ancora fisiocratiche delle pubbliche amministrazioni, che bastasse aver due braccia sane al lavoro e il possesso di un pezzo di terra al sole, per avere tutti i giorni la mensa domenicale del buon Re di Francia; illusioni! Data la ripartizione dei demani ai nullatenenti di ogni classe, il possesso di un breve pezzo di terra, che è sempre dell’infima qualità, non cambia la condizione economica della classe dei contadini. Ha questi in mano un certo valore, senza dubbio; ma il giorno dopo, per vivere lungo l’anno, l’avrà venduto o dato in pegno; e, per- ché egli non lo vendesse, fu escogitata quella curiosa clausola delle leggi demaniali, che immobilizzano coteste terre diventate morte.
Ma le leggi non giungono a vincere tutto il complesso delle necessità naturali ; non possono vincerle, e il contadino trova facile modo di cedere questo possesso ingannatore per un piatto di lenti! ».

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