Appunti sul Risorgimento

Appunti sul Risorgimento /1
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Oscar Sanguinetti

Padre Sale della Civiltà Cattolica (quad. 3848) ricorda che sessanta vescovi — uno di essi, mons. Felice Romano (1793-1872), di Ischia (Napoli), è quello che vedete effigiato — delle regioni meridionali furono cacciati dalle rispettive diocesi nel 1860 perché legittimisti filo-borbonici.

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Strano, no? In genere i vescovi si situano al di sopra delle parti, accettano i buon grado i cambia-menti, convinti della provvidenzialità di tutto quanto accade nella storia dell’uomo e, sempre disponibili a contentarsi del bene comune possibile in ciascun singolo frangente storico. Eppure allora no. C’è solo un altro caso di legittimismo, però in senso opposto: il rifiuto della Repubblica e l’adesione al movimento nacional dei vescovi spagnoli nel 1937-1939: ma allora il problema era la violenza comunista perpetrata dietro lo schermo delle istituzioni di facciata legittime.
Evidentemente davanti alle modalità con cui si era instaurato il nuovo dominio nelle terre del Mezzogiorno, scattarono meccanismi psicologici o valutazioni analoghe. Obiettivamente il governo piemontese non può essere confrontato con gli orrori del bolscevismo staliniano. Ciononostante, se si tiene anche conto che i sessanta non furono i soli — il vescovo di Spoleto, il ligure mons. Giovanni Battista Arnaldi (1806-1867) — nel 1863 finirà in galera per aver difeso il potere temporale del Pontefice — qualcosa di “forte”, di inusitato, di così grave, almeno tanto grave da far abbandonare a presuli cattolici il loro consueto aplomb, dovette allora succedere.
Padre Sale sottolinea lo shock da fine di “regime di cristianità” che accolse l’entrata in vigore delle “leggi Siccardi” in tutte le province conquistate dai Savoia. Giusto. Shock psicologico, ma soprattutto orrore e sdegno nel vedere chiudere i conventi, confiscare le chiese, disperdere i religiosi fra mille soprusi e violenze, mandare alla malora patrimoni inestimabili di cultura oppure buttare sul mercato arredi, libri, dipinti, statue, beni delle abbazie, terreni, edifici. Dilapidare cioè un capitale che la Chiesa aveva accumulato nei secoli grazie al contributo del popolo fedele e al genio e alla munificenza dei suoi dirigenti: cardinali, vescovi, prelati, capitoli, abati, collegi, priori, arcipreti…
Di solito non si riflette su questo aspetto: quello che la Chiesa possedeva non era suo. Non l’aveva prodotto lei, perché la sua missione non è di coltivare e di produrre ma di celebrare il culto e di evangelizzare. Lo aveva ricevuto nei secoli da uomini e donne che avevano liberamente e piamente ritenuto di mettere parte dei loro beni lasciati sulla terra alla loro dipartita al servizio dei poveri attraverso il curato o il vescovo. Già: i beni ecclesiastici servivano per il culto e per sostenere i meno abbienti, per far studiare i più svantaggiati, per curare chi, come tutti allora, non aveva la mutua, per mandare in missione un religioso, per creare un orfanotrofio o un oratorio. E non pensiamo solo ai beni di diritto privato. Al pontefice come sovrano temporale si affidavano in feudo terre, città, principati. L’ostinazione di Pio IX a non voler cedere il potere temporale fu dovuta sì alla necessità di un presidio politico della Cattedra di Pietro, ma anche e soprattutto al dovere di tutelare diritti su cose e persone che non erano originariamente della Santa Sede ma a lei si erano affidati e non potevano essere alienati né si poteva venissero espropriati senza il consenso del datore, ovvero non potevano esserlo in assoluto essendo costui o costei defunto magari trecento anni prima!
A fianco di questa esperienza diretta si può credere che i vescovi del Mezzogiorno vedessero o sapessero che cos’era l’insorgenza popolare della Lucania e delle Calabrie, cioè con quanta crudeltà venisse condotta la guerriglia contadina e quanto violenta fosse la risposta a essa, come conducevano cioè le operazioni di controguerriglia i soldati “piemontesi”, fucilando senza pietà veri e presunti briganti, violentandone le donne, mutilandone i corpi, abbandonandone i cadaveri o facendosi fotografare a fianco dei loro corpi messi in posa, in piedi o seduti, con gli occhi tenuti aperti apposta, oppure con le loro teste ai piedi, come se i poveri cafoni in armi fossero bestie selvagge uccise durante una “caccia grossa”.
Ma tutto questo non basta. Quello che i vescovi non digerivano allora era la soppressione manu militari di un regno, del loro regno, l’esilio coatto di una dinastia cattolica con la quale avevano avuto frizioni e scontri, ma tutt’altro che indegna. Non è possibile non capire che cosa significasse per uomini di quel tempo e in quel ruolo vedere applicare al regno borbonico criteri che neppure uno Stato coloniale avrebbe applicato contro un popolo asservito. Francesco II viene sconfitto, e come sono andate le cose si sa: corruzione, oro inglese a fiumi, promesse di fulgide carriere militari e diplomatiche nel regno unificato, tradimenti di massa, diserzione dei propri doveri istituzionali e morali. Ma un nemico sconfitto a metà secolo XIX — non siamo ancora ai tempi di Varsavia oppure di Dresda e di Amburgo o di Hiroshima e Nagasaki, né di Carlo d’Austria — distruggendone e deportandone l’esercito, appropriandosi delle sue navi, confiscando il suo tesoro e i suoi averi privati. Solo i giacobini e Napoleone avevano avuto il coraggio di giocare con i regni e i sovrani come a un tavolo di Monòpoli.
Pensando o facendo credere d’incarnare il principio di nazionalità, di fare la volontà dei — potenzialmente — ventisei milioni d’italiani di allora, i sabaudi e i garibaldini pensavano — e agivano di conseguenza — di potersi permettere, maramaldescamente, qualunque “disinvoltura”. Certo la caduta di Napoli non si può paragonare alla caduta di Saigon, né il Lager di Fenestrelle ai campi di lavoro dove per decenni hanno faticato fino alla morte i fame o di malattia migliaia di dirigenti e quadri politici e militari del governo vietnamita libero, almeno quelli non fucilati nei giorni della vittoria del Nord. Comunque, il modo con il quale l’antico regno normanno — e non solo esso — è stato “liberato” viola ogni regola di rapporti fra Stati. E l’uomo di Chiesa non deve mai rendersi prono alla minima violazione dei diritti fondamentali degli uomini e delle entità collettive.
Oggi una resistenza come quella dei vescovi napoletani è semplicemente impensabile, perché i nemici del Sud non hanno più bisogno né di tagliare teste — le teste i meridionali se le tagliano virtualmente da soli omologandosi al politicamente corretto –, né di svuotare i conventi perché questi si svuotano da soli e quelli che restano spesso hanno solo l’apparenza di cenobi.


 

 

Oscar Sanguinetti
Appunti sul Risorgimento /2
Lo storico de La Civiltà Cattolica (quad. 3848), padre Sale, rivisita le ragioni che spiegano la drastica opposizione al Risorgimento del beato Papa Pio IX.
Secondo il giovane studioso della Compagnia, tre sarebbero in sostanza tali ragioni: a) il mantenimento di uno “scudo” per la Cattedra di San Pietro; b) i giuramenti, non meglio specificati, che lo obbligavano a non cedere mai ad alcuno i propri domini territoriali; e c) il desiderio di scongiurare la “ruina delle anime” dei propri sudditi esponendoli a un regime nuovo che “[…] ne insidierebbe la fede e ne corromperebbe i costumi”. Tutte ragioni valide, secondo padre Sale, ma l’accanimento nel perseguirle sarebbe dovuto solo alla limitata ottica ecclesiale ottocentesca di Papa Mastai, di un secolo cioè di cui egli era pienamente figlio.
La ricostruzione in sé pare buona. Solo che i commenti e le spiegazioni che lo studioso adduce non convincono del tutto.
In primis, e come impressione di fondo, ridurre lo scontro fra Chiesa e Risorgimento a una persona e alla sua personalità pare quanto meno inadeguato e fuorviante. La politica della Santa sede verso i governi e i movimenti politici del secolo XIX era sì influenzata dalla personalità del suo massimo attore, cioè il pontefice del tempo, ma le sue linee iniziano e continuano oltre il pontificato di Pio IX e vanno calate cronologicamente, geograficamente e dottrinalmente in un contesto meno personalizzato e più ampio. La denuncia della Rivoluzione politica e sociale, e della Rivoluzione italiana in particolare, risaliva a Pio VI, e nell’Ottocento le condanne delle dottrine liberali e delle sette gnostiche e comuniste erano già fioccate numerose. Ricordo fra l’altro che il pontificato di Pio IX coincide con la travolgente diffusione del cattolicesimo nell’America settentrionale e con un enorme sviluppo delle missioni ad gentes oltremare. Lo Stato pontificio era in questa prospettiva uno spazio di retrovia del tutto indispensabile, dove poter ospitare e formare generazioni di apostoli. Infine, le ragioni dottrinali della resistenza al liberalismo e al socialismo e a ogni altra dottrina della modernità declinata in chiave “eversiva” di lì a poco sarebbero state magistralmente e nitidamente riassunte in quel Sillabo, che sarebbe rimasto per decenni come pietra d’inciampo per ogni dialogo con le ideologie moderne.
Dunque, la questione va al di là di Pio IX e, per la verità, anche di Camillo di Cavour, dal momento che costui, benché geniale, non era un demiurgo, ma l’espressione di un ambiente e di una mentalità.
Scendendo un po’ più in dettaglio, padre Sale coglie bene – riporta a riguardo un brano di evidenza solare di Papa Mastai Ferretti – che il problema del potere temporale era legato all’altro, nevralgico, della libertas Ecclesiae. E concordo con lui quando sostiene che Cavour era mosso solo dagl’interessi politici del suo re e dal suo discreto credo liberale (aggiungo io). Però, non si capisce – proprio letteralmente, dalle parole di padre Sale – che cosa avrebbe dovuto fare il Papa, dal momento che la sua politica “[…] non teneva presente” che le condizioni storiche da un secolo “[…] erano notevolmente cambiate”, e che molti Stati coevi erano giurisdizionalisti e secolarizzati.
Riguardo al secondo punto, lo storico gesuita cita correttamente e fedelmente la frase del Papa in una lettera a Vittorio Emanuele II, in cui afferma che “Mi veggo obbligato a dichiarare […] di non poter cedere le Legazioni senza violare solenni giuramenti verso i quali mi sono obbligato al momenti dell’elezione nel 1846”. Così pure il passo in cui Pio IX sostiene che “la dignità e i diritti di questa Santa Sede non sono i diritti di una dinastia, ma bensì [sic] diritti di tutti i cattolici”. E, infine, dà risalto – benché aleggi una lata accusa di ondivago legittimismo – al monito che il Papa formulerà ai sovrani cattolici in trono, di non indebolire i diritti dei sovrani italiani esposti al rischio della deposizione per ragioni politiche e ideologiche arbitrarie, perché tali diritti simul stabunt, simul cadent. Qui lo studioso della Compagnia perde l’occasione forse più ghiotta per sviluppare un’argomentazione forte a sostegno delle ragioni della Santa Sede. Infatti, è proprio il secondo argomento che viene di solito trascurato, ma che i polemisti cattolici di quegli anni — per esempio, padre Sale avrebbe forse potuto trovare nella biblioteca dell’ordine ignaziano traccia dei molti volumi di monsignor Mario Felice Peraldi (1789-1863) sull’inviolabilità dei diritti legati agli Stati del Papa — hanno ben presente. E cioè che le sovranità confluite sotto l’autorità del Pontefice romano e i beni materiali del Patrimonio di San Pietro non sono stati prodotti o acquistati dalla Santa Sede, bensì ereditati da soggetti pubblici e privati che se ne sono spogliati per metterli al servizio di una finalità, che coincide con la missione della Chiesa, cioè il culto, l’evangelizzazione e la carità. E il trade di allora, il do ut des, l’impegno che prendeva chi ereditava, era di svolgere meglio con i beni ricevuti quei compiti, obbligandovisi sia de iure, sia moralmente. Era una questione di parola data, di pacta servanda.
E la conquista sabauda imponeva, quindi, a Roma di rinunciare alla parola data. La Chiesa non poteva però prestarsi più o meno volontariamente a tale negazione che, per di più, avrebbe ridotto quel più ampio respiro delle tre funzioni evocate. So che è un problema poco illuminato, ma l’esistenza di uno Stato della Santa Sede anche ai nostri giorni testimonia che quello dello Stato sovrano – benché minuscolo – è ancora la forma con cui il Vicario di Cristo crede, al di là delle mille guarentigie degli Stati secolarizzati moderni, che si difenda la libertas Ecclesiae. Ovviamente, per quanto concerne i beni materiali espropriati, l’indennizzo del 1929 ha potuto sanare solo in parte l’ingiustizia perpetrata dai risorgimentali.
L’ultima tesi, quella della “ruina delle anime”: “Questo rovescio di principii — scrive Pio IX — , questa studiata perdita del senso morale e del retto giudizio è quello che affligge il mio cuore più assai della perdita dello Stato della Chiesa” (1861). È una confessione che può far sorridere persone come noi che vivono dalla nascita immerse in un contesto machiavelliano, di politica amorale, drammaticamente peggiore di quello denunciato dal Papa. Però, non basta dire, come fa padre Sale, che si trattò di un allarme ingiustificato solo perché le statistiche rivelano che la fede, l’organizzazione e l’anima religiosa degl’italiani rimasero immutati anche dopo il 1861-1870. Se così fu, si trattò del persistere di una antica e profonda piantagione che non poteva essere sradicata tout court. Ma se si estende lo sguardo al di là dell’immediato, ci si accorge come la preoccupazione che affliggeva il cuore del beato pontefice era ben fondata: oggi si viene riscoprendo la profeticità del Sillabo perché si vedono le dottrine allora condannate in re, allo stato puro, e se ne vedono i frutti tragici e infecondi. In specifico, pronosticare che un habitat aperto, ma reso ostile dal prevalere delle forze materiali più potenti, ovvero quelle anticattoliche, quelle che in nome di valori in sé buoni perseguono in ultima istanza davvero la “ruina delle anime” – proviamo a pensare a qualche sabato sera in una qualunque discoteca del Paese oppure pensiamo alla ricaduta sociale di leggi come il divorzio e come la disciplina abortista o alla diffusione degli anticoncenzionali abortivi e non, tutte realtà “figlie” e “nipoti” di quella temperie spirituale che il santo pontefice vedeva far capolino all’orizzonte – è solo saggezza applicata e un insegnamento di cui far tesoro.
Dunque, giudicare la bontà o la invalidità di un atteggiamento storico – ma anche un gesto di uomo di fede del pastore supremo della religione che lo accomuna a padre Sale, al suo ordine e a chi scrive – solo sul breve periodo pare quanto meno improprio e riduttivo. E addurre esempi di Stati costituzionali a forte presenza cattolica, per svalutare la preoccupazione di Pio IX, non basta. Andiamo a vedere che cosa è rimasto di cattolico in Paesi come il Belgio e la Francia! Se i marchigiani e gli umbri e poi i laziali fossero rimasti sudditi del Papa, sarebbero stati ipso facto preservati dalle patologie della modernità? Sicuramente no: troppo forte ne era e ne è la pressione. Certo lo Stato “orientato” di suo non basta. Però, una delle funzioni dell’autorità politica è proprio di contribuire a realizzare il bene comune materiale e spirituale dei cittadini. E probabilmente un contesto pubblico un po’ meno permissivo avrebbe attenuato l’impatto della modernità novecentesca, che porterà con sé eventi tragici e sanguinosi, su di loro… E, per favore, non mi si tiri fuori, come ormai d’obbligo, l’”arma impropria” della discriminazione legale degli ebrei, uno di quei punti in cui l’accettazione della modernità — nel suo aspetto migliore e fisiologico, quello che la Chiesa ha sempre praticato e praticherà — avrebbe dovuto agire fin dai tempi di Papa Pio IX… Ma che lo storico può e deve comprendere fosse ancora in essere in un contesto dominato ancora dalla “teologia della sostituzione” e in cui, nel cuore della cristianità, la difesa dell’identità religiosa cristiana contro il giudaismo era una preoccupazione di primo piano.


 

Oscar Sanguinetti
Appunti sul Risorgimento /3

Marina Valensise su il Foglio del 21 novembre, intervista Alberto Mario Banti, docente di Contemporanea a Pisa, uno degli storici accademici di oggi più aperti nei confronti di una revisione critica dei cliché risorgimentali.
Se lodevole è l’intento dello studioso – che si dichiara “un po’ di sinistra” – di “lavora[re] su un’idea fantasma come la nazione, ‘scomparsa al discorso pubblico dei Paesi d’Europa nel 1945, quando nessuno voleva più passare per nazista o fascista, e consumata in Italia da 50 anni di egemonia cattocomunista’”, e convince la sua tesi di continuità di lettura del Risorgimento fra liberalismo e fascismo – e azionismo, aggiungerei –, così il legame fra la costruzione ideologica della Padania leghista e dell’Italia dei risorgimentali, il punto debole del discorso pare proprio la tesi di fondo del pensiero di Banti.
Sostenere che “la nazione per il Risorgimento non è né un’astrazione culturale, ma un legame biopolitico, cementato dal concetto di stirpe. È un dispositivo che implica il sacrificio come forma di martirio, facendo dell’eroismo bellico il fulcro della memoria storica” significa ignorare completamente due cose: che nel liberalismo, che pure vuole l’unità e la libertà, questo concetto “biopolitico” non si ritrova, mentre il concetto di nazione che muove l’importante vena di pensiero e di azione risorgimentale ascrivibile a Giuseppe Mazzini, ancorché non giunga agli estremi del culto del Blut und Boden, è una perfetta astrazione culturale, sia perché inesistente in re, cioè la nazione italiana è altra cosa, sia perché non tiene neppure in sede teorica. D’accordo che la nazione sia in entrambi i casi il pretesto – benché a tutto Napoleone la parola d’ordine, lo slogan, il Leitmotiv allo stesso scopo fosse stato diametralmente opposto, ovvero l’umanità fatta d’individui, cosmopoliticamente intesa – per costruire uno Stato con determinate caratteristiche – ma anche per dare spazio a una monarchia periferica di recente costituzione. Così come è pacifico che il concetto subisca, di conseguenza, non poche torsioni. Tuttavia non vedo proprio come si possa estendere al Risorgimento una visione di essa, che persino il fascismo, dai pochi scrupoli di correttezza politica, eviterà di sostenere e che lo differenzierà enormemente dall’alleato nazionalsocialista. Il movimento risorgimentale annovererà in effetti fra i suoi protagonisti personaggi di spicco guidati dal modello britannico e da quello francese, dove la stirpe non ha spazio alcuno.
Secondo fosse vero il contrario, come sostiene Banti, come si concilia il mito dell’Eroe dei due mondi, della spada al servizio della libertà, con un’assolutizzazione dell’italianità di tal genere? Forse, paradossalmente, l’unico pensiero risorgimentale in cui si ritrovano fugaci tracce di operazioni intellettuali simili è il Primato degl’italiani di Gioberti, cioè di un cattolico liberale e nazionalista.
No, credo che l’esimio e apprezzato studioso colpisca alquanto fuori bersaglio. In particolare, le leggi razziali del 1938 paiono più uno strappo, il frutto di un momento fugace di prevalenza di forze modernistico-darwiniane all’interno di un regime nazionalistico sì, ma “romano”, che non una conseguenza della concezione continuista del Risorgimento fatta propria da Mussolini.
Va altresì detto, per concludere, che negare rilievo alla componente nazionale-razziale del Risorgimento non equivale all’obbligo di coltivare forme presunte antitetiche di patriottismo, come quel sedicente “patriottismo costituzionale”, del quale Banti si dichiara ammiratore e propugnatore. Non è questa una diversa forma della medesima astrazione culturale che condanna? Certo, è vero che la nazione è una realtà che vive nel tempo, quindi esposta ai venti della storia e suscettibile di modifica, ma è pur sempre la vita, ossia un divenire, di un soggetto ben distinto, cui i singoli sono legati non dal renaniano “plebiscito di tutti i giorni” – che pure, in qualche misura, è doveroso –, bensì da un legame collettivo che scaturisce proprio da quello cui il nome “nazione” rimanda, cioè da una “nascita”, un rapporto, che se non è necessariamente, di sangue, lo è di certo in termini di matrice culturale, di lingua e di locuzione – come sa qualunque traduttore, ed è la sua “croce”, un tedesco o un inglese e un italiano non solo parlano lingue diverse, ma pensano anche l’espressione verbale in maniera diversa –, di modi di azione e di reazione tipici, e di valori collettivi peculiari, condivisi e collaudati in esperienze secolari. Dove non vi è questo nesso formato da un sottofondo “fisico” “lavorato” dalla storia, non c’è nazione ma solo gens.
Le costituzioni passano, i territori si modificano – si spera pacificamente –, il sangue si mescola e si arricchisce: ma i popoli che vivono nella storia restano… Forse, allora, è meglio parlare di “patriottismo” culturale… e farlo senza escludere che il patrimonio ereditato sia un macigno inscalfibile…
Oscar Sanguinetti
Appunti sul Risorgimento /4
Camillo e il suo re

Per capire perché il Risorgimento è andato come è andato, almeno a partire da una certa data, ritengo sia chiave la figura del conte di Cavour.
Cavour è una figura apparentemente dimessa, di basso profilo, di scarso carisma, ben diversa dal supercilioso Mazzini, dal roboante re Vittorio Emanuele II e dal corrusco Garibaldi.
Eppure, se non vi fosse stato “il tessitore” probabilmente gli eredi di Francesco II regnerebbero ancora a Napoli e i granduchi in Toscana. Solo grazie alla sua spregiudicata abilità di giostrare fra le potenze europee, di saper toccare le “corde giuste” dell’animo dei potenti, di contrapporre, di simulare, di obbligare è stata possibile la costruzione di un regno nuovo sotto il suo sovrano.
Ma, possiamo chiederci, quali erano gl’ideali, i progetti, le cose per le quali spendeva l’esistenza —purtroppo breve — questo piccolo esponente della nobiltà agraria, questo fedele funzionario del governo sabaudo e questo parlamentare moderato eletto con poche centinaia di voti?
Questa dimensione della sua biografia di uomo pubblico eminentemente attivo è forse quella più in ombra.
Cavour non era certo un radicale, né nel senso di liberale dogmatico, né nel senso di democratico alla Mazzini. Era un liberale moderato, dal penchant economico, dagl’interessi molti concreti, molto pragmatico, di poco rilievo intellettuale, non particolarmente ostile alla Chiesa e alla religione. Ma questo suo understatement si coniugava con una presa di distanza radicale da tutto quello che non era liberale moderato, tanto sul versante “destro” quanto su quello “sinistro”. Non amava i reazionari clericali alla Solaro della Margarita — che combatterà sempre con durezza —, ma avversava i repubblicani democratici — anche se saprà servirsene come pochi
Soprattutto, Cavour era un uomo della monarchia. Fra i suoi obiettivi giganteggiavano il bene e le sorti del suo re. Tutto quello che, da un lato, minacciava il regno sabaudo era suo nemico; e, dall’altro, tutto quello che poteva rendere più grande il regno andava perseguito con tutte le forze — sue e dei sudditi — e a qualunque costo, anche a costo d’impiegare l’inganno, anche a costo di corrompere e di fare la guerra.
Lo si vede bene quando, nel 1859, ha sconfitto — o, meglio, ha fatto sconfiggere da Napoleone III — l’Austria e l’imperatore francese vorrebbe imporre al nuovo regno sabaudo formato dal Piemonte, dalla Lombardia e dall’Emilia di dar vita nuovamente al disegno federalistico-unitario in auge nel 1848. Cavour allora prende tempo, si tiene le mani libere, si disimpegna dal progetto federativo — l’adesione al quale forse avrebbe consentito a Vittorio Emanuele II di conservare Nizza e la Savoia — e preferisce scagliare Garibaldi contro il Regno delle Due Sicilie per tentare la via di una unità fondata sul primato assoluto del suo Regno. E si sa che la sua scommessa fu vinta. Probabilmente l’azzardo era ridotto da solide assicurazioni diplomatiche — e non solo — che l’Inghilterra avrebbe sostenuto l’impresa antinapoletana e le ire di Napoleone potevano sempre essere sedate — come in effetti fu — concedendogli le sospirate Nizza e Savoia.
Quindi, pur di estendere il regno del suo sovrano, “il tessitore” non esitò allora a buttare a mare il progetto unitario paritetico e federato caldeggiato da Luigi Napoleone. Quel progetto che da più parti si considerava — e si continuava a considerare persino da parte dell’antico carbonaro, ora imperatore dei francesi — l’unico in armonia con radici dell’italianità e con la salvaguardia dei diritti. Quel progetto, in aggiunta, che l’espulsione dello straniero dalla Valle Padana — cosa che nel 1848 era stata un indubbio ostacolo alla federazione — rendeva allora ancor più praticabile.
Forse dietro questa scelta si cela anche il timore che il suo bonario ma ferreo liberalismo avrebbe rischiato di restar confinato, nella federazione, al solo Piemonte invece che estendersi, come nel caso della conquista regia, all’intero Paese.
Tutto, nella sua proteiforme politica, pare obbedire a questo disegno di fondo mai teorizzato: fare grande il suo re e, attraverso questa grandezza ¾ ma solo dopo ¾ fare l’unità della nazione, introdurvi le libertà costituzionali, limitare la Chiesa, stabilire alleanze, agevolare i commerci, e tutto quel che segue.
Cavour è forse il politico monarchico più radicalmente fedele al suo sovrano del suo secolo. Il Cavour politico non si muoverà mai da Torino, neanche quando le truppe piemontesi entreranno a Napoli e a Palermo. Il suo background è svizzero e nordeuropeo, il suo orizzonte sono i confini sempre più estesi del regno al quale ha giurato obbedienza. Niente di più.