Aldo De Jaco – cronaca inedita dell’unità d’Italia

RICERCA EFFETTUATA DAL LIBRO “Il Brigantaggio Meridionale- cronaca inedita dell’Unità d’Italia ” di Aldo DE JACO -Roma-1979

Da pag.11 A 36

brigantaggio-meridionale-liINTRODUZIONE

Il castello di Lagopesole è deserto, il cortile è un pozzo d’ombra protetto da alte mura; fuori la luce accecante del sole disfa le linee dei colli intorno, la grande vallata, i grumi di case contadine ai crocicchi delle strade. Il castello è un cubo di pietra spoglia, in cima al colle piú alto; intorno, come un collare, ha una decina di casupole ammucchiate fra i sassi. Un incerto scalpellino ha tracciato sulla pietra del portale due file di lettere:
negando la verità  si hanno dispiaceri

e ancora:

Dio precettò /dire la verità
per avere giustizia.

La verità!
Sul Corriere lucano del 6 giugno 1861 questo posto era indicato come il covo principale dei « briganti reazionari ». « In nome di Dio – diceva il giornale – ricordiamo alle nostre autorità civili e militari l’importanza terribile del castello di Lagopesole. Qui è il covo diletto dei briganti i quali devono trovare tanto di protezione colà, presso quelle capanne, in quanto che ivi abita la famiglia del famigerato Ninco Nanco. In nome di Dio ripetiamo si metta un presidio di forza e non sappiamo cosa ne potrà avvenire. »

Ed aveva ragioni di preoccuparsi il redattore del giornale. Da qui partivano i briganti; almeno, da qui partì la loro colonna più forte e il loro tentativo piú temibile di togliere dai municipi la bandiera tricolore e rimetterci la bianca bandiera « francescana » dei Barboni.
Questi sono i fatti; ma la verità, qual è la verità? Chi erano, cosa volevano, perché combattevano i « briganti » di Lagopesole? Girando fra le casupole di Castellagopesole, a cento e piú anni da quei fatti, si scoprono almeno due contrastanti verità.
Ecco che una vecchia donna ci invita a vedere la sua casa. Indossa un vestito nero, stinto, dalla gonna gonfia e pieghettata; un riquadro di tela bianca le copre il petto.
– Vedi – dice – questa è la mia casa, da piú di cento anni è mia, e ora il principe me la vuole levare.
Suo marito era un tempo sellaio dei principi Doria, i padroni del castello; abitare in quella casa faceva parte del suo mestiere. Poi è morto; infine, dopo molti anni, i Doria hanno mandato a chiamare la donna e le hanno chiesto centomila lire per quella casa.
Centomila lire! Da queste parti centomila lire sono una ricchezza senza fine. La vecchia donna continua a parlare. Qui, secondo lei, è nato Nicola Somma detto Ninco Nanco, qui è nato però anche Crocco, e qui sono nati tutti i capi dei briganti. Ne parla come di favolosi eroi della sua infanzia; ah! se essi fossero vivi! Il principe non minaccerebbe di togliere un tetto alla sua vecchiaia. La « casa » è una stanza scura che la pulizia fa ancora piú vuota e disadorna. C’è solo un letto e un comò, e sul capo le travi basse e nere che reggono le tegole.
È vero, somiglia alla casa di Crocco.
Nelle sue « memorie » il « generale francescano » Carmine Crocco Donatelli cosí descriveva la casa della sua infanzia:
« Sono due casupole annerite dal tempo e piú ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi. Vedi quel misero letto sostenuto da assicelle fradice e cavalletti arrugginiti? Là dormono mia madre e mio padre; nell’altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini, tutti in fascio come stoccafissi. Vedi quel grosso canestro? là dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e molta paglia, dorme l’ultimo nato, Marco, di pochi mesi. Eccoti mia Madre che si strugge a cardar lana; osservacon’è tutta unta e bisunta d’olio…”

Ma Crocco era nato alla periferia di Rionero non a Lagopesole. Questa forse è la casa di Ninco Nanco? La donna ne è sicura. Ah, se ci fosse lui! Ora parla dei figli suoi che sono sei, ma sono tutti emigrati, e in sei diverse parti del mondo.
Usciamo. Dopo un poco si avvicina alla nostra macchina un uomo che finora non ha fatto che scrutare le nostre mosse.
– Non li state a sentire – dice – non li credete. Crocco era un ladro e un assassino, e cosí Ninco Nanco. Qui ne parlano bene perché sono fatti come loro, ecco cos’è. Ma erano ignoranti, delinquenti comuni, ricattatori…
Parla con ira sorda e livore, come se solo un’ora fa forse stato offeso e spogliato delle sue sostanze dai briganti.
Anche qui dunque, e cosí a Rionero, a Lavello, a Melfi, due opposte verità per un fatto solo, la lunga e disperata guerra dei briganti.

È singolare che su questi fatti non ci sia ancora una (almeno approssimativa) verità. E questo non solo per la gente di Castellagopesole.
Recentemente, dopo le celebrazioni del centenario dell’unità di Italia tenute sul piano della piú noiosa e inconcludente « ufficialità », s’è atteso invano che delle ricerche storiche riportassero in luce elementi di quella angosciosa tragedia che fu la guerra del brigantaggio. Che noi si sappia una sola opera ha recato un contributo, un effettivo e notevole contributo, in questo senso: la Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese(FRANCO MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964. 13); ma si tratta essenzialmente di una documentatissima storia diplomatico-militare dell’azione del governo « piemontese » nel periodo dell brigantaggio, delle discussioni parlamentari, dell’opera del Cavour e dei suoi successori, dei discorsi dell’opposizione democratica, dell’azione dell’esercito nel sud. Vi sono anche largamente e giustamente definite le attività del brigantaggio, il suo carattere e le sue origini sociali nonché il rapporto con le centrali antiunitarie di Roma; resta però impreciso il volto del brigante, della gran massa dei manutengoli », dei « reazionari », degli « sbandati »(«Manutengoli » erano detti i favoreggiatori delle bande dei briganti, sia che si trattasse di grossi proprietari di terra legati ai «comitati borboniani» sia che si trattasse familiari dei briganti e, in genere, di povera gente che, abitando o lavorando in campagna, aveva rapporti con loro. « Reazionari » erano tutti i meridionali schierati, a qualunque titolo e per qualunque motivo, contro l’unificazione del paese. Venivano definiti o si definivano con quel termine anche alcuni che solo si opponevano alle misure liberticide (o lesive dell’auspicata autonomia e dell’autogoverno) della dittatura militare. « Sbandati » erano tutti gli ex militari borbonici o i giovani in età di andare soldato che si sottraevano a quest’obbligo – che implicava la partenza per sconosciute regioni del nord – rifugiandosi nei boschi.), nonchè dei loro capi contadini, restano nascoste lr ragioni umane che li spingono allo «sfascio ».

Inoltre ci sembra che l’autore rimanga in qualche parte irretito dalla logica stessa – se non dalla fatalità – degli avvenimenti, in particolare del successo del « tessitore » (e dei suoi continuatori) nel realizzare la egemonia – cosí scarsamente contrastata del re¬sto – di una classe dirigente a orientamento moderato. Sicché il brigante resta – in definitiva – ancora confinato nel fondo del panorama, elemento di « natura » piú che di « storia ».
Tuttavia, come abbiamo detto, il libro di Molfese è l’unico, valido contributo di questi anni alla storia del brigantaggio cioè di un periodo in cui – come scrisse Gramsci nel ’20 — « lo Stato italiano… ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo`, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti » (Ecco per esempio come inizia un racconto Edmondo De Amicis: « Era l’estate dell’anno 1861, allorché la fama delle imprese brigantesche correva l’Europa; quei giorni memorabili, quando il Pietropaolo portava in tasca il mento di un “liberale” col pizzo alla napoleonica; quando a Montemiletto si seppelivan vivi, sotto un mucchio di cadaveri, coloro che avevano gridato “Viva l’Italia”; quando a Viesti si mangiavano le carni dei contadini renitenti agli ordini dei loro spogliatori; quando il colonnello Negri, presso Pontelandolfo, vedeva appese alle finestre, a modo di trofei, membra sanguinose di soldati; quando il povero luogotenente Bracci, ferito e preso in combattimento, veniva ucciso dopo otto ore di orrende torture; quando turbe di plebaglia forsennata uscivan di notte dai villaggi, colle torce alla mano, a ricevere in trionfo le bande.. ». In effetti l’estate dell’anno 1861 – durissima e sanguinosa – vide crudeltà sia da parte dei contadini armati che dei reparti impiegati nella repressione e comunque in questo brano di prosa sono elencati – in nome dell’amor patrio – piú bugie che fatti. In particolare – come si vedrà – per quanto riguarda Pontelandolfo.).
Ancor oggi questo giudizio non è accettato da tutti o anche solo dai piú: c’è ancora molto posto per scrittori « salariati ». Né d’altra parte si son fatti molti progressi rispetto alla « tematica » in voga nel primo dopoguerra fra alcuni studiosi (in generale su tutta la vicenda era da tempo caduta una gran coltre di silenzio
e poprio nell’appena concluso massacro si vedeva il superamento delle divisioni fra nord e sud avendo le trincee del Carso fra gli altri meriti quello di « aver fatto gli italiani »). Quale era fondamentalmente questa tematica?

Scriveva Giustino Fortunato alla fine del ’19:
« L’amico Croce vorrebbe che a una storia di là da venire, sul brigantaggio meridionale, fosse dato il titolo di “Vandea napoletana”. No. Il brigantaggio meridionale, espressione e frutto di una società rosa dalla miseria e moralmente fradicia, non merita tanto. Pure, niente di piú utile di una sua storia. Quando sarà che un uomo d’alta mente potrà dare all’Italia un cosí fatto lavoro, degno della lagrimevole sua tragicità, prima che i topi e l’umidità degli obliati archivi provinciali di Stato avranno distrutto quei voliminosi processi? ».
Questo « uomo d’alta mente » a tutt’oggi non è ancora venuto mentre l’opera dei topi, dell’umidità e delle distruzioni conseguenti alla seconda guerra mondiale hanno reso sempre piú problematico che egli, quando giunga, possa attingere ai necessari documenti.
Lo stesso Molfese parla – a proposito degli incartamenti della commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio(La formazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio fu decisa nel corso della seduta parlamentare segreta del 16 dicembre 1862, dopo piú di un anno di insistenza dell’opposizione in questo senso. La commissione fu composta dagli on. Saffi, Sirtori, Romeo S., Castagnola, Ciccone, Argentino, Morelli D., Bixio e Massari (relatore).
Dopo travagliate indagini sul posto (nel corso delle quali solo per caso una parte dei deputati non cadde nelle mani dei briganti) la commissione riferí al parlamento nel corso delle sedute segrete del 3, 4 e 5 maggio 1863. I documenti da essa raccolti e le sue deduzioni furono in pratica tenuti nascosti al pubblico che poté considerare solo la conclusione ultima di tanto indagare e discutere: la legge Pica che sanciva – di fatto – condizioni di stato d’assedio in gran parte del Mezzogiorno) – come dell’ « avanzo di un naufragio »; a noi per altro è toccato constatare l’opera, insieme, dei topi, dell’umidità e dei bombardamenti sull’enorme mole di preziosi manoscritti sulle «reazioni»-di pugno del Fortunato – conservati presso la Società napoletana di storia patria.

Ma vogliamo rilevare della frase citata di Giustino Fortunato l’accenno alla « Vandea »; fu il brigantaggio meridionale un episodio di reazione legittimista paragonabile alla rivolta della Vandea nel periodo della rivoluzione francese?(Nel 1793, nelle zone a sud della Loira, esplose un’insurrezione di ispirazione monarchica e cattolica che fu domata solo l’anno successivo per tornare poi ad accendersi nel ’95. I moti vandeani – dopo massacri e immani distruzioni – si conclusero solo alla fine del secolo in un patteggiamento con Napoleone.)

E’questo il tema di dibattito che circola nei rari saggi d’un qualche valore scritti intorno al cinquantenario dell’Unità e del resto anche negli anni stessi delle « reazioni » sia da parte dei fautori dell’Unità (che in generale negavano valore politico ai moti contadini per definirli sfogo di criminalità o, comunque, « moto meramente sociale », conseguenza del precedente malgoverno e delle inevitabili difficoltà del trapasso dei poteri) sia da parte dei cronisti « borboniani » che invece vedevano nei briganti risorgere la Vandea con tutte le sue glorie legittimiste.
Giustino Fortunato sembra dunque ritenere in quella sua nota che Benedetto Croce accogliesse il parallelo; a dire il vero però Croce ebbe piú volte a definire in modo tutt’affatto opposto il suo pensiero. Cosí nel saggio su Il romanticismo legittimistico (in Uomini e cose della vecchia Italia) egli sostiene che Pronto e Rodio, fra’ Diavolo e Mammone(Capibriganti del periodo della Repubblica partenopea e della guerriglia antifrancese. Di Gaetano Mammone, macellaio di Sora poi brigante e « generale in capo dell’insurrezione borbonica » il Cuoco racconta che « allorché pranzava aveva sempre sulla tavola una testa tagliata di fresco e beveva sempre in un cranio umano ». Non diversamente si espresse l’on. Massari in parlamento a proposito del brigantaggio postunitario: « bevono il sangue, mangiano le carni umane, sono rozzi, superstiziosi, ignorantissimi… ».), la Santa Sede del cardinale Ruffo( In nome di Dio e del Borbone il cardinaie Ruffo mosse dalle Calabrie nel ’99 un esercito contadino per abbattere la Repubblica partenopea. Non pochi briganti si unirono a lui e furono poi ricompensati dal Borbone con l’amnistia per i loro delitti e in certi casi anche con il riconoscimento dei gradi militari acquisiti combattendo) e non la Vandea sono gli antecedenti del brigantaggio.

« D’altra parte – scrive Croce – lo stesso cardinale Ruffo, ai suoi tempi, era rimasto scottato dal fuoco che aveva maneggiato, e alla seconda occupazione francese, istigato a rimettersi alla testa delle bande aveva risposto che “certe follie si fanno una volta sola”… Chi conosceva le cose italiane, e in particolare le napoletane, chi considerava spassionatamente e con animo alto, giudicava ben altrimenti intorno all’Italia nuova e alla monarchia borbonica, e, quanto alla “Vandea napoletana”, vedeva quale lurida commedia e quale atroce drammaccio da arena corrispondesse a quell’eufemismo o a quella denominazione in cui l’aggettivo modificava Cosí profondamente il sostantivo da corroderlo e distruggerlo affatto. »
s Nel 1793, nelle zone a sud della Loira, esplose un’insurrezione di ispirazione monarchica e cattolica che fu domata solo l’anno successivo per tornare poi ad accen¬dersi nel ’95. I moti vandeani – dopo massacri e immani distruzioni – si conclusero solo alla fine del secolo in un patteggiamento con Napoleone.

Che « animo alto » bisognava avere per giudicare una « lurida commedia », la tragedia del brigantaggio postunitario con le sue migliaia e migliaia di vittime fra impiccati, fucilati, uccisi in combattimento o finiti dopo aver ceduto le armi!
Ma con maggiore chiarezza ancora assisteremo, nella prosa d’un discepolo di Croce – il professor Gino Doria, per altro egregio e fine cultore della storia e della « civiltà » napoletana -, a una completa caduta sia del senso dell’equilibrio storico (e della misura e dei buon gusto) sia della capacità di discernere anzi, ancor prima, di ammettere come soggetti di storia i briganti e le loro azioni: tutto questo in un saggio scritto intorno al ’30 che doveva precedere, una « storia del brigantaggio » non mai però portata a termine. Nel saggio infatti dal titolo Per la storia del brigantaggio nelle province meridionali(Pubblicato in Archivio storico per le province napoletane, nuova serie, v. XIII (1931).) Gino Doria scrive a proposito del parallelo con la Vandea:
« …si è per esempio osservato, certamente con giustezza, che assomigliarlo [il periodo del brigantaggio] alle guerre di Vandea e una profanazione. Eroi i vandeani, assassini i nostri briganti. Purtroppo è cosí… ».
Infatti per Doria i briganti erano (citiamo le sue parole) delinquenti dei peggiori, capaci delle piú atroci crudeltà commesse talvolta senza ragione e per il solo gusto del sangue, infidi alla stessa causa che dicevano di servire e pronti a tradirla alla prima occasione, per denaro o per paura, degni in tutto e per tutto della fine tragica che toccò alla maggior parte di loro. Ancora, secondo Doria, i briganti erano: ladri, assassini, incendiari, ricattatori, uomini rozzi, ignoranti, dagli istinti bestiali, belve perseguitate, circondate, destinate fatalmente al macello.
Tuttavia non è in questo fosco quadro degli eserciti briganteschi che per Doria sta la differenza con la Vandea bensì nel fatto che i meridionali non hanno avuto, nel 1861 e dopo, dei capi veri, dei « gentiluomini di gran nome » alla loro testa: in quanto alle masse esse cadono sempre negli stessi errori e negli stessi eccessi.

Non si può dire che la annotazione sulla mancanza di « gentiluomini » alla testa dei briganti meridionali non sia esatta. Che noi si sappia un salo napoletano « di gran nome » sbarcò nell’ormai ex regno delle due Sicilie per difendere il legittimismo, Achille Caracciolo di Girifalco del quale sappiamo che secondo Dumas aveva « una bella testa di soldato e di cospiratore a un tempo: i capelli neri, fronte scoperta, occhi magnifici, baffi neri che spiccano sul pallore del volto ». Alle domande del giudice che lo processava Caracciolo rispose: « mi sono battuto per la mia bandiera, quella dell’esercito napoletano ». Tuttavia non si era battuto per molto se è vero che sbarcato col piccolo numero di mercenari capeggiato dallo spagnolo José Borjés – capi presto che l’impresa era disperata e lasciò il gruppo per tentare il rientro a Roma.
Piú cocciuto, Borjés riuscì infine a collegarsi prima col brigante Mittica e poi col piccolo esercito del brigante Crocco Donatelli, in Lucania, e ne condivise per un certo periodo le imprese fino a convincersi – ed ecco, per Doria, la differenza con la Vandea – che non poteva farsi condottiero di nessuno e che la sua missione era rovinosamente conclusa. Da notare che Borjés – arrestato mentre stava per passare nello Stato pontificio e fucilato sul posto insieme ai suoi luogotenenti spagnoli e a un piccolo gruppo di meridionali – lasciò un patetico « giornale » (Il « giornale » di José Borjés inizia appunto con una nota del 22 settembre 1861 riguardante l’abbandono del Caracciolo. Questi comunque non giunse fino a Napoli – sua prima tappa verso Roma – ma fu arrestato dalla Guardia nazionale in Calabria.) della sua impresa che non per caso il governo italiano permise fosse pubblicato: infatti il « cabecilla » spagnolo e gli ufficiali piemontesi avevano idee similari sul brigantaggio e niente di meglio poteva trovare il governo italiano di quel documento per testimoniare che l’avversario che lo stava costringendo a mobilitare metà del suo esercito nel Mezzogiorno non era poi degno di questo nome, trattandosi di una accozzaglia di ribaldi, aiutata dai loro manutengoli per paura, ignoranza e istigazione dei preti.
Né si tratta del solo caso di « contraddizioni » fra briganti e « gentiluomini » borboniani.
Se nella contesa fra Crocco e Borjés il primo ebbe la meglio, opposto fu il risultato dello scontro fra lo spagnolo Tristany (un guerrigliero carlista amico ed ex commilitone di Borjés (Sia Borjés che Tristany avevano combattuto in Catalogna nel ’46-’49 in nome del pretendente al trono di Spagna don Carlos Montemolina. La loro tattica della guerriglia ebbe per lungo tempo l’appoggio dei contadini catalani) e il brigante di Sora Chiavone che alla fine vi perse la vita.
Scrive Tristany nelle sue memorie: « Come io non trovai sui confini pontifici che una banda di un paio di centinaia di malviventi, sotto l’apparente comando di Chiavone, Borjés, al suo sbarco in Calabria non trovò un cane che lo aiutasse e gli facesse festa. Non potendo tornare indietro, Borjés si ritenne per il momento fortunato di poter raggiungere la banda di Mittica, fatta a somiglianza di quella di Chiavone, cioè composta di ogni sorta di malfattori ».
Lo spagnolo aveva 42 anni ed era « robusto, forte, alto, con folti baffi ed occhi vivacissimi ed alteri »; uomo « risoluto, d’animo ritto e pieno di convinzione » era stato mandato dal Comitato borbonico di Roma a tentare di mettere le briglie sul collo a Chiavane il quale aveva idee ed obiettivi suoi che ispiravano diffidenza. In verità altri lo aveva già tentato e senza fortuna: il marchese Alfredo De Trazégnies, imparentato col maresciallo di Saint Arnault e con la moglie dell’ambasciatore italiano presso il re del Belgio, contessa di Montalto. Era questi un « bellissimo giovare sui trent’anni, di distinta presenza, di maniere disinvolte e nobili, alto e ben preso di vita, pallido, con capelli e barba neri, vestito elegantemente e di moda, in costume da caccia, con rivoltella, pugnale e carabina da bersagliere ».
Forse un tal personaggio, per nobiltà di famiglia e aitanza della persona, avrebbe potuto ambire a un parallelo coi capi vandeani ma, a parte il fatto che non si batté mai con molto impegno (Citiamo da Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, studio storico-politico-statistico-morale-militare del conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz capitano del Corpo reale di stato maggiore generale, edito a Milano da G. Daelli e c. nel 1864.), fu preso e fucilato ben presto (e qualcuno sostiene che Chiavone c’entrasse per qualche cosa).
Comunque il brigante di Sora era troppo vicino al confine pontificio perché da Roma non tentassero di mandargli un controllore dopo l’altro. Parteciparono infatti alle imprese di Chiavane – nota il Croce – non solo De Trazégnies e poi Tristany ma anche un « conte Kalkreuth e un altro ufficiale prussiano a nome Mazorasky o qualcosa di simile ».
Infine Tristany tese un agguato a Chiavane, lo fece fucilare e ne nascose il cadavere; poi – giacché i briganti contadini volevano essere guidati solo da lui, da Chiavone, – diede questo nome a un qualunque brigante; la famaper altro correva per i monti e le selve e faceva di Chiavone una specie di essere immortale.

I due esempi citati confermano che non solo il brigantaggio meridionale non ebbe « gentiluomini di gran nome » alla sua testa ma, ancora, che quei pochi avventurieri legittimisti che il Borbone riuscí a reclutare e spedire nel sud non ebbero vita facile perché le bande dei briganti non erano un cavallo docile da domare e da cavalcare. Inoltre quel cavallo aveva suoi modi di « galoppare » (cioè di agire, far la guerra) che risultavano incomprensibili agli… aspiranti cavalieri. Non saremo noi dunque a negare che la guerra del brigantaggio non fu una Vandea, solo che mentre per Croce, Doria e altri il rifiuto di questo parallelo suona condanna per il brigantaggio meridionale postunitario a noi appare come la premessa d’una diversa definizione, per la esattezza della quale devono trovare considerazione e la realtà di un durissimo – e disperato, per le condizioni in cui si realizzava – scontro di classe e i particolari dati storico-sociali in cui si realizzava l’unificazione del paese. Cosí l’analisi si può allargare ad altri piú moderni – ma non certo nuovi – dati: per esempio sulle ragioni della « assenza » delle masse nel moto risorgimentale o sul rapporto fra i moti contadini e le teorizzazioni bakuniniane o, infine, sulla complessa definizione del filone storico al quale si collega il moderno movimento operaio.
Ma vogliamo innanzi tutto definire ora l’obiettivo che ci siamo posto curando la raccolta che qui presentiamo.
Abbiamo citato l’opinione di Giustino Fortunato sulla utilità di una storia del brigantaggio postunitario; ad essa possiamo aggiungere una voce di tutt’altra sponda, quella del brigante Crocco il quale, a conclusione delle memorie raccolte dal capitano Eugenio Massa nel 1903 (Vedi in EUGENIO MASSA, Gli ultimi briganti della Basilicata (Melfi, ed. Grieco, 1903) la trascrizione della autobiografia di Crocco. Il Croce definisce questa autobiografia « certe sue bugiarde memorie dettate in carcere » e non ne considera l’utilità; lo storico lucano Basilide del Zio conferma invece come fondamentalmente corrispondenti al vero gli episodi narrati dal capobrigante. Naturalmente questi offre una versione dei fatti tale non solo da non aggravare con rivelazioni le sue colpe o quelle dei suoi compagni, ma da testimoniare un suo pure improbabile pentimento o almeno il riconoscimento dei suoi errori. S’aggiunga che ha messo in sospetto il Croce l’evidente traduzione in lingua del primitivo testo dialettale, traduzione che nessuno può dire quanto sia fedele anzi che a tratti appare interpolata da considerazioni moraleggianti estranee allo stile del Crocco e alla sua elementare «ideologia» per altro verso chiaramente espressa. A nostro avviso comunque resta valida la considerazione di fatto di Basi lide del Zio.)afferma:

« …chi lo sa che fra mille anni questi miei scarabocchi possano servire a qualche cosa che ora noi neppure pensiamo. Che sorga qualcuno, fra tanto crescente progresso intellettuale, che comprenda quello che io cercavo e, facendo la storia dei duemila e duecento uomini scannati per uno solo, trovi un efficace rimedio ,che valga a rigenerare il genere umano… Io non ho mai potuto comprendere come sia composto il consorzio sociale; so che il disonesto nessuno lo può vedere, tutti lo fuggono, la legge non lo colpisce… e poi si chiama scellerato colui che lo assassina… e non si vuole affatto comprendere come non tutti gli uomini siano degni di vivere ».

Questa raccolta di scritti non vuole assolvere ai compiti indicaati dal Fortunato né esaudire le speranze di Crocco, tuttavia tende a uno scopo che con quegli obiettivi e con quelle speranze si collega: salvare, mettere in luce nella loro autenticità dei testi di opposta origine che, insieme composti, formino un mosaico veritiero (anche se fra forti contrasti di tinte e particolari non sempre ben delineati) sul tragico periodo del brigantaggio di massa nel Mezzogiorno. Non s’intende cosí contribuire a porre una bella lapide dove è la fossa senza nome del brigante o chieder per lui compassione o « sistemare » la sua vicenda nella storia d’Italia, bensí – si potrebbe dire – disseppellirne i resti e considerare di che ferite la sua vita è stata spenta, e arrivare da questo al come e al perché.
Tutto questo ci sembra utile per salvare, rinverdire dei tragici ricordi e da essi – dall’allineamento delle testimonianze piú che dai ragionamenti su di esse – trarre impliciti insegnamenti per nuove generazioni cui le condizioni del paese pongono ancora oggi quesiti che alla formazione dell’unità d’Italia si collegano.
Abbiamo detto che si tratta per la quasi totalità di testimonianze dirette o comunque riportabili ad una diretta esperienza. Per raccoglierle si sono seguiti per lo piú tre filoni e, in essi, i momenti di maggiore verità: gli scritti o la trascrizione di affermazioni brigantesche – lettere private, verbali di interrogatori, autobiografie o biografie per mano d’altri briganti o inquisitori , le memorie, le lettere, le polemiche di una serie di ufficiali e soldati « piemontesi » non sempre contenti di essere « trasformati in birri » ( come dice uno di essi), e, infine, alcuni più alttendibili reportage di parte borbonica; a questo s’aggiungono le notizie giornalistiche, le relazioni ufficiali, ecc. In generale cosí su di uno stesso argomento si hanno voci di diversa parte (un « montaggio » di testimonianze) che in definitiva devono permettere al lettore di farsi un quadro degli avvenimenti il piú possibile vicino alla verità.
Alcuni episodi vengono ad assumere in questa raccolta un particolare significato: la prima marcia di Crocco fino a Melfi, la « reazione » di Gioia del Colle e la distruzione di Casalduni e Pontelandolfo.
Questo non avviene per caso; si tratta infatti di tre episodi illuminanti sul carattere della guerra del brigantaggio, sugli « eroi » che dalle due parti la combattevano, sugli obiettivi degli uni (lo sfascio, la pandistruzione ma anche la difesa dei beni piú elementari – come la vita e la famiglia – e la ribellione contro l’ingiustizia mostruosa delle condizioni agrarie ribadita dalle nuove leggi) e sui metodi degli altri (la violenza vendicatrice, il terrore di massa, una « giustizia di classe », l’instaurazione del nuovo in alleanza con gli interessi piú retrivi e senza considerazione alcuna per le tradizioni e i costumi dello Stato che veniva liquidato).
Abbiamo dedicato poi un’altra sezione della nostra raccolta a particolari scontri e, soprattutto, alla fine dei briganti, il loro « momento della verità », l’incontro con la morte. Questo perché innanzitutto la guerra del brigantaggio ebbe largamente il carattere di un massacro (da una parte e dall’altra) e quindi le cronache di essa sono quasi sempre cronache di fucilazioni – queste avvenivano nei paesi, dinanzi a centinaia di spettatori, mentre i combattimenti è raro abbiano avuto un cronista -; ma oltre tutto perché a lungo si polemizzò, anche nel parlamento italiano, sul coraggio e dunque sui sentimenti dei contadini briganti giungendo quasi sempre a conclusioni che li apparentavano piú agli animali delle selve che al genere umano mentre definivano il loro « coraggio » soprattutto come incapacità a comprendere il pericolo, o, in generale, il valore della vita (Era cosí diffusa per l’Italia e per l’Europa l’opinione che i briganti morissero «bene » – ed era cosî contraria, questa opinione, al cliché ufficiale della guerra in corso che l’on. Massari nel discorso alla Camera sul brigantaggio (egli era appena tornato dalla ispezione nel sud con la commissione parlamentare d’inchiesta) fu costretto a cercare di smentirla: ‘
« .., non è vero – egli disse – che tutti vadano a morire con coraggio; ciò è avvenuto in alcuni casi, ma non è la regola generale; a meno che si voglia confondere la stupidità con lo stoicismo, il forte disprezzo della vita con la freddezza dell’abbrutimento ». E cosí viene codificata una singolare forma di razzismo o meglio un cosí rigido spirito di classe da suggerire il piú sovrano disprezzo verso il cupo e incomprensibile coraggio dei « cafoni » in armi.)

Come tragica appare la breve corsa verso la morte di questi contadini (quasi tutti caduti a venti anni o poco piú) se solo si ammette che essi avevano invece una loro, autonoma, elementare causa da difendere e, d’altra parte, che non avevano alcuna alternativa alla sottomissione alla unon speranza se non quella di disperatamente combattere e morire!
Infine l’ultima parte della nostra raccolta riguarda i giudizi dei contemporanei sugli avvenimenti meridionali; vi sono raccolte voci dei più diversi settori politici contemporanei a testimoniare, se non altro, con quanta fatica si facesse strada l’idea di assimilare il brigantaggio ad una giustificata protesta sociale contadina, e come tuttavia questa fosse un’idea feconda anche se « scomoda » per chi era impegnato alla realizzazione di un’Italia moderata.

Dalle varie testimonianze emergono come personaggi – e talvolta come testimoni – alcuni capibriganti; in particolare, soprattutto, Crocco e il sergente Romano. Ciò è conseguenza della loro funzione durante la guerra del brigantaggio e, per quanto riguarda Crocco, anche della ventura d’aver pagato le sue imprese non con una scarica di pallottole nella schiena ma con quarant’anni circa di segregazione durante i quali ha avuto occasione piú volte di raccontare e di scrivere le sue memorie. Dell’uno e dell’altro del resto si troveranno nei vari testi specificazioni che contrastano col cliché del brigante tutto ferocia e niente cervello, pauroso con i forti (bersaglieri) e ribaldo con gli inermi (proprietari); aggiungiamo qui, per quanto riguarda Crocco, un’opinione non sospetta, quella di Vincenzo Nitti, il quale in una lettera a Giustino Fortunato cosí scriveva: « Dissento da voi in quanto a Crocco. Certamente era un ladrone per indole, che iniziò la sua carriera da brigante fin dal 1848 in seguito a furto mentre era soldato. Dal 1861, pur rimanendo sempre ladro, fu brigante non comune per sveltezza di mente, astuzia, ardire, ed anche per una certa generosità brigantesca ».
In quanto al « sergente Romano » citiamo ciò che disse in parlamento l’on. Massari:
« Cotesto brigante non era cosí abietto come gli altri; aveva coraggio e difatti morì combattendo; nella sua indole era uno strano miscuglio di bieco fanatismo e di rozza pietà, né la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà; un qualche spiraglio di luce rischiarava talvolta l’oscurità della sua coscienza e componeva l’animo suo alla invincibile malanconia del rimorso ».

Ma prima di concludere questa introduzione e dar la parola alle testimonianze riteniamo utile per il lettore riepilogare qualche dato generale sulla guerra del brigantaggio.
Negli anni ’60 del secolo scorso, dunque, nel Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti quello « vero », con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino, se ne stava di presidio nei paesi, isolato come fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e, quasi sempre, un figlio o un fratello fra le montagne a tener testa agli « invasori ». Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche « reazione agraria » di qualche « ribellione borbonica » e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte. Dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi intanto si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto (« gli eterni nemici nostri » li chiamava Crocco), i saccheggi delle case dei « galantuomini » noti come « usurpatori » delle terre demaniali, si instauravano, infine, nuove effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Borbone.
Tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri, uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli.
Già nel novembre del ’60 – pochi giorni dopo l’incontro di Teano fra re Vittorio e Garibaldi – sui muri dei paesi intorno ad Avezzano era stato affisso un proclama del generale piemontese Ferdinando Pinelli.

Ordinava il generale:

« 1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente;
« 2 ) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con dinari o con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato imme¬diatamente;
« 3 ) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma di Savoia, il ritratto del Re o la bandiera nazionale italiana.
« Abitanti dell’Abruzzo ulteriore, – concludeva il generale – ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro dei facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio perché io sarò inesorabile ».

Il 16 erano state eseguite le prime fucilazioni poi, dopo l’assedio dei briganti ad Acquasanta, paesi interi erano stati arsi dalle fiamme, Vena Martello, San Vito, Pagese, S. Martino… E sul selciato di ogni piazza di paese venivano lasciati per ammonimento i corpi golfi e barbuti dei « briganti » fucilati.
Sgurgula ai primi del ’61 (il 19 gennaio) fu assalita e presa dalla banda Giorgi, la compagnia piemontese che la presidiava ne fu cacciata via. Dopo qualche giorno di predominio dei contadini armati giunsero i rinforzi al contrattacco, il paese fu circondato, preso, dato alle fiamme: tutti quelli che avevano un’arma addosso furono fucilati. Si contarono centotrenta morti ,fra i « briganti » e due fra i « piemontesi » i quali ebbero anche due feriti.
Questa « guerra » durò per circa cinque anni; difficile dire il giorno in cui essa cessò del tutto giacché, naturalmente, non fu firmato alcun armistizio. Si può dire che finí quando nelle selve incendiate e semidistrutte a colpi di cannone non rimasero che poche decine di banditi mentre nelle carceri o a domicilio coatto migliaia di contadini d’Abruzzo, di Puglia, di Terra di Lavoro, di Basilicata, di Calabria, incominciavano a scontare le loro condanne.
Lo Stato appena sorto impegnò nella repressione dei « reazionari » metà del suo esercito, circa 120.000 uomini'(Questa è la cifra fornita dal Cesari in Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal ’60 al ’70. Secondo altri (vedi l’inchiesta parlamentare sul brigantaggio) si sarebbe trattato di 85.940 uomini cioè del 6° corpo d’armata dell’esercito regio.), a cui bisognerebbe aggiungere – per un conto esatto – il numero dei componenti della guardia nazionale organizzata in ogni comune.
Difficile dire invece di quanta gente fosse composto l’esercito contadino, non perché sia sconosciuto il numero dei componenti le varie bande, ma perchè gli effettivi dei Briganti si rinnovavano continuamente mentre nessuno teneva il conto di quanti venivano uccisi in combattimento e fucilati nella stessa campagna o sulle strade polverose, subito dopo la fine degli scontri.
Potrà essere indicativo considerare che nella piazza principale del solo comune di Melfi furono fucilate 32 persone; in tutto il Melfese secondo alcuni cronisti contemporanei ne sarebbero state uccise circa 3.000.
Secondo altri dati, nel solo periodo dal ’61 al ’63 in Basilicata furono fucilati 1.038 briganti, 2.413 ne furono uccisi in conflitto e 2.768 furono arrestati. Furono inoltre arrestate 2.400 persone per « sospetta connivenza » e 525 (fra cui 140 donne) furono mandate al confino. La guerra però continuava e in tutto il Mezzogiorno…
Per quantò riguarda le vittime militari del brigantaggio (soldati e ufficiali dell’esercito regio) si hanno i seguenti dati: dall’Aprile del ’61 al febbraio del ’63 furono uccisi 18 ufficiali e 267 soldati; i feriti furono 80 (5 ufficiali) e i prigionieri poi rilasciati 24 (nessun ufficiale).
Nei primi anni della « guerra » tutti i briganti presi con le armi in pugno o con un coltello in tasca venivano fucilati; poi però – giacché s’era sparsa per l’Europa la notizia che nel sud d’Italia stava avvenendo un massacro pari solo a quello degli indiani d’America – il governo mandò l’ordine di fucilare solo i capi e di mettere in carcere in attesa di processo gli altri.
Le cose non cambiarono di molto. Si veda a questo proposito la cinica annotazione contenuta nelle memorie del generale regio Della Rocca.

Quella guerra non piaceva comunque ai « piemontesi ». La posta portava verso il nord le lamentele di molti volontari sbarcati a Napoli con l’idea di dover combattere l’esercito del Borbone e degradati d’un tratto alla funzione di « birri » e di fucilatori.
Scriveva da Vallata, per esempio, il giovane tenente milanese Gaetano Negri (dopo l’arresto e la fucilazione di otto briganti in una masseria):
« …io sono ributtato di questa guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e per intrighi, dove spogliamo il carattere di soldati per assumere quello di birri, e sospiro all’istante di abbandonare quest’atmosfera di delitti e di bassezze per respirare un’aria piú pura e piú confacente all’indole mia ».

Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare, la solidarietà dei « cafoni » con i briganti. Ma il terrore non é stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime.
La leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e i ricchi, trovava così mille riprove: nascevano dicerie, lamenti segreti, canzoni popolari, credenze…
Di alcuni briganti si disse financo che erano risorti, come Gesú Cristo.
Ad Andria per decenni le donne cantarono un lamento in memoria di Ciucciariello, un brigante alto, dal volto pieno di orgoglio, la barba e i baffi non folti, vagamente somigliante a un monaco.
Egli era nato ad Andria e lí intorno aveva combattuto nelle bande. Fu fucilato a Bari che non aveva ancora trent’anni.
Dice la canzone-lamento (le cui parole sono stranamente simili a quelle di un vecchio ritmo allegro che parla di un gatto chiamato Maramao)

Ciucciarielle peccé si muerte?
Pane e vino nun t’è mancate
la ‘nzalate steva all’uerte
Ciucciarielle peccé si muerte?

Chi scrive ha ascoltato, ancora bambino, le storie fantastiche di Pizzichicchio riscoperto poi come capobrigante della zona del Salento, vicino al suo paese natale.
Chi erano dunque i briganti?

Le montagne dell’Appennino meridionale, la Sila, l’Aspromonte, i boschi di Puglia o di Terra di Lavoro hanno sempre ospitato nei secoli passati gruppi di fuorilegge che ricercavano nel fondo dei boschi e nelle zone piú impervie e solitarie un posto dove essere al sicuro dalle sorprese della gendarmeria. Erano in generale pastori o braccianti che per vendetta o per « motivi d’onore » avevano ucciso qualcuno; c’erano anche dei ladri, naturalmente, dei rapinatori, ma la differenza di « qualifica » fra omicida e ladro era tale da indurre anche quest’ultimo a fantastiche confessioni di efferati delitti di sangue. Non ci voleva comunque molto perché i nomi dell’uno
o dell’altro brigante salissero in fama di grande ferocia, temuti dai viandanti pari dei lupi affamati.
I briganti stessi desideravano questa fama, condizione indispensabile per far riuscire i ricatti con i quali dalla selva potevano procurarsi il cibo o il danaro; inoltre la particolare ferocia e la prontezza, l’ardimento e la forza fisica erano le condizioni per primeggiare tra gli stessi compagni di ventura.
E questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva umana per i benestanti.
Erano i ricchi infatti ad avere paura dei rapimenti, dei saccheggi, dell’incendio delle messi, del taglio delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano niente da perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille soprusi e i patimenti di cui era piena la loro giornata.
La vita nei boschi non era certo un’Arcadia. I briganti vi trascinavano e tenevano prigionieri i proprietari per ottenere un riscatto; se era necessario mandavano un pezzetto d’orecchio di parenti del malcapitato per significare che avrebbero potuto ammazzarlo del tutto. Talvolta si accanivano sul corpo del nemico ucciso, in particolare su chi li aveva costretti a fuggire dalle loro case o li aveva traditi; gli tagliavano la barba, per esempio, e con i peli la carne del mento, gli staccavano il capo e lo trasformavano in truce trofeo da esporre nelle masserie a monito per i disobbedienti (come del resto veniva fatto con i loro corpi quando erano presi e fucilati).
Soprattutto però la loro ferocia finiva con l’esprimersi in una dura disciplina interna alle bande che prevedeva la pena di morte per ogni viltà o disobbedienza.
Per altro i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese d’origine); il loro cattolicesimo era una forma di rozza superstizione nutrita dalla speranza di sopravvivere a un’epoca cosí feroce. Si ornavano per questo il collo e i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini…
L’orrore, in fondo, dominava il cuore di questi uomini; l’orrore per una quasi certa fine, in combattimento o per tradimento, nella selva o fucilati in una piazza. Il loro effettivo coraggio era quello piú difficile a conquistarsi: il coraggio di chi non ha speranza alcuna per sé e per la propria gente, per i paesi miserabili dai quali è fuggito nei boschi,

Nel 1799, al seguito del cardinale Ruffo, alcuni briganti della Sila e d’Aspromonte, dei boschi di Monticchio e di Lagopesole, dell’Appennino avellinese e del confine pontificio, guidarono le bande contadine contro la Repubblica partenopea. Li muoveva l’interesse ad ottenere in caso di vittoria il supremo dei beni: l’indulto, la libertà su questa terra e il perdono dopo morti.
Cosí l’ex bandito, il plebeo macchiato di sangue e per questo cacciato come una belva nel bosco, diventava egli stesso cacciatore e capo di cacciatori, poteva alla fine essere ricevuto a Corte quale braccio fedele del potere reale o almeno – nel caso fosse troppo compromesso per un passato di delitti – era certo di ricevere una buona pensione e di poter guardare cosí senza piú paura al futuro.
Questo il motivo che legava il capobrigante al Borbone, legame che si confermava ogni volta il re avesse bisogno (cosí contro i francesi, cosí nel ’48) di far muovere in proprio soccorso la gente piú misera.
Nel ’60 però – nel momento in cui le camicie rosse salivano su per le coste dei monti – c’era stato qualcosa di nuovo; l’evento era apparso tanto significativo che alcuni briganti si erano schierati dalla parte di Garibaldi ed a lui – non al Borbone – avevano chiesto in cambio la riabilitazione. Solo che Garibaldi e i suoi prodittatori non distribuivano indulti…
Cosí il bandito silano Murraca da borbonico divenne garibaldino per poi ridiventare borbonico quando s’accorse che le camicie rosse non portavano per lui la libertà.
Crocco e Ninco Nanco parteciparono addirittura alla insurrezione garibaldina di Potenza. Essi ebbero poi – insieme ai briganti De Biase, Mastronardi e sette altri – armi e cavalli per correre dentro Venosa ed espugnarla in nome di Garibaldi; infine furono al servizio del sottoprefetto di Melfi Decio Lordi.
A poco valse però la promessa già avuta dell’indulto: il giudice di Barile ordinò un bel giorno d’arrestare Crocco per l’antico sequestro di un possidente e il brigante dové fuggire dal paese con gli altri.
Si ricorda a questo proposito una specie di invettiva storica di Nicola Somma; « Il governo italiano ci manda contro la forza a per seguitarci, ebbene facciamogli vedere che non intendiamo prestargli obbedienza ».
Nasceva cosí il colonnello borbonico Ninco Nanco.
Resta però da spiegare come fu possibile a questi « colonnelli » ed a questi « generali » reclutare per le loro imprese disperate non poche decine, ma un vero e proprio esercito di contadini.
In effetti la marcia dei garibaldini dalla Sicilia verso il nord e la calata, poi, dell’esercito piemontese, erano avvenuti in un momento di grandi agitazioni sociali per la terra, in particolare per la redistribuzione delle terre demaniali.
Mentre poi Francesco II da Gaeta e da Roma prometteva ai contadini partiti vinta contro i signori d’ogni paesotto, buona parte di questi ultimi si schieravano col nuovo re, col partito moderato, diventavano insomma « anticristo liberali », arrogandosi come prima funzione quella di impedire (o realizzare a loro vantaggio) la distribuzione delle terre. Essi poi (veri o men veri liberali che fossero) occupavano le cariche della burocrazia locale e provinciale e « interpretavano » le nuove leggi a seconda del loro interesse. Cosí in definitiva il nuovo governo si configurava agli occhi dei meridionali da una parte come il governo dello stato d’assedio e del terrore anti-contadino e, dall’altra, come un solido appoggio ai nuovi ricchi che avevano lucrato dall’illegale acquisto delle terre di pubblica proprietà.
Altri motivi concorsero poi al sorgere di un potente movimento di rivolta contro il nuovo Stato.
Il primo – diremo con le parole di Luigi Gargiulo, luogotenente dell’armata meridionale garibaldina (In Relazione della sorgente vera del brigantaggio, opuscolo pubblicato a Napoli nel 1863.) – consisteva nel fatto che « con soprusi, maneggi ed infamie si riuscí a sciogliere l’esercito dei volontari e piú di 20.000 giovani furono gittati sulla strada e fra questi ve n’erano molti bisognosi e perché chiedevano pane furono caricati alla baionetta… i 70.000 soldati borbonici fatti prigionieri dal ministro Fanti furono poi rinviati alle loro case, scalzi, laceri e senza mezzi, per essere richiamati sotto le armi a tempo piú opportuno. Per tal modo in meno di un mese venivano posti in balia della fortuna e senza mezzi piú di 100.000 uomini fra borbonici e Garibaldini oltre il numero grandissimo di operai senza lavoro…
E a tutta questa gente che si rivolgeva l’appello di Crocco;
« …non si commuove ancora il cielo, non freme la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall’iniquo usurpatore piemontese? Fuori dunque i traditori, fuori i pezzenti, viva il bel regno di Napoli col suo religiosissimo sovrano, viva il vicario di Cristo Pio IX e vivano pure i nostri ardenti fratelli repubblicani”.

7 aprile del ’61: inizia la lunga estate vittoriosa del brigantaggio lucano da Lagopesole, a Venosa, a Melfi, a Calitri, a Lavello…
I1 7 aprile nel bosco di Lagopesole si riuniscono 500 uomini di tutta la zona intorno; essi appuntano per riconoscimento coccarde rosse sul cappello, alzano la bandiera di Francesco II ed eleggono Crocco come loro generale; luogotenenti e capi delle varie bande subito formate sono Ninco Nanco, Coppa, il francese Langlois (Langlois o De Langlois era – scrive il Croce – « Augustin Marie Olivier de Langleis, gentiluomo bretone, nato a Nantes nel 1822, impiegato nelle dogane francesi, quarantenne, e fin dal 1844 ammogliato e con figli. Chi lo aveva mandato? E quali erano le sue istruzioni? Non se ne sa nulla: nella sua famiglia (come informa chi di recente fece intorno a lui ricerche nel suo paese) ha lasciato reputazione di cerveau brùlé ), Caruso ed altri. Per prima cosa i briganti conquistano l’antico ca-stello dei Doria, poi iniziano la marcia verso i loro paesi d’origine, prendono Ripacandida e Ginestra, il 10 sono a Venosa, poi il 14 a Lavello, infine marciano su Melfi.
A Venosa fu il popolino ad aprire loro le porte. Mentre da una parte si sparava, dall’altra – l’ingresso al paese corrispondente al quartiere piú misero – si agitavano dalle finestre le lenzuola del letto in segno di pace e di rivolta borbonica. Furono uccise dai briganti tre persone; a Melfi invece non vi furono vittime.
Narra Marco Monnier in Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane: « La sommossa non fu, qui [a Melfi] esclusivamente plebea e comunista. Eccitata dai notabili prese un carattere assai diverso e moderato, nacque da una cospirazione e fu frenata dai suoi stessi capi, insomma fu una vera e propria insurrezione ».
E Crocco: « … fui accolto al suono delle musiche da un comitato composto delle persone piú facoltose della città, mentre suonavano a distesa le campane a festa e dai balconi gremiti di persone e parati con arazzi variopinti le donne lanciavano fiori e baci… alla sera del mio ingresso nella città ci furono luminarie, feste, balli e baldorie… ».

Intanto nei paesi infuriava la guerra di classe; appena avvistati i briganti i popolani insorgevano dandosi al saccheggio, i possidenti scappavano verso le zone presidiate dall’esercito piemontese, venivano incendiati il comune, l’ufficio del catasto, la gendarmeria e tutte le sedi del potere statale.
Quando i bersaglieri occuparono i paesi « reazionari » vi tornavano anche i proprietari. Intanto si organizzava il rastrellamento, s’incendiavano i quartieri piú poveri, cominciavano le fucilazioni: si instaurava il terrore insieme al potere di quelli stessi che erano fuggiti (e talvolta degli stessi proprietari sospetti di borbonismo).
L’agosto del 1861 fu un mese di cruente esplosioni di guerriglia e di furore popolare esacerbato dalla carestia. Il 7 agosto si ribellò Pontelandolfo. Durante una processione alla quale partecipava tutto il paese i preti diedero il segnale della rivolta, il municipio fu incendiato, le case dei liberali bruciate, due «galantuomini » uccisi. Si costituí un « nuovo governo » che mandò subito missaggi nei paesi intorno invitando tutti alla rivolta.
Dopo quattro giorni, l’ll agosto, giunsero in paese cinquanta bersaglieri. La folla li assalì, parte di essi si rinchiusero in una vecchia torre per far fronte agli assalitori, ma questi, incuranti delle fucilate, scalarono la torre e massacrarono tutti a colpi di roncola e di pietra. Gli altri bersaglieri, fuggiti verso la campagna, entrarono nell’abitato di Casalduni e furono accolti a fucilate; uno solo scampò alla morte..
Il 13 giunse, a trar vendetta, il 18° bersaglieri; trovò i cadaveri dei commilitoni nelle vie, i paesi semideserti, le donne chiuse nelle case, gli uomini fuggiti nei boschi. I due centri abitati vennero completamente rasi al suolo. Il colonnello comandante il 18° bersaglieri telegrafò a Napoli: « Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni ».
Il giorno dopo il presidio armato di Rionero, rinforzato da altre truppe di tutta la zona, puntava su Toppacivita, nel tentativo di accerchiare e distruggere la banda di Crocco che aveva occupato Ruvo del Monte. Ma il brigante era pronto a reagire: egli aveva fatto costruire delle trincee nelle quali poté resistere, anzi, muovendo
la sua cavalleria sulle ali del fronte di combattimento, minacciò piú volte di accerchiare gli attaccanti.
Per tre volte il presidio piemontese giunse fin sull’orlo delle trincee e per tre volte fu respinto; infine a notte dové ritirarsi su Rionero.
Il giorno dopo nei boschi di Monticchio e Lagopesole si festeggiava vittoria: furono immolati per il pranzo 1.000 polli e 200 pecore.
Ma Crocco sapeva di non poter cantare veramente vittoria. Si rendeva conto di non poter trarre alcuno stabile frutto della situazione se non interveniva un aiuto dall’esterno. Ma un aiuto vero, quello insomma che Francesco II da Gaeta aveva promesso.
Quando quest’ultimo si concretò invece solo nella figura dell’ex cabecilla spagnolo don José Borjés che, sbarcato in Calabria con dodici ufficiali del suo paese, pretendeva in nome del Borbone di prendere il comando di tutte le bande e di guidarle in una specie di marcia insurrezionale sul Mezzogiorno, Crocco resisté; non ne voleva sapere e infine i fatti dimostrarono che aveva ragione.
La marcia iniziale su Potenza fallì, venne l’inverno; Borjés abbandonò Crocco e ripartì – seguito da una ventina di armati – verso il nord per passare nello Stato pontificio e raggiungere a Roma Francesco II. Venne arrestato invece a Tagliacozzo e fucilato con tutti i suoi il pomeriggio dell’8 dicembre del ’61.
Crocco mantenne il ruolo di capobrigante fino al ’64; a batterlo in pratica fu un suo amico, l’ex capobrigante Caruso che il generale Pallavicini aveva liberato dal carcere, nominandolo poi guardiacaccia nel bosco di Monticchio in cambio di mesi e mesi di una feroce caccia agli insorti
Caruso guidava i soldati nei boschi fino alle piú nascoste grotte, teneva delle vere e proprie lezioni di tattica per insegnare ai piemontesi i metodi di lotta briganteschi, faceva vestire i soldati da paesani in modo che avessero dalla loro la sorpresa, faceva scoprire centinaia di « manutengoli » che in lui, Caruso, credevano ancora…
Dirà che lo ha fatto per vendicarsi di Crocco che voleva avvelenarlo; in verità lo ha fatto per trovare col tradimento una via verso la libertà e il benessere. Quella via cui ognuno combattendo agognava.

La storia di Crocco qui accennata non è la storia di tutte le bande, di tutto il brigantaggio; è piuttosto, soprattutto, la storia del brigantaggio in Lucania. Bisognerà aggiungere che nello stesso tempo altre bande dominavano il Casertano e le zone di confine con lo Stato pontificio, il Gargano, la Murgia e la pianura pugliese, l’Appennino calabrese e, dal Vesuvio, fin le porte di Napoli, Portici e Resina.
Per assoggettare il Mezzogiorno, per liberare i grandi proprietari – ormai conquistati al nuovo assetto del paese – dalla minaccia del brigante si dové lottare lunghi anni e giungere a disboscare grandi zone, a distruggere col cannone non solo i villaggi ma le selve stesse. Il destino del contadino meridionale si delineava ormai nell’alternativa indicata da Francesco Saverio Nitti: o brigante o emigrante. Con una piccola aggiunta: che periodicamente le sue braccia e la sua vita venivano utilizzate per le guerre di conquista del neonato colonialismo italiano, fino al fascismo, fino alla sua disfatta. Ma questa è storia di oggi non piú di cento anni fa.
Val la pena di ricordare comunque che alcuni elementi della « vecchia » storia permangono, e innanzitutto il destino del sud di bruciare nell’emigrazione la parte migliore delle sue energie. Altri elementi però sono profondamente mutati a iniziare dai « modi » della lotta contadina, la cui ultima epopea, (a parte alcune espressioni dell’antico furore senza prospettive nei giorni della « liberazione ») è la grande lotta per la occupazione delle terre della fine degli anni ’40.
Proprio negli anni dell’ultimo dopoguerra – mentre l’Italia liberata dal bavaglio della rettorica fascista riprendeva coscienza di sé, della sua storia, dei suoi problemi – un libro per molti aspetti illuminante sulla condizione meridionale – il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi – prospettava anche una teorizzazione del mondo contadino come « civiltà » a se stante, naturalmente estranea e contrapposta allo Stato moderno, alla « storia »: forza che lo Stato poteva solo assoggettare, non vincere né acquisire.
E Levi citava fra l’altro la guerra del brigantaggio come testimonianza di questa « verità ». « Gli Stati, Le Teocrazie, gli Eserciti organizzati – scriveva Levi – sono naturalmente piú forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senza arte, e senza speranza: guerre
infelici e destinate- sempre ad essere perdute; feroci e disperate; e incomprensibili agli storici…. »
E Levi continuava enumerando quattro guerre contadine, a incominciare da quella contro Enea per finire a quella contro i « piemontesi »: « La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come
l’altra Italia. E non aveva déi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un eccesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni ».
E’ questa una verità o un quadro suggestivo che deforma la verità?
A noi pare che non si tratti di verità ma di una teorizzazione che si condanna già nella rappresentata contrapposizione fra « natura » e « storia », come se la guerra contadina non fosse da acquisire essa stessa come lezione della storia.
Innanzitutto sparisce nella teorizzazione di Levi ogni differenzazione interna alle campagne(Notava Mario Alicata in Il meridionalismo non si può fermare a Eboli (sulla rivista Cronache meridionali, n. 9 del 1954): « La rappresentazione è equivoca e si presta agli equivoci, proprio perché essa non è realistica, proprio perché spezza arbitrariamente i legami del Mezzogiorno con il resto del mondo nel tempo e nello spazio, e arbitrariamente cancella le intime contraddizioni, l’intimo processo di sviluppo che anche nel seno della società meridionale c’è stato e c’è») mentre nei fatti gruppi dominanti della campagna e della città trovarono una loro alleanza, cento anni fa, contro i contadini poveri che si battevano soli e non riuscivano a darsi neanche una propria bandiera. Proprio questa esperienza tragica, non accolta come fatalità, divenne poi elemento illuminante della successiva elaborazione di una strategia delle classi subalterne per la conquista dell’egemonia e il rinnovamento del paese.
E la nuova strategia che ha insegnato ai contadini a trovare proprie alleanze nelle città, a riconoscere il proprio avversario ben oltre i disadorni uffici dei catasto comunale, a preferire la lunga azione delle masse alle violente esplosioni di furore, ha insegnato che c’è, insomma, una terza alternativa oltre quelle del vecchio proverbio calabrese: « meglio un anno toro che cento anni bue ».
Comunque una testimonianza su quel lungo « anno » in cui il toro contadino si dibatté nell’arena meridionale riguarda tutti, è una pagina di storia che non si può saltare se non si vuol perdere il senso dei problemi successivi e anche, per tanta parte, dei problemi dell’oggi del nostro paese.
È vero, possiamo ripetere con Rocco Scotellaro:

…nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
l’alba è nuova, è nuova.

Tuttavia…
spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti…

e noi non volgeremo altrove il capo per far finta di non vederle.


Ricerca ed elaborazione del Prof.Renato Rinaldi