Le seconde lettere meridionali di Villari-parte prima

Le lettere del 1875 verranno ripubblicate in Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione meridionale in Italia. Le Monnícr. Firenze 1878, la cui composizione è molto interessante per il “come fare I’Italia” per Villari e per la Questione sociale come Questione meridionale: contiene fra l’altro una lettera a K. Hillebrand dei giugno 1877 su ciò che gli stranieri non osservano in Italia, si include uno scritto dei 1866, susseguente a Custoza e Lissa, dal titolo “Di chi è la colpa?” in cui la colpa delle sconfitte viene fatta risalire all’intero fragile assetto italiano, vi è il saggio sulla scuola del 1872, e vi è una replica a Salandra (il quale fu nel periodo molto attivo tanto su Questione sociale che su Questione meridionale, con posizioni critiche nei confronti di Villari). La panoramica del 1878 viene confermata nella riedizione dei 1885 (con titolo immutato), con l’aggiunta di un saggio su “Il socialismo in Italia” già apparso in Rassegna settimanale di Franchetti-Sonnino del 30 giugno 1878.

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PREFAZIONE.
Gli scritti che raccolgo in questo volume, versano tutti, più o meno, intorno allo stesso argomento. Io non mi sono mai potuto persuadere che in un paese libero, che trae come il nostro la sua ricchezza e la sua vita economica principalmente dai prodotti del suolo, le moltitudini, e più di tutte quelle che sono date all’agricoltura, debbano restare nella misera e dura condizione, in cui le lasciarono i passati Governi. Ingiustissimo mi parve sempre, che coloro i quali lavorano più di tutti, e che sono i produttori della pubblica fortuna, debbano così spesso trovarsi senza mezzo di sostentare la vita. E quando sento da molte parti persone autorevoli, esperte, imparziali, ripetere, che il nuovo ordinamento politico d’Italia non migliorò le condizioni di questa gente, e qualche volta anche le peggiorò, sono indotto a domandarmi: una libertà fondata in questo modo può dirsi che riposi sopra una base sicura?
Che l’edilizio da noi costruito fosse molto più debole di quel che credevamo, apparve assai chiaro nella guerra del 1866. E fu allora che io cominciai a studiare l’arduo problema. Dipoi mi convinsi sempre più, che noi avevamo pensata meno a coloro, cui dovevamo pensare di più.
Io non intendo le paure di alcuni, i quali disapprovano che di ciò si parli, dicendo che così si solleva lo spettro del Socialismo. Questo è di certo la più pericolosa malattia delle società moderne, delle quali sembra qualche volta voler minacciare resistenza. Ma si guarisce forse col chiudere gli occhi e non parlarne? Qual paese, da qual pericolo si è mai salvato con un tal metodo di cura? Credere da un altro lato che noi soli potremo per sempre esimerci dai doveri imposti agli altri popoli, dai sacrifizii che essi hanno fatto e fanno a vantaggio delle moltitudini, non per solo sentimento di giustizia, ma per rendere più sicura la loro libertà, è certo una pericolosa illusione. Obbligare il contadino ed il proletario alla scuola, insegnar loro a leggere libri e giornali, insegnar loro i doveri e i diritti dell’uomo, chiamarli nell’esercito, dove imparano col rispetto degli altri quello della dignità propria, per farli tornar poi ad una vita che spesso è simile alla vita di schiavi, e credere che così non si apparecchiano pericoli per l’avvenire, significa, mi sembra, rinnegare la Storia, l’esperienza e la ragione.
Sono convinto che la guida e il governo della presente società italiana spettino alla borghesia;
ma perché questo dominio resti nelle sue mani senza pericoli e senza troppe sofferenze pel paese, bisogna che essa lo fondi sulla forza materiale e morale, sulla sua cultura e sulla sua giustizia. Deve quindi persuadersi, che una società libera non può riposare sicura sulla base apparecchiata dai passati Governi, i quali alimentarono l’antagonismo e l’odio delle classi sociali, perché solo su di esso potevano fondare il loro dispotismo.
Per queste ragioni pubblicai in diversi tempi gli scritti che ripubblico ora in un volume.
Aggiungo qualche Discorso politico, solo perché si veda che, senza trascendere e senza mai abbandonarmi a vane o pericolose illusioni, dentro e fuori della Camera sostenni, quando potei, le medesime idee.
Firenze, giugno 1878.
P. VILLARI

LETTERE MERIDIONALI
AL DIRETTORE DELL’OPINIONE.
(Marzo 1875.)

I.
LA CAMORRA
Mio caro Dina,
Negli scorsi mesi raccolsi alcune notizie intorno allo stato delle classi più povere, specialmente nelle province meridionali. Se a te non pare inutile affatto, ti pregherei di concedermi che le pubblichi nel tuo giornale, tanto pregiato in Italia. Debbo però dire, innanzi tutto, che nel raccogliere queste notizie io ho avuto lo scopo di provare che la camorra, il brigantaggio, la mafia sono la conseguenza logica, naturale, necessaria di un certo stato sociale, senza modificare il quale è inutile sperare di poter distruggere quei mali. So che molti lo ammettono, ma pochi se ne formano un concetto chiaro. Sono ben lontano dallo sperare di potere, con alcune lettere, risolvere problemi d’una sì grande importanza e difficoltà. Credo però che anche pochi fatti ed esempi possano spronare ad altre nuove ricerche.
A che gioveranno queste ricerche? Sarà sperabile portare qualche rimedio ai mali? Lo vedremo in appresso. Intanto, per cominciare dalla camorra, noterò che la legge di sicurezza pubblica suppone che il camorrista non faccia altro che guadagnare indebitamente sul lavoro altrui. Invece esso minaccia ed intimidisce, né sempre per solo guadagno: impone tasse; prende V altrui senza pagare; ma ancora impone ad altri il commetter delitti; ne commette egli stesso, obbligando altri a dichiararsene autore; protegge i colpevoli contro la giustizia; esercita il suo mestiere, se così può chiamarsi, su tutto: nelle vie, nelle case, nei ridotti, sul lavoro, sui delitti, sul gioco. L’organizzazione più perfetta della camorra trovasi nelle carceri, dove il camorrista regna. E così, spesso si crede di punirlo, quando gli si dà solo il modo di continuare meglio l’opera sua. Ma quello ancora che la legge non sembra sospettare, e che molti ignorano, si è che la camorra non si esercita solo negli ordini inferiori della società: vi sono anche camorristi in guanti bianchi ed abito nero, i cui nomi e i cui delitti da molti pubblicamente si ripetono. Le forme che la camorra piglia nei diversi luoghi e fra le diverse persone che la esercitano, sono infinitamente varie.
Non è lungo tempo io scrissi ad un vice-sindaco di Napoli, amante del suo paese, antico liberale, patriotta provato: — Mi dici qualche cosa della camorra?
Ma essa avanti o indietro; comincia ad essere davvero estirpata? — Egli mi fece una risposta che non riferisco tutta, perché a molti parrebbe una dipintura esagerata dei fatti. Copio solo la conclusione della lettera.
«Moltissime ordinanze municipali non possono qui attecchire, se non convengono agli interessi della camorra. Napoli comincia a ripulirsi dacché la camorra con i suoi appaltatori ne trae guadagno. Ed io, come vice-sindaco di, ho potuto obbligare 1157 proprietarii a restaurare ed imbiancare le loro case e le ville, Per ville molti intendono a Napoli i giardini che circondano o sono accanto alle ville. che sono cinte di mura, dacché, senza che lo sapessi, la camorra locale ha diretto, di comune accordo col mio «usciere, l’operazione».
Questo stato di cose fa paura, spaventa sempre più, quando si esamina più da vicino, e se ne vede tutta l’estensione.
Perché la camorra divenga possibile, occorre che vi sia un certo numero di cittadini, o anche una classe intera, che si pieghi alle minacce di pochi o di molti, che siano organizzati. Una volta che questo fatto, per qualche tempo, si avvera in proporzioni abbastanza larghe, riesce facile assai capire in che modo la malattia si estenda a poco a poco e quali forme diverse, secondo che penetra nei diversi ordini della società. Il male è contagioso come il bene, e l’oppressione, specialmente quella esercitata dalla camorra, corrompe l’oppresso e l’oppressore, e corrompe ancora chi resta lungamente spettatore di questo stato di cose, senza reagire con tutte le sue forze. Perciò importa conoscere dove questa oppressione comincia e si può esercitare più impunemente, perché ivi è la prima radice del male, dalla quale tutto il resto deriva, perché ivi, se è possibile, bisogna portare il rimedio.
La città di Napoli è, fra molte, quella in cui la bassa plebe si trova, non voglio dire nella maggiore miseria, perché ciò non è il peggio; ma nel più grande abbandono, nel maggiore avvilimento, nel maggiore avvilimento, nel più doloroso abbrutimento. Contro di essa tutto era permesso sotto il regime borbonico. Il galantuomo poteva, senza temer nulla, quando era di giorno e nella pubblica via, usare il suo bastone, perché la polizia pigliava in queste occasioni sempre le sue parti. Le limosino date a larga mano dai privati, dai conventi che distribuivano la minestra, dalle Opere pie, anche dal Governo che distribuiva pane, alimentavano la miseria e la rendevano permanente. La camorra così nasceva naturalmente in mezzo a questi uomini; era il loro governo naturale, ed era perciò favorita, sostenuta dai Borboni, come un mezzo di ordine. Qui il camorrista atterriva, minacciava e regnava. Qui egli prendeva i giovanetti di 14 o 15 anni per insegnar loro a rubare il fazzoletto, che restava a lui, dando in cambio, e come per favore, qualche soldo; qui egli poteva fare degli uomini e delle donne quello che voleva. E come spesso faceva con le sue anche le altrui vendette, cosi qualche volta non solo incuteva terrore, ma ispirava ammirazione ed affetto in quegli stessi che opprimeva. Cominciata la malattia, si potè subito diffondere. Una volta che questo spettacolo non disgustò più, l’oppressione e la violenza non parvero un delitto, e le esercitarono molti che in altre condizioni sociali avrebbero trovato nella loro coscienza un ostacolo invincibile.
Per comprendere la verità di quello che dico, e per poter ragionare in buona fede su questi fatti, occorrerebbe prima di tutto andare a vedere coi proprii occhi dove e come vivono le più povere famiglie.
Si tratta di una popolazione enorme, che si divide in categorie diverse, ciascuna delle quali ha caratteri, costumi, sventure proprie. Cito degli esempi, ed il lettore non si stanchi se, pure avendo io stesso veduto molti fatti, riferisco le parole di alcuni che andarono espressamente a visitare i poveri.
Nello scorso dicembre pregai un architetto, stato più volte adoperato dal Municipio di Napoli, perché mi dicesse qualche cosa di quelli che si chiamano fondaci, nei quali abita la più misera gente, e che sono disprezzati anche dalle donne stesse del popolo. Per ingiuriarsi fra loro, l’una chiama l’altra funnachéra (abitante dei fondaci).
«Questi fondaci (dice la lettera) hanno generalmente un androne, senza uscio di strada, ed un piccolo cortiletto, ambedue sudicissimi, i quali mettono in una grandissima quantità di pessime abitazioni, molto al di sotto degli stessi canili, le quali tutte, e specialmente quelle in terreno, sono prive di aria, di luce, ed umidissime. In essi vi sono ammonticchiate parecchie migliaia di persone, talmente avvilite dalla miseria, che somigliano più a bruti che ad uomini. In quei covi, nei quali non si può entrare per il puzzo che tramandano immondizie ammassate da tempi immemorabili, si vede spesso solamente un mucchio di paglia, destinata a far dormire un’intera famiglia, maschi e femmine, tutti uniti. Di cessi non se ne parla, perché a ciò bastano le strade vicine o i cortili.
Solamente in due o tre fondaci, dei molti visitati da me, le donne esercitano la miserabile arte di fare stuoie o impagliare sedie, negli altri tutti non si vede nessuno a lavorare, ma solo spettri seminudi ed oziosi.
A me accadde d’incontrare in parecchi fondaci donne che vagavano per i cortili,con la sola camicia indosso che pur veniva giù a brani. Infine la più terribile miseria trova ricetto in questi fabbricati, dove non manca mai qualcuna delle più abbiette e luride case di prostituzione.
«Nella nostra città sono n° 94 fondaci, come potrai vedere dall’elenco che t’accludo; sicché, calcolando che ognuno sia abitato da n° 100 persone) (e con questo numero mi metto al disotto del vero), sarebbero circa 9400 questi esseri infelici.» I peggiori fra questi fondaci sono quelli che si trovano nei quartieri di Pendino, Porto e Mercato, 51 in tutto. Gli altri sono migliori, ma di poco. Ognuno di essi ha il suo nome: Bar rel’tari, Tentella, S. Crispino, Scannasorci, Divino Amore, Presepe, Pisciavino, Del Pozzillo, Abate, Crocefisso, Degli Schiavi, ecc. L’ultimo parmi il nome più adatto.
Il lettore ha mai sentito parlare degli Spagari di Napoli e delle grotte in cui abitavano? Questa gente forma una classe numerosa, non chiede la limosina, lavora, ha un mestiere. Nel tempo del colèra, pochi anni sono, furono chiuse quelle luride tane che erano loro unica dimora. Tuttavia, mesi sono, pregai una persona amica di ancore colà dov’erano una volta le grotte, e vedere; trovandole ancora chiuse, cercasse dove abitano ora gli Spagari e li visitasse. Riferisco qui due delle lettere ricevute. Sono dello scorso novembre.
«Ieri trovai una delle cosi dette grotte degli Spagari, la più parte essendo ormai chiuse.
Essa sia in sul principio delle Rampe di Brancaccio, quandosi discende. Il suo ingresso non annunzia l’orrore che vi si trova. Somiglia alle catacombe di S. Gennaro, se non che è assai più lurida e meschina. Vi si cammina coi lume, e solo di tanto in tanto, ma assai di rado, vi sono delle aperture, balconcini o finestre, che mettono, due nei giardini di Francavilla, altre in umide corti.
Tutta questa grotta è gremita di letti, l’uno dall’altro poco più discosti di quel che sono nelle sale dell’ospedale degl’Incurabili. Ad eccezione di qualcuno, sono tutti letti assai grandi, da contenere più persone. Sarebbe impossibile descriverne il sudiciume e la povertà. Una perfetta armonia è tra quei luridi canili, l’orribile grotta e gli abbrutiti abitanti, e tutti insieme sembrano formare un mondo a parte, che non possa andare altrimenti da quello che va. Negli abitanti v’è una certa gerarchia. Accanto alle poche finestre, là dove arriva qualche raggio di luce, si trova un poco meno di miseria; dove però non arriva la luce, ivi chi si avanza col lume, vede una miseria indescrivibile. Ed è singolare come anche qui, quelli che stanno meglio compatiscano e quasi disprezzino quelli che stanno peggio.
Vivono in questo luogo 25 famiglie e sono circa 100 persone. Il sudiciume è tale, che una conca col bucato che vi trovai, mi rallegrò in modo che mi parve un’oasi nel deserto. Vicino alle finestre si paga sino a 10 lire il mese, dove manca la luce si discende fino a 25 soldi.
Hanno l’aria, più che di gente infelice, di gente abbrutita. Quando fa beltempo escono a guisa di formiche e si spandono al sole.
Tutta questa gente mi piativa attorno, domandando misericordia, e dicendo che erano obbligati a restar li senza luce, senz’aria, senza medici. Quando sono ammalati, essi dicono, restano abbandonati fino a che muoiono o vanno all’ospedale. La persona che subaffitta questo locale, e vi fa su un buonissimo guadagno, si è persino ricusata di fare le necessarie riparazioni; e cosi non di rado la pioggia inonda la grotta.»
Aggiungo una seconda lettera della stessa persona.
«Andai in un altro luogo, che è una vòlta al disotto del Corso Vittorio Emanuele, con mura chela chiudono dai lati, e formano cosi uno strano ricovero. Ivi erano molti a lavorare Io spago, la più parte giovani figlie di capi spagari, le quali però non vi dormivano. Una grande e commoventissima miseria mi colpi allora sino al fondo dell’anima. Una povera vedova di poco più che 30 anni, di un aspetto che la dimostrava essere stata bella, aveva cinque bambini, un giovanetto di 12 anni, e quattro bimbe, l’ultima delle quali di 3 anni appena: tutti assai belli. Erano stati una volta agiati, perché figli d’un operaio che guadagnava bene, ma che era morto sollevando alcuni pesi troppo gravi alle sue forze. La donna che nella sua infanzia aveva fatto la spagara, è tornata all’antico mestiere, col quale guadagna dieci soldi per giorno, tranne quando pel gran freddo non potendo muovere le mani irrigidite, non riesce a fare quel tanto che deve.
I bambini girano le ruote per le altre donne, e guadagnano ciascuno un soldo, col quale comprano castagne secche, e così si man tengono fino a sera, quando, venendo pagati i dieci soldi della madre, mangiano tutti qualche altra cosa.» Dormono in un angolo di questo locale sopra alcune foglie secche. Non hanno neppur l’idea d’una coperta o d’un panno per ricoprirsi. La notte si mettono tutti rannicchiati, l’uno sull’altro, e tremano dal freddo: non hanno lume. La donna mi mostrò i cenci che li ricoprivano, in molti punti rosi dai topi piccoli e grossi, che nel colmo della notte camminano sui loro corpi. Allora i bambini, spaventati, gridano e piangono. Ed essa, battendo con una pie tra al muro, cerca con quel rumore di spaventare ed allontanare i topi che non vede. Quella donna deve essere onesta e buona, perché il pensiero che più di tutti la turbava era la riuscita dei figli. Essa teme che il primo, il quale ha già 12 anni, ed è molto vivo, possa presto divenire un cattivo soggetto.
Se è vero quel che dice il Quetelet, che assai spesso è la società quella che mette il coltello in mano al colpevole, e se questo giovanetto divenisse un giorno assassino, non avrebbe egli il diritto di dire alla società: Io ho ammazzato un uomo; ma tu avevi già prima ammazzato la mia coscienza?
Potrei continuare questa descrizione sino all’infinito, ed aggiungere lettere a lettere, fatti a fatti, sempre varii, sempre brutali, sempre orribili. Ma non voglio stancare la pazienza del lettore.
Su questa povera gente tutti abusano. Il tugurio in cui abitano, le misere ruote con cui lavorano lo spago, la canapa di cui si servono, nulla appartiene ad essi; per ogni cosa debbono pagare, e pagare ad uomini che gli opprimono, li tormentano, non hanno di loro alcuna pietà, e vivono gualdagnando sulla loro abbrutita miseria. Basta avvicinarsi a questi luoghi, per essere circondati da una folla che chiede l’elemosina, e senza essere interrogata racconta la varia Iliade delle sue miserie. Qui bisogna venire a studiare, per convincersi che la camorra comincia a nascere, non come uno stato anormale di cose, ma come il solo stato normale e possibile. Supponendo domani imprigionati tutti i camorristi, la camorra sarebbe ricostituita la sera, perché nessuno l’ha mai creata, ed essa nasce come forma naturale di questa società. Intanto qui si recluta la popolazione enorme dei piccoli ladri, che se rubano, rubano a vantaggio dei loro capi; e quando vanno a centinaia nelle prigioni, costituiscono anche là il popolo della camorra, perché ivi essa ha pure i suoi sovrani, le sue assemblee e la sua gerarchia, non meno potenti, non meno audaci che fuori. Il guadagno del camorrista si fa allora sulle fave nere, sul pane nero di cui il carcerato povero deve rilasciare una parte; colui che ha dei soldi rilascia tutto, per comprare dalla camorra qualche cosa di meglio, spesso ancora per ricomprare quello che ha venduto.
Ma a che prò, mi si può dire, questa lunga geremiata? Si sa che la miseria c’è, e che è orribile. C’è stata e ci sarà sempre dappertutto insieme coi delitti.
Lo so anch’io che vi sono uomini, ai quali se si mostra una moltitudine che affoga nella miseria, nella fame e nella corruzione, hanno sempre la stessa risposta: «Bisogna aver fede nella libertà. IL SECOLO, IL PROGRESSO, I LUMI! Con questa gente io non so, né ho voglia di ragionare. A loro non saprei dire che. una cosa sola:—Spegnete i vostri lumi e andate a letto. Contentatevi di sentire ogni giorno ripetere dagl’Inglesi e dai Tedeschi, che i popoli latini conoscono la forma e non la sostanza della libertà; perché non hanno mai voluto capire che popolo libero è quello solamente, in cui i potenti e i ricchi fanno un perenne sacrifizio di loro stessi ai poveri ed ai deboli. E non vogliono capire che una plebe misera e corrotta corrompe tutta la società; sicché è nel loro interesse, in quello delia moralità propria e dei proprii figli, combattere questo male con tutta l’energia possibile. —
Io parlo invece a coloro che, senza illusioni, credono utile e necessario studiare il male per cercarne i rimedii. E questi, certo, sono molti, complessi, difficili. Accennerò a qualcuno di quelli che mi sembrano più evidenti, e comincerò dal più difficile di tutti, quello che richiede maggior tempo e danaro. A Napoli vi è una quistione colossale, che nasce dalla costruzione stessa della città. Questa condizione di cose peggiorò molto dal tempo in cui, invece di fare, come pel passato, scorrere le acque che piovono, a rigagnoli o a fiumi per le strade, si costruirono assai malamente le fogne, nelle quali, per mancanza di pozzi neri, va ogni cosa. Le materie restano ora, quando non piove, ferme, e le loro esalazioni miasmatiche si sentono per le vie, entrano pei condotti nelle case.
Quando invece viene la pioggia, sono portate al mare, che bagna le rive più incantevoli e più popolose della città: ivi in tempo di calma si fermano, e lo scirocco rimanda indietro i miasmi. Il rimedio è difficile, perché manca l’acqua, ed in molti luoghi il livello delle strade è uguale a quello del mare. Intanto le febbri intermittenti fanno strage nella misera popolazione. Le Guide inglesi e tedesche hanno sempre un capitolo sulla febbre napoletana, di cui nei tempi passati non parlavano punto. Gli alberghi abbandonano la marina e salgono sulla collina. Si aggiunga a questo, che la mancanza di spazio costringe la povera gente a vivere accatastata in tugurii spaventevoli; onde in nessun paese della terra si vedono più chiare le terribili conseguenze della teoria del Malthus. Qui anche la parte meno misera del popolo abita nei bassi, i quali non solamente sono senza aria e senza luce, ma son tali che spesso per entrarvi si discendono alcuni scalini, onde la malsana umidità. S’aggiunga che questi bassi si continuano a costruire anche oggi nel medesimo modo; e si capirà come il primo e più difficile problema riguardi l’igiene generale della città, la costruzione delle case pei poveri, pei quali dal 59 ad oggi non si è fatto nulla. Si pensi che molti dei più miseri vivevano e vivono accattando, ricevendo sussidii, quando non fanno di peggio. Queste limosine e sussidii sono ora scemati, perché un governo libero non può distribuire il pane, e perché le Corporazioni religiose furono sciolte. Si consideri che il prezzo dei viveri e delle case è cresciuto, mentre l’aumento della mano d’opera non giova a chi non aveva e non ha mestiere;
e si dica poi se rimedia al male la scuola elementare, a cui del resto questa gente non va e non può andare. La sua condizione certo non è migliorala, forse è peggiorata. Di ciò io sono più che convinto da quel che ho visto coi miei occhi.
In questo stato di cose, i rimedii principali e più facili sono due. Estirpare la camorra, la quale deve essere riguardata come una piaga sociale assai più profonda di quel che ora si suppone. Per riuscirvi bisogna prima studiarla e conoscerla bene, bisogna poi che la legge la determini meglio, e renda possibile il colpirla in tutte le sue forme. I colpi dovrebbero essere più fieri, più inesorabili contro coloro che non sono popolo, e pur la esercitano e ne partecipano. Il camorrista dovrebbe nella prigione essere isolato, o mandato nelle carceri dell’Italia settentrionale, altrimenti la prigionia, se non è un premio, non è certo una pena. Da alcuni mesi il governo è entrato in questa via di rigore, che aveva, secondo me, a torto abbandonata per lungo tempo. Bisognerebbe che questo rigore fosse permanente, che continuasse nella prigione, e avesse, per quanto è possibile, l’aiuto di una legge di pubblica sicurezza con qualche articolo aggiunto a quel troppo semplice articolo 120, il quale si contenta di mettere fra le persone sospette coloro che «esigono danaro abitualmente ed illecitamente sugli altrui guadagni. i E in ciò sembra credere di aver compresa tutta la camorra.
Ogni sforzo sarà però vano, se nel tempo stesso in cui si cerca di estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoprano efficacemente i mezzi preventivi.
Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finché dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritta. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte. Quella plebe infelice, che con leggi repressive noi a poco a poco liberiamo dai suoi oppressori, deve essere con leggi preventive spinta, costretta al lavoro. Non bisogna contentarsi d’aiutarla con quelle infinite limosine che sono spesso una piaga, perché alimentano l’ozio e il vagabondaggio. Non bisogna credere e ripetere che a tutto rimedia la scuola elementare, la quale in questi casi non rimedia a nulla. Si guardi un poco a quello che avviene naturalmente, quando si trovano colà uomini veramente pietosi e benemeriti, che conoscono i mali del loro popolo. Alfonso Casanova, che da poco abbiamo perduto, fu giustamente amato come un santo. La sua Opera pei fanciulli usciti dagli Asili era fondata collo scopo di cercare i piccoli vagabondi, ed insegnar loro con l’alfabeto un mestiere. Tutti riconobbero che quello era il bisogno vero del paese, tutti l’aiutarono e l’amarono, quasi lo adorarono. Altri tentarono e tentano la medesima impresa con uguale fortuna, perché la carità cittadina non è mancata mai colà. E se il Governo vuol davvero operare, deve imitare questi esempi suggeriti dalla natura stessa delle cose. Come la camorra è un male che sorge spontaneo, e però tanto più profondo, in un certo stato sociale; così questi tentativi sono lo sforzo generoso e spontaneo della società stessa per redimersi. Bisogna combattere la prima, aiutare il secondo. Il Governo deve prendere le cose come sono, entrare nella via suggerita dall’esperienza della gente onesta del paese, e lasciar da un lato le teorie.
E il danaro non manca, se una volta si vorrà ammettere che le infinite Opere pie elemosiniere, le quali cosi spesso sono più una causa che un rimedio alla miseria, debbano tutte essere trasformate in modo da ottenere il loro scopo con la previdenza, dando col pane, e come condizione sine qua non, l’insegnamento e l’obbligo del lavoro.
E perché si veda quanto questo male sia generale non paia che io voglia prendere tutti gli esempi dal Mezzogiorno d’Italia, ne citerò uno del Settentrione. Nella Rivista Veneta (voi. IV, fase. 5°, 1874) è stato poco fa pubblicato dal professore Cecchetti dell’Archivio dei Frari, un lavoro in cui si dànno alcune statistiche assai eloquenti. Dal 1766 al 1789 si trova che Venezia ebbe una media di 2000 poveri. Le cose sono da allora in poi talmente peggiorate, che nel 1860 erano nei registri di beneficenza inscritti 31, 891 individui in una popolazione di 123, 102 abitanti. Nel 1861 la popolazione discese a 122,564, e gì’ inscritti alla beneficenza salirono a 32,422. Nel 1867 la popolazione discese a 120,889 e nel catalogo della beneficenza erano registrati 33,978 individui. Questi erano nel 1869, 35,000; nei 1870, 35,728; nel 1871, 36,200. E qui finisce la statistica, non senza notare che bisogna, per l’anno 1871, aggiungere circa 700 poveri vergognosi, i quali rappresentano altrettante famiglie. È vero che negli ultimi anni la popolazione di Venezia ebbe qualche lieve aumento, essendo nel 1871 salita a 128,901 abitanti; ma in sostanza dai calcoli ufficiali del signor Cecchetti risulta un continuo aumento di poveri,
e risulta che un terzo circa della popolazione di Venezia è ora sussidiato dalla beneficenza, o almeno scritto ne’ registri come meritevole di sussidio. Ho sentito molti e molti domandare: Perché lo spirito intraprendente, operoso, audace qualche volta sino all’eroismo, degli antichi Veneti, non è ancora cominciato a risorgere colla libertà? Le ragioni sono infinite. Però tra le ragioni, a mio avviso, non è ultima questa, che la carità cittadina ha accumulati infiniti tesori, i quali sono ora destinati ad impedire che quello spirito risorga.
Dopo ciò l’eterna risposta deve essere sempre: Vedremo, provvederemo, faremo? Cioè, lasceremo fare, lasceremo passare? Intanto la stampa straniera ci domanda: — Quando l’Italia sarà finalmente civile? — E se questo è quello che segue a Venezia, che cosa deve seguire a Napoli, città tanto più grande, tanto più malmenata! Lo dica l’esercito sterminato di poveri che vive senza lavoro. Qualcuno darà loro da mangiare, se di fame non muoiono. Si, è la carità, ma una carità che uccide, che demoralizza, che abbrutisce.
E voi, mi si dirà, avete la ingenuità di credere che in questo modo rimedierete a mali cosi gravi e profondi? Non vedete che ci vuole un secolo? Si, lo vedo, ma vedo ancora che se cominceremo domani, ci vorrà un secolo ed un giorno.
E per ora vedo ancora che, quando torno a Napoli, il mondo è mutato per me e per i miei amici. La parola è libera, la stampa è libera, molte vie si sono aperte dinanzi a me. La differenza è come dalla notte al giorno; se dovessi tornare al passato mi parrebbe di scendere nella tomba.
Abbandono le strade centrali, vado nei quartieri bassi, e ritrovo le cose come le lasciarono i Borboni. I fondaci Scannasorci, Tentella, San Crispino, Pisciavino, Del Pozzillo, ec., sono là sempre gli stessi, coi medesimi infelici, forse ancora più oppressi, più affamati di prima. Tutta la differenza, se mai, sta in ciò, che il muro esterno fu imbiancato. E sono allora tentato di domandare a me stesso: Ahi! dunque la libertà che tu volevi era una libertà per tuo uso e consumo solamente?
Tuo affezz.  P. VILLARI.

II.
LA MAFIA
Mio caro Dina,
In questa lettera comincerò a ragionare dei mali che affliggono la Sicilia. La cosa è molto più ardua per me, che conosco assai poco il paese. Ed è più ardua in se stessa, perché le opinioni su questo argomento, anche tra coloro che nacquero e vissero nell’Isola, sono disparatissime. Io andrò quindi assai cauto. Metterò sotto gli occhi dei lettore i fatti che potei raccogliere, esporrò le conclusioni a cui sono venuto, e il modo, il processo logico con cui v’arrivai. Il lettore potrà da sé fare le sue osservazioni, e giudicare le mie.
Prima di tutto, voglio notare che ogni anno a me accade di ricevere lettere di giovani professori, i quali, invitati dal Governo ad andare in qualche liceo o ginnasio della Sicilia, mi chiedono ansiosamente, in nome loro e delle famiglie, notizia dei paesi cui sono destinati. Io mi rivolgo allora a qualche Siciliano amico, e domando. Sono stato molte volte maravigliato nel ricevere una risposta, che sembra esprimere come un giudizio. popolare.
Se io chiedevo di paesi delle province di Catania o di Siracusa, quasi sempre la risposta era: — Paesi buonissimi, si sta come in Toscana, si può andare coll’oro in mano. — Se invece chiedevo di paesi della Sicilia occidentale, specialmente delle province di Girgenti e di Caltanisetta, la risposta era spesso: —Eh! paesi di soliare, bisogna stare attenti. — Ora è noto che la Sicilia è travagliata da quelle piaghe sociali, di cui tanto si parla adesso, principalmente nella sua parte occidentale. Qui appunto, non occupandoci per ora di Palermo che dà luogo ad altre considerazioni, è il centro delle solfare, che, dopo 1 agricoltura, sono la più grande e ricca industria di quell’isola, industria che occupa molte decine di migliaia di lavoranti d’ogni sesso ed età. Ed è noto che il lavoro delle solfare è fatto in un modo che assai spesso si può dire iniquo. Non solamente non si pigliano tutti i necessarii provvedimenti a salvare la vita degli operai, che qualche volta restano soffocati dai gas che n’emanano, ed anche si accendono; sepolti sotto le vòlte che cadono, perché male co struite, o perché l’intraprenditore ha fatto assottigliare i pilastri, per cavarne altro minerale: ma segue di peggio ancora. La creatura umana è sottoposta ad un lavoro che, descritto [ogni giorno, sembra ogni giorno più crudele e quasi impossibile. Centinaia e centinaia di fanciulli e fanciulle scendono per ripide scarpe o disagevoli scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare sa a schiena, col pericolo, sdrucciolando su quel terreno ripido e mal fido, di andar giù e perder la vita.
Quelli di maggiore età vengono su, mandando grida strazianti; i fanciulli arrivano piangendo. È noto a tutti, è stato mille volte ripetuto che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente. Molti ne muoiono, moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta la vita. Le statistiche lo provarono ad esuberanza, la leva militare ha dato un numero spaventoso di riformati, l’inchiesta industriale ha raccolto tutte le notizie che si possono desiderare. E cosa che mette terrore. Il Congresso di Milano, l’onorevole Di Cesarò, l’onorevole Luzzalti ed altri levarono un grido generoso di protesta e di dolore contro queste enormità, le quali sono tanto più gravi, in quanto colla salute si distrugge la moralità di quelle popolazioni. Gli organismi deboli rimangono distrutti, i forti sopravvivono per comandare, tiranneggiare, opprimere fanciulli e fanciulle accatastati in quegli oscuri androni, dove ogni cosa può succedere. L’uoma si abbrutisce, si demoralizza e diviene facilmente un nemico della società che lo tratta cosi spietatamente.
Abbiamo qui dunque una prima sorgente del male. Si vede cogli occhi, si tocca con mano in che modo la moralità di certe classi sociali venga distrutta. Segue in Sicilia quello che era cominciato a seguire in tutti i paesi di miniere, con qualche differenza però. Altrove si pensò subito a porvi rimedio con leggi, che proteggono l’operaio e specialmente il fanciullo, il quale non deve lavorare oltre un certo numero di ore, non deve essere sottoposto a lavori che lo ammazzano o lo demoralizzano. La vita e la moralità dell’operaio furono efficacemente protette; il male fu fermato nel suo cammino.
Dal 1859 fino ad oggi a noi è invece mancato il coraggio, la previdenza necessaria a fare la legge che tanti avevano già fatta. Essa si discute ora negli Ufficii, e, come è naturale, tutti l’approvano. Ci sarà però il tempo d’approvarla e discuterla anche in Parlamento, in questa Sessione Fino ad oggi non e’ è stato. 0 sarà la Camera troppo occupata, troppo stanca, troppo sopraffatta? E, approvata una volta questa legge, avrà il Governo la ferma volontà di farla eseguire? Si leverà certo nelle miniere un grido di protesta, e sarà invocato il sacro nome della libertà violata. Gli operai picconieri grideranno che col proibire il lavoro dei fanciulli sarà diminuito il guadagno degli adulti. Le madri grideranno che s’impedisce ai loro figli di guadagnarsi un pane, e che cosi essi morranno di fame. I gabellotti o appaltatori strepiteranno che si mandano in rovina le loro industrie; che è ingiustizia senza nome l’obbligarli a condurre i lavori, scavare le vòlte, ecc. in un modo piuttosto che in un altro. E i sacri adoratori delle armonie economiche grideranno che tutto è compenso: il male che si voleva impedire da un lato, si produrrà da un altro, e intanto la libertà, che sola poteva rimediare a tutto, è stata violata. Ma quale libertà? Quella che dà al picconiere il diritto di ammazzare o demoralizzare i fanciulli, per guadagnare qualche scudo di più? Sono queste le armonie desiderate?
Ma come, diranno forse allora gli uomini pratici, volete voi governare con tutto il paese contro di voi? In verità mi pare che se abbiamo saputo, quando è stato inevitabile, imporre la leva ed il macinato colla forza, dovremmo saper fare e far rispettare le leggi, certo non meno sacre, che proteggono i deboli e la pubblica moralità. Altrimenti è inutile domandare: perché seguono tanti delitti, perché non c’è sicurezza pubblica? Anche questa è un’armonia fra causa ed effetto. E se da un lato noi dobbiamo, per necessità inesorabile delle nostre finanze, mantenere il lotto che corrompe il popolo, e da un altro lasciare che altri l’opprima e lo corrompa, che cosa sarà di esso e di noi? Il giorno in cui l’Italia si dichiarasse impotente a rispettare ed a far rispettare le leggi più elementari della giustizia, essa avrebbe pronunziata la propria condanna di morte; avrebbe in faccia all’umanità confessato che non ha il diritto di esistere. Che importerebbe infatti all’umanità che ci sia un’Italia unita e libera piuttosto che divisa ed oppressa, se la nostra libertà dichiarasse che, per esistere, deve permettere che i sacri diritti dei deboli vengano ogni giorno violati?
La quistione siciliana si presenta in tutta la sua spaventosa gravità nella provincia di Palermo, dove uno stato sociale, che ancora non si conosce abbastanza, produce non la camorra, ma la mafia. Questa è stata studiata e descritta con molti particolari, prima dal barone Turrisi-Colonna, poi dall’onorevole Tommasi-Crudeli e da altri in opuscoli importanti, nei quali sono esaminati anco i diversi elementi storici che contribuirono a generare ed accrescere il male.
Sarebbe inutile venire qui a ripetere ciò che essi hanno già detto. E del resto non è il sapere quel che fa la mafia e come lo fa, e neppure il conoscere quali sono gli elementi ad essa estranei, che la promuovono e le aumentano vigore, ciò che a noi più importa. Son cose in gran parte già note.
Questa mafia non ha statuti scritti, non è una società segreta; si potrebbe quasi dire che non è una associazione; è una camorra d’un genere particolare; s’è formata per generazione spontanea. A noi importa sapere come e perché nasce e si mantiene così vigorosa, e più audace assai che la camorra. La mafia guadagna, si vendica, ammazza, riesce persino a produrre sommosse popolari. Chi comanda e chi obbedisce, chi sono gli oppressi e chi sono gli oppressori?
È difficile farsi un’idea degli ostacoli che si ritrovano, quando si vuol ricevere o dare una risposta precisa a queste domande. Ognuno ha un’opinione o un’idea diversa. Ho letto un gran numero di libri ed opuscoli, ho interrogato molti Siciliani e molti stranieri residenti nell’Isola da lungo tempo: la varietà delle opinioni cresceva ogni giorno. Un Inglese da parecchi anni residente in Palermo mi scriveva ripetutamente che, senza provvedimenti eccezionali, era ridicolo pensare di poter ristabilire la pubblica sicurezza. Interrogato però da me sopra varie questioni, egli, uomo dotto, intelligente, molto pratico di affari, rispondeva schietto di non essere in grado di darmi alcuna cognizione sicura. Inviò le mie domande ad un altro Inglese, da più lungo tempo residente nell’interno dell’Isola, mescolato in molti affari colà, ed uomo accorto:
he has a long head, he is your man, egli è assai accorto è il vostro uomo, diceva il mio amico. La risposta fu, che era molto difficile il voler conoscere davvero le origini ed il carattere della mafia: i passati Governi, le rivoluzioni, la mancanza di strade e di opere pubbliche, ecc., ecc. Una sola cosa era certa, egli diceva, e cioè che i provvedimenti eccezionali farebbero più male che bene. Il rimedio stava nel tempo, nelle opere pubbliche, cui la Sicilia aveva diritto, e finalmente nelle scuole, l’eterna panacea di tutti i mali. I due Inglesi dunque si neutralizzavano, ed io restavo come prima.
Un giorno ero immerso nella lettura degli opuscoli sulla Sicilia, quando m’arrivò la notizia che il prof. Caruso, siciliano, non nato ma educato a Palermo, che ora insegna agronomia nell’Università di Pisa, sulla cattedra e nella scuola illustrala dal Cuppari, aveva accennato alla questione in un suo pubblico discorso, letto nella solenne apertura dell’anno accademico 187374. Scrissi subito per avere il discorso, e vi trovai in pochi periodi accennato, che nella Sicilia v’era una grossa questione sociale, derivante dalla grande coltura e dalla miseria del contadino. «La rivoluzione di Palermo nel 1866, egli diceva, non fu politica, ma sociale, sì perché non aveva nessuna bandiera politica certa, si perché il contingente più numeroso lo forniva la campagna, mandando in quella sventurata città coorti di opranti affamati, desiderosi di arricchirsi.» Unico rimedio ai mali, continuava il Caruso, sarebbe l’introduzione di quel contratto di mezzeria, secondo il quale è coltivata la Toscana, e col quale si fanno al contadino condizioni eccellenti.
E subito nell’Accademia dei Georgofili l’ex-deputato E. Rubieri annunziò con parole di elogio questo discorso, ricordando come egli avea nel 1868, dopo un viaggio in Sicilia, sostenuto la medesima idea nel suo libro: Sulle condizioni agrarie, economiche e sociali della Sicilia e della Maremma Pisana. Io lessi con avidità questo lavoro, e da tutto ciò ricevei una profonda impressione, perché mi ero già convinto che la questione del brigantaggio nelle Provincie napoletane era una questione agraria e sociale.
Ma quale fu la mia maraviglia quando, raccolti gli appunti per ciò che riguardava in ispecie la provincia di Palermo, interrogando alcuni Siciliani che mi parevano competenti, vidi che si mettevano a ridere sgangheratamente. In tutto questo, essi dicevano, non c’è una sola parola di vero. Come! noi oppressori dei contadini? Ma se siamo noi oppressi dai contadini! È la mafia che impedisce a noi d’andare a vedere i nostri fondi. Il tale, il tale altro da 10 anni non ha potuto vedere le sue terre, che sono amministrate e guardate dai mafiosi, dalle cui mani non può levarle senza pericolo di vita.
A questo s’aggiunse una notizia singolarissima, la cui verità ho potuto in molti modi accertare. Il maggior numero di delitti si commette da abitanti dei dintorni di Palermo, che per lo più non sono poveri, spesso anzi contadini censuarii o proprietarii, che coltivano mirabilmente i loro giardini d’aranci. Nella Conca d’Oro l’agricoltura prospera; la grande proprietà non esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette un gran numero di delitti. Io non volevo credere a questa notizia, che sembrava sovvertire tutti quanti i principii dell’economia politica e della scienza sociale; ma la riscontrai in mille modi, ed in mille modi mi fu riconfermata.
Ripigliai e rilessi da capo i miei opuscoli o libri sulla Sicilia, per vedere se era possibile raccapezzarmi. Negli Annali d’agricoltura siciliana trovai ripetuto, che l’agricoltura e la prosperità materiale da lungo tempo hanno fatto molti progressi nei dintorni di Palermo. Nell’opuscolo del Turrisi Colonna sulla Sicurezza Pubblica in Sicilia, trovai confermato che il centro principale, la vera sede della mafia è nei dintorni di Palermo: di là essa stende le sue fila nella città. Qui il basso popolo non è avvilito ed oppresso; ma piuttosto sanguinario, pronto al coltello; aderisce alla mafia, e ne va orgoglioso. Il contadino agiato ed il borgese, come dicono colà, di Monreale, di Partinico, ecc.; i gabellotli o affittuarii, e le guardie rurali di quei medesimi luoghi sono quelli che costituiscono il nucleo principale della mafia. Questa dunque stende le sue più profonde radici nella campagna, mentre la camorra le stende nella città. Dentro Palermo voi potete di giorno e di notte passeggiare impunemente; se v’allontanate un miglio dalle porte, anche oggi, mi dicono, voi non siete sicuro d’arrivare a Monreale.
A questa notizia bisogna aggiungerne un’altra, che è pure di massima importanza per conoscere le condizioni dell’Isola. Questa va divisa in più zone che sono fra loro assai diverse. Nell’interno v’è la grande coltura. Ivi sono i feudi o latifondi, ivi sono i miseri proletarii, ivi l’agricoltura è in uno stato primitivo; mancano le acque, l’aria è cattiva, il fertile suolo della Sicilia pare spesso una maremma, e v’è poco più che la coltura dei cereali.
Vicino alle coste, specialmente presso le città, e massime nei dintorni di Palermo, la scena muta affatto. Qui sono giardini, piccola coltura, agricoltura progredita, spesso contadini censuarii a proprietaria in ogni caso agiati, intelligenti, eppure pronti ai delitti. A questi s’uniscono gabellotti e guardiani, anch’essi agiati, anch’essi pronti al delitto. Ora in che relazione si trovan fra loro il cittadino, questi borgesi, gabellotti, guardiani, ec., ed il proletario dell’interno dell’Isola? Ecco il nuovo problema che mi si affacciava.
Dopo mille domande e lettere scritte, per arrivare alla soluzione del problema, la risposta che più mi parve avvicinarsi al vero mi fu data da un patriota siciliano, stato ufficiale del Garibaldi e dell’esercito regolare, il quale fece un piccolo giro nei dintorni di Palermo, per poter rispondere più esattamente alle mie domande. Il lettore legga con attenzione la lettera di questo amico, e vi troverà qualche notizia importante a risolvere l’arduo problema. Non dimentichi però che lo scrittore parla de visu, solo per quanta riguarda una parte dei dintorni di Palermo.
«In Sicilia bisogna distinguere due classi di contadini, una che abita verso le coste, dove le terre sono più coltivate e meglio divise, e dove il contadino assai spesso possiede la sua porzioncella coltivata o a vigneto o ad olivi o ad agrumi o a sommacco. Cosi, per esempio, nella Conca di Palermo, i quattro decimi dei contadini sono piccoli censuarii o proprietarii, e nel territorio che si dice della Sala di Partinico, o meglio quella parte della costa che si bagna nel golfo di Castellammare, gli otto decimi dei contadini sono quasi tutti in questa condizione.
Tanto è vero che si è calcolato, che se, per esempio, a Partinico i contadini non fossero analfabeti, potrebbero tutti essere elettori amministrativi o politici, perché tutti pagano la tassa richiesta dalle leggi. Ne vuole sapere una? I Comuni di Monreale e di Partinico sono quelli, in cui le basse classi o meglio il contadinume si trova più che in tutti gli altri Comuni della provincia in uno stato di agiatezza. Ora in questi due paesi appunto gli omicidii sono più spessi e più efferati che ‘nella provincia.
La vera classe di contadini che, addetta alla seminagione del frumento, il novanta per cento nulla «possiede, e si trova a discrezione d’un burbero padrone, è quella che abita l’interno dell’Isola, dove sono i latifondi, coltivati da uomini che vivono come schiavi.
Per rispondere ai quesiti propostimi da lei, con notizie certe, io piglio ad esempio per tuttiPiana dei Greci. Gli abitanti si dividono in tre classi:—galantuomini o boiardi Questa parola è in uso solamente fra gli Albanesi dell’Isola. borgesi o contadini un po’ agiati, che fanno da affittuarii, e villani o giornalieri. Circa quattro famiglie di boiardi e sei di borgesi fanno negozio di grano, hanno preso in affitto gli ex-feudi dei signori di Palermo, dando ogni anno a coltivare le terre, in piccole porzioni, ai poveri contadini.
Le forme di questi subaffitti sono varie, ma quasi tutte ad anno od a brevissima scadenza, e sempre il feudo viene diviso in piccole porzioni.
A mezzeria si dice quando il contadino, coltivando il grano, dà metà del prodotto al padrone, che piglia dalla metà del contadino il prezzo per la guardia rurale, fissandolo egli stesso. Dicesi a terraggio, quando il contadino s’obbliga a dar tante salme di grano per salma di terreno. In questi casi, se si anticipa il grano per seminare, si ripiglia con un interesse del 25 % Dicesi a maggese, quando si consegna al contadino il pezzo di terra già arato. Egli lo semina, e dà poi tante salme di grano, secondo il patto fissato nell’anno. Di quello che avanza, piglia solo la metà, l’altra va al padrone. Anche in questo caso, il grano per la semina s’impresta dal padrone al 25 %. Quando questi patti onerosi hanno rovinato il contadino, esso diventa giornaliero, e guadagna da L. 1. 70 a L. 2 al giorno; nel tempo della mietitura anche 3. Cessati i lavori, resta senza guadagno. Alcuni dei boiardi e dei borgesi si contentano vivere delle loro rendile; ma gli altri pigliano in affitto i feudi, negoziano di grano, ed esercitano un’ usura spaventosa sui contadini.
Lo stato dei contadini nell’interno dell’Isola è deplorevolissimo. In massima parte sono proletarii, che debbono ogni giorno camminar molle miglia per arrivare al luogo del lavoro. Altra relazione tra essi e i loro padroni non v’è, che quella dell’usura e della spogliazione, di oppressi ed oppressori. Se viene l’annata cattiva, il contadino torna dall’aia piangendo, colla sola vanga sulle spalle.
E quando l’annata è buona, gli usurai suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. I contadini sono un esercito di barbari nel cuore dell’Isola, ed insorgono non tanto per odio contro il Governo presente, quanto per vendicarsi di tutte le soperchierie, le usure e le ingiurie che soffrono, ed odiano ogni Governo, perché credono che ogni Governo puntelli i loro oppressori.»
Noi abbiamo dunque tre classi distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi; nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotii, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s’intendono; fra i secondi si reclutano i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell’interno dell’Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii. 1 borgesi arricchiti, i proprietarii negozianti pigliano a gabella gli ex-feudi che subaffittano ai contadini, dividendo le vaste tenute in porzioni, di cui serbano per se stessi la migliore di tutte, e fanno contratti di subaffitto diversi, ma sempre onerosissimi al contadino. E aggiungono poi l’usura, che ordinariamente arriva al 25 per % spesso sale ad un interesse assai maggiore. Inoltre negoziano in grano. Messa da parte l’usura, i contratti sono tali, che i calcoli degli agronomi siciliani dimostrano (professor G. Caruso, Studii sull’industria dei cereali in Sicilia, Palermo, 1870) che il contadino, nei casi ordinarii, non può trovare i mezzi necessarii alla vita.
Perciò egli deve indebitarsi e cadere in mano dell’usuraio, di cui è fatto schiavo, fino a che non si getta al brigantaggio, quando non diviene proletario, per peggiorare ancora il suo stato. Egli allora percorre la feconda terra siciliana senz’altro che una zappa sulla spalla, carico d’un cumulo di debiti. Si pensi che la coltura dei cereali si estende a 77 per cento di tutta la superficie dell’Isola, e si capirà a che cosa arrivi questo esercito d’infelici, che sono come gli schiavi dell’usuraio e dell’affittuario.
Fra questi tiranni dei contadini sono le guardie campestri, gente pronta alle armi ed ai delitti, ed ancora quei contadini più audaci, che hanno qualche vendetta da fare, o sperano trovar coi delitti maggiore agiatezza; e così la potenza della mafia è costituita. Essa forma come un muro tra il contadino ed il proprietario, e li tiene sempre divisi, perché il giorno in cui venissero in diretta relazione, la propria potenza sarebbe distrutta. Spesso al proprietario è imposta la guardia de’ suoi campi, e colui che deve prenderli in affitto. Chiunque minaccia un tale stato di cose corre pericolo di vita.
I delitti sono continui in questa classe, che pure non è data per mestiere al brigantaggio; ma lavora la terra, fa i suoi affari con intelligenza, mantiene il suo predominio col terrore. Oggi dietro una siepe, tirano una fucilata al viandante od al vicino rivale; domani vangano tranquillamente i loro campi d’agrumi, o attendono nella città ai proprii commerci. La base, le radici più profonde della loro potenza sono nell’interno dell’Isola, fra i contadini che opprimono, e su cui guadagnano;
ma questa potenza si estende e si esercita anche nella città, dove la mafia ha i suoi aderenti, perché v’ha ancora i suoi interessi. A Palermo, infatti, sono i proprietarii; a Palermo si vende il grano e si trovano i capitali; a Palermo vive una plebe pronta al coltello,, che può, all’occorrenza, dare braccio. E cosi la mafia qualche volta è divenuta come un Governo più forte del Governo. Il mafioso dipende in apparenza dal proprietario; ma in conseguenza però della forza che gli viene dall’associazione, in cui il proprietario stesso si trova qualche volta attirato, egli riesce di fatto ad esser il padrone. Qualche volta potè seguire perfino che la mafia promovesse una rivoluzione, alla testa della quale pose alcuni proprietarii, prima che avessero avuto il tempo di pensare a trovare il modo di separarsene.
Ammesso questo stato di cose, tutte le osservazioni fatte dal barone Turrisi, dal Tommasi-Crudeli e da molti altri spiegano chiaramente in che modo il male sia andato sempre crescendo. Gli abitanti dei dintorni di Palermo discendono per lo più da famiglie di antichi bravi dei baroni, e quindi tra di essi la tradizione del sangue è antica. Chi è d’accordo colla mafia è sicuro; chi la comanda è padrone di una forza grandissima, e può mantenere l’ordine, o promuovere una rivolta. Perciò i Borboni governarono colla mafia, ed anche la rivoluzione ricorse ad essa, che potè subito armare contadini e popolo, porsi alla loro testa, e rovesciare il Governo stabilito. Le compagnie d’armi, istituite in tutti i tempi a mantenere l’ordine, furono reclutate nella medesima classe, e non spegnevano i delitti, ma quasi gli organizzavano fra certi limiti, con certe norme,
perché il nuovo guadagno che facevano come stipendiati del Governo, e la nuova autorità acquistata, servissero a sempre meglio consolidare il proprio potere. La pubblica sicurezza venne affidata alla mafia, dandole cosi in mano la società, e questo sistema che pur troppo fu sempre seguito, rese sempre più forte l’associazione che si voleva distruggere.
Naturalmente i problemi sociali non sono problemi di matematica; gli elementi che li costituiscono sono varii e molteplici, s’intrecciano e si confondono fra loro. La divisione di classi da noi osservata, neanche nella Sicilia occidentale si trova sempre esattamente disegnata e distinta; le condizioni qualche volta s’alterano e si modificano, eppure assai spesso gli effetti sembrano o sono identici. Basta che le radici del male siano fortemente e profondamente costituite in una parte del paese, perché questo male sorga e si propaghi. Ma dove le condizioni dell’Isola radicalmente si modificano, ivi esso scomparisce o muta natura.
La Sicilia occidentale adunque è travagliata da due grandi calamità: lo stato delle sue ricche solfare, e la mafia che nasce dalle condizioni speciali della sua agricoltura. Perché le cose sono nella Sicilia orientale tante diverse? Ivi mancano le solfare, le condizioni geografiche ed agronomiche sono d’altra natura. II terreno più montuoso e meno fertile ha dato luogo a molti contratti di colonia parziaria, che è sempre più mite della terraggeria o della mezzeria di Palermo.
A Catania, è vero, la coltura dei cereali arriva sin quasi alle porte della città; ma questo appunto, cioè la mancanza d’una zona di terreno più fecondo, ha impedito che sorga una classe di contadini più agiati, da cui poi i gabellotti e mercanti oppressori. Sono miseri proletarii, sottoposti ad una tirannia diversa, simile a quella che troviamo nella Basilicata o in altre province del continente meridionale; arrivano, lavorano la terra e se ne vanno senza portare disordini. L’estrema miseria gli spinge qualche volta al brigantaggio, ma non possono costituire la mafia. S’ aggiunga poi che a Palermo si trovano i più grandi possessori di latifondi, il che più facilmente dà modo al gabellotto di guadagnare col subaffitto dei vastissimi ex-feudi; e si capirà, io credo, in che modo i dintorni della capitale dell’Isola abbiano il triste privilegio d’essere il centro della mafia.
Ed ora quale è il rimedio contro questi mali? Qui si presenta un problema che spaventa per la estensione che prende, come vedremo, non solo in Sicilia, ma in tutta l’Italia, specialmente meridionale.
È chiaro intanto che i rimedii sono di due sorta: repressivi e preventivi. Bisogna, non v’ha dubbio, punire severamente i delitti con pronta ed esemplare giustizia; ma anche qui la prigionia è inutile, se non si isola o non si manda lontano il condannato. La stessa parola mafia viene dal gergo delle carceri, donde uscì solo nel 1860, per mezzo di una commedia del signor Rizzotto, che descrisse l’associazione ivi esistente. Fu allora adoperata per indicare un altro fatto sociale, che prima non aveva avuto un proprio nome.
A riuscire però coi soli mezzi repressivi, bisognerebbe portare la repressione fino allo sterminio. Allora, di certo, col terrore cesserebbero i delitti, salvo sempre a vedere, se quelle condizioni che hanno prodotto il male, restando le stesse, non lo riprodurrebbero in breve. Ma lo sterminio porta un consumo spaventevole di forze, ed un Governo liberale non può decidersi a ciò. Occorre il dispotismo. Noi dobbiamo adunque assalire il nemico da due lati: punire e reprimere prontamente, esemplarmente; ma nello stesso tempo prevenire. In che modo? Bisogna curare la malattia nella sua sorgente prima. Il Governo deve avere il coraggio di presentarsi come colui che vuol redimere gli oppressi dal terrore e dalla tirannide che pesa su di essi. È vero o non è vero quello che dicono gli agronomi siciliani, che cioè i contratti agrarii fatti col terraggiere, col mezzadro, ecc. sono iniqui? Se è vero, è necessario cercare qualche rimedio a ciò, sia con mezzi legislativi, e con un’ azione energica del Governo in difesa della giustizia e dei deboli; sia con una pubblica opinione più illuminata, o con altro mezzo qualunque. Se a questo non si può riescire, non è sperabile estirpare il male. Quando i contratti agrarii assicurassero al contadino, con una maggiore indipendenza, un’equa retribuzione, e lo ponessero in relazione amichevole col proprietario, il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di essere sarebbero distrutti.
È possibile, è sperabile arrivare allo scopo? Ecco l’arduo problema.
La quistione si allarga ora immensamente, perché nelle province napoletane, dove non troviamo la mafia, il contadino geme sotto un’altra forma di miseria e di oppressione, che esiste pure nella Sicilia orientale, e dalla quale derivano conseguenze diverse, ma pur gravissime. Invece della mafia abbiamo il brigantaggio, che ci presenta la quistione agraria sotto un altro aspetto. Ma l’unico rimedio possibile è sempre lo stesso: la repressione esemplare e pronta dei colpevoli da un lato, la redenzione degli oppressi dall’altro. E la difficoltà gravissima è anche la stessa, cioè: può lo Stato far nuove leggi, per determinare le forme e le condizioni dei contratti agrarii? Facendole, conseguirebbe lo scopo? 0 è sperabile invece che basti il naturale progresso della pubblica opinione e dei costumi, ed è necessario affidarsi solo a ciò?
Di questo ti dirò qualche cosa, dopo aver parlato del brigantaggio.
Tuo affez. P. VILLARI.

(Continua)