Memorie dei giorni roventi del 14 agosto 1861

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Pontelandolfo – MEMORIE DEI GIORNI ROVENTI DELLO, AGOSTO 1861
Varie volte la radio e la televisione del 24-8-1972 nello spettacolo «Tutto è Pop» hanno trasmesso alcune canzoni, di recente composizione, riferentísi all’Unità d’Italia. Si può non condividere, come è mio deciso parere, il motivo storico e politico che dovrebbe riallacciare, in un filone di avvenimenti concatenati, ribelli e violente manifestazioni odierne con quelle dei tempi dell’unità italiana; certo però due composizioni, a giudizio anche degli stessi compilatori, riflettono avvenimenti reali e tragici. Tutte le canzoni sono di P. e F. Fabbri ed eseguite dal complesso Stormi Six. La più importante è senza dubbio « Pontelandolfo », che riporto integralmente, con interpunzione, la quale tenta di avvicinarsi all’originale, non risultante naturalmente dall’esecuzione. I) « Era il giorno della festa del Patrono – e la gente se ne andava in processione; – l’Arciprete in testa ai suoi fedeli – predicava che il Governo italiano – era senza religione. – Ed ecco da lontano – un manipolo con la bandiera bianca – in clima di inneggiare al re Francesco. – Ed ecco tutti quanti lì a gridare; – poi si corre furibondi al Municipio – e si bruciano gli archivi – e gli stemmi dei Savoia».
II) «Per sedare i disordini nel paese – arrivano quarantacinque soldati – sventolando fazzoletti bianchi – in segno di pace. – Ma non trovano nessuno. – Poi mentre si preparano a mangiare, – il rumore ed i colpi di fucili spingono ad uscire allo scoperto – e son presi tutti quanti prigionieri. – Poi li portano legati sulla piazza – e li ammazzano a sassate – bastonate e fucilate ».
III) « La notizia arriva al comando – e immediatamente il generale Cialdini – ordina che di Pontelandolfo – non rimanga pietra su pietra. – Arrivano all’alba i bersaglieri – e le case sono tutte incendiate, – le dispense saccheggiate, – le donne violentate, – le porte della chiesa strappate, bruciate -. Ma prima che un infame piemontese – rimetta piede qui, – lo giuro su mia madre, – dovrà passare sul mio corpo ». Le strofe sono seguite da un ritornello che suona Pontelandolfo la campana suona per te, – per tutta la tua gente, – per i vivi e gli ammazzati, – per le donne e i soldati, – per l’Italia e per il Re » Come i cittadini di Pontelanaolfo sanno e i cultori di cronache regionali hanno appreso, in questa canzone vengono ricordati, con qualche inesattezza e in chiave non soltanto storica, i giorni esplosivi del 7, 11 e 14 agosto del 1861, resi roventi da movimenti e malcontenti popolari, da autoritarie istigazioni, da secolare ignoranza e da una stimolante carestia. Durante quei tristissimi giorni si aizzarono scompigliate passioni, ne seguirono eccidi sfrenati e il tutto si concluse con vendette irrazionali, che portarono ad azioni terriificanti e assurde come la distruzione di Pontelandolfo e del limitrofo comune di Casalduni. Garibaldi entrò festosamente in Napoli il 7 settembre 1860 e la guerra risorgimentale era passata attraverso le nostre regioni forse troppo frettolosamente senza apportare la trasformazione di una nuova coscienza unitaria e istituzionale, che neppure clamorosi ma isolati episodi di eroismo e di sacrificio erano riusciti a preparare. Da una parte c’era tutto un sistema di vita, e non soltanto nelle così dette classi privilegiate, inveteratamente legate al governo dei Borboni, e dall’altra fremevano attese di radicali, preferibili ma anche immediati mutamenti, riposte non solo nella novità dei fatti ma anche nella convinta bontà del nuovo regime. Questi e altri motivi, importantissimi e per lo più di carattere locale, avevano creato fenomeni di insoddisfazione, di ribellioni, di guerriglie, raccolte nella parola brigantaggio, esteso in tutta l’Italia meridionale e centrale e intensificato dallo sbandamento delle truppe sconfitte. Di esso si faranno cenni particolari nel corso dell’esposizione. In questo clima si veniva a trovare Pontelandolfo, di 5.000 anime, alla vigilia di quei giorni fatali che la sospinsero alla rivolta e al sangue e la resero preda di una vorace rappresaglia. Le case del centro erano quasi tutte raccolte intorno alla famosa torre medievale. Una strada, con brevi e frequenti scalinate, circondava il paese restringendosi e allargandosi a seconda delle costruzioni o piccoli dislivelli che attraversava. Nella parte centrale si snodavano molte vie e vicoletti, che facevano capo alla chiesa arcipretale, alle volte ripidi e angusti, formati da rampe con scalini non sempre agevoli. Era il caratteristico abitato, che raggruppava antiche dimore, alcune rinomate per fregi ornamentali, la maggior parte consistenti nel solo pianterreno, i cui tetti non raramente erano forniti di botole ben nascoste ma pronte a far evadere qualche persona ricercata. Quel groviglio di case densamente popolate, quelle viuzze tipiche scoscese, tutte chiamate con nomi tradizionali e che ti immettevano in rari spiazzali, gremiti di bambini intenti a divertirsi, tante volte ho attraversate e visitate da ragazzo e mi rivivono nella mente con le storie che i vecchi raccontavano.
A quell’epoca sorgevano poche nuove case intorno alla grande Piazza Tiglio e nei rioni S. Rocco e S. Donato, che furono anch’esse insanguinate dagli eventi dolorosi del 1861.
La popolazione inoltre era sparpagliata in sedici contrade, suddivise a loro volta in circa settanta frazioni, che dalle zone montagnose scendevano giù a valle in un ampio giro intorno ai caseggiati del centro. Gli accessi erano impervi, in qualche tempo dell’anno impraticabili e la maggior parte delle terre coperte da boscaglie, talmente folte da permettere a un antico contadino di assicurarmi, con evidente iperbole, che si poteva andare in montagna passando di ramo in ramo. La situazione topografica, quindi, facilmente si prestava a nascondigli, ad agguati, ad irruzioni nonché ad immediati e inaccessibili rifugi.
Da Piazza Municipio, nella parte rivolta a mezzogiorno, nella vallata sottostante si scorge Casalduni, unita a Pontelandolfo da erti
,# faticosi sentieri, qualcuno direttamente come scorciatoia, un altro più lungo e più praticabile, a forma di un gomito gigante, che si immette nella nazionale, ma più esposto a inavvertite imboscate.
Queste brevi descrizioni offrono la possibilità di comprendere l’ambiente, in cui si verificarono disgraziatamente ,.i gravissimi fatti di risonanza nazionale ed estera che sconvolsero in una tragica desolazione i due comuni di Pontelandolfo e Casalduri e che mi limiterò ad accennare.
7 AGOSTO 1861

Proprio all’entrata di Pontelandolfo esisteva, fino a qualche anno fa, una cappella, dedicata a S. Donato, a cui si accedeva attraverso una bella e solida scalea. La chiesa non era grande, ma molto cara ai cittadini per la venerazione al Santo sebbene non sia il Patrono,
*per i ricordi a cui essa era legata qualcuno dei quali eccitava la fantasia popolare. Oggi è stata abbattuta per allargare la visibilità in quel punto dove vengono a incrociarsi la strada che mena al paese
e la nazionale per Napoli e Campobasso.
La festa di S. Donato capita il 7 di agosto ed è caratteristica la fiera di tre giorni, che sollecita l’accorsarnento di tutta la cittadinanza e di moltissimi forestieri; un tempo più di oggi in quanto si profittava di queste attese ed uniche circostanze per vendere e comprare.
Era costume secolare che ogni anno il 7 di agosto il clero coi fedeli si portasse in solenne processione dalla Chiesa Madre fino alla suddetta cappella per celebrarvi i vespri in onore del Santo. Così avvenne anche il 7 agosto del 1861 e ne ricordo il succedersi degli avvenimenti collegando varie fonti, alcune vicine ai tempi.
Dopo il canto dei vespri la processione, come al solito, ritornava al luogo di partenza. Precedeva un concerto musicale, il clero con a capo l’Arciprete D. Epifanio De Gregorio, di origine di S. Croce del Sannio, poi seguiva tutto il popolo. In questo momento una quarantina di briganti, ingrossati da reazionari, da borbonici, da molti popolani si fanno avanti minacciosi agitando una bandiera bian¬ca, obbligano a gridare «Viva Francesco II» e costringono il clero a cantare un Te Deum di ringraziamento cori l’intenzione di dimo¬strare la restaurazione del regno dei Borboni.
Donde provenivano queste bande armate di briganti con gruppi di ostinati favoreggiatori dei detronizzati re e quale intesa potevano mai avere con autorità e notabili del paese? La maggior parte dei documenti parla di corrispondenze segrete tra l’Arciprete, che aveva scritto un libro in onore di Ferdinando II (2), e parecchi altri borbo¬nici, compreso forse anche il Sindaco D. Lorenzo Melchiorre, con i capi delle varie bande che scorazzavano nella nuova provincia di Benevento, avendo fissato «il quartiere generale sui monti accosto a Pontelandolfo » nell’aspettativa di una occasione propizia «per ten¬tarvi un colpo di mano, impadronirsene e piantarvi la bandiera dei Borboni, creando un governo provvisorio nel nome di Francesco Il (3).
Alcuni atteggiamenti da parte del clero erano spiegabili anche a causa della « virulenza anticlericale » (4), contenuta nell’ordine del giorno 3-2-1861 del generale Ferdinando Pinelli, preposto alla repres¬sione dei briganti. Non mancarono poi da parte dei soldati sacrileghe profanazioni, spogliazioni di chiese, disprezzo per ogni cosa di sacro di gravità eccezionale, per cui si diffuse con insistenza, non sempre
(2) Epifanio DE Gregorio, L’astro nella tenebria, ovvero l’immortale Fer¬dinando 77, re del Regno delle due Sicilie, Napoli, 1852, Stabilimento dell’Anto¬logia legale di Domenico Capasso.
(3) Dalla sentenza di accusa della Corte di Napoli del 7-6-1864.
(4) ALDO DE IACO, Il Brigantaggio meridionale pag. 229, Editori Riuniti,Roma.

mal fondata, che il « Governo Italiano era senza religione ». Comun¬que per lo meno comportamenti particolari–apparivano come ordini governativi o, come si soleva dire, piemontesi.
Certo la calata dei briganti in quel giorno e a quell’ora non era del tutto imprevista, anche perché l’influenza di persone ragguarde¬voli aveva esaltato la massa dei contadini e degli operai, i quali
_erano già pronti per una sommossa e ne attendevano soltanto l’incen¬tivo. E questo venne offerto dall’irruzione dei briganti, capeggiati dal cerretese Cosimo Giordano e da Donato Scutanigno. L’azione non si limitò a quella su descritta, ma purtroppo fu l’inizio di una cruenta sedizione che cominciò a, segnare il destino di Pontelandolfo.
Riporto testualmente dalla sentenza della Sezione di accusa del¬la Corte di Appello di Napoli del 7-6-1864: « Si univano, ad essi (i briganti) nelle clamorose dimostrazioni di festa quelli che nel paese avevano intelligenza della cosa, e quelli che anche ignari dei prece-denti. concerti la credettero di facile riuscita, e gravida di bei risultamenti. Preso così importanza il movimento, si diedero i sediziosi a consumare, una serie di atti che stabiliscono nettamente il carattere dell’attentato alla distruzione dell’attuale governo. Il posto di guardia disarmato; le bandiere nazionali calpestate; lo stemma Sabaudo a colpi di fucile abbattuto e infranto; gli archivi della Giudicatura e del Municipio incendiati, il botteghino dei generi di privativa forzato distraendovi il danaro trovato e le merci, in danno dello Stato, il traino del procaccia arrestato appropriandosi del danaro che traspor¬tava, la carrozza postale danneggiata distruggendovi il Regio Stemma scolpitovi, i cavalli sottrattine, forzate le prigioni e liberati i detenuti ». Nelle imputazioni, che seguono, vengono classificati i vari delitti e e non manca l’elenco di tutti i fatti rivoluzionari: saccheggi, distru-zioni, incendi, estorsioni e vari omicidi volontari, consumati contro persone ben specificate, come ad esempio: Agostino Vitale, Angelo Tedeschi, Libero D’Occhio. A tutto questo bisogna aggiungere l’efferrato delitto compiuto nell’Esattoria comunale, dove insieme con le carte di ufficio fu bruciato vivo l’esattore Michelangelo Perugini. Il 7 agosto si chiuse con le tenebre e la follia omicida e devastatrice degli insorti. Anche oggi quella data è proverbiale nel popolo, quando si vuole accennare a un fatto straordinario e travolgente.
Il giorno seguente «si costituì un nuovo governo che mandò su-bito messaggi nei paesi intorno` invitando tutti alla rivolta » (5). L’ap¬pello non rimase inascoltato : una specie di frenesia generale invase
(5) A. DE Iaco op. cit. pag. 32.

anche le popolazioni vicine e il 9 agosto si diedero convegno a Pontelandolfo reazionari provenienti da -Casalduni e Campolattaro, che, sventolando bandiera bianca e osannando a Francesco II, si accam¬parono in Piazza Tiglio e sulle Campetelle, ormai scomparse. Al calar della sera però, temendo l’arrivo di soldati impegnati nella lotta contro i briganti, se ne andarono e tutto piombò nel silenzio profondo,
-• foriero di più funeste sciagure.

11 AGOSTO 1861

I moti rivoluzionari e i ripugnanti crimini di quei giorni non rimasero nascosti tanto più che la ribellione, anche se preparata da una limitata parte della cittadinanza, l’aveva quasi interamente som¬mossa. Se ne diffuse la voce in tutti i paesi vicini e per via ufficiale la notizia fu trasmessa al Comando di Campobasso, alla cui provincia Pontelandolfo aveva appartenuto fino all’annessione di Benevento allo Stato Italiano. La reazione fu sollecita, ma bisogna riconoscerlo, impari alla gravità dei fatti e al numero delle persone da affrontare, favorite dalle armi, dall’omertà e dalla familiarità dei luoghi. Così fu deciso di inviare a Pontelandolfo un drappello di 45 soldati al comando del tenente Luigi Augusto Bracci e 4 carabinieri.
L’intenzione era quella di sedare i disordini, calmare la popola-zione, restaurare l’ordine e tenere a bada le orde brigantesche. Questi giovani furono inconsapevolmente votati alla morte.
Giunsero a Pontelandolfo l’l11 agosto e in prossimità dell’abitato cominciarono a sventolare fazzoletti’ bianchi dimostrando lo scopo pacifico della loro venuta. Molti cittadini, appena li scorsero, fuggirono rifugiandosi lontano o andando a riferire alle varie bande di briganti, sparse nelle contrade di montagna, la novità dell’arrivo. Il paese sembrava completamente immerso nell’abbandono; solo al¬cune persone, rinchiuse nelle case, attendevano la fine di quell’inter¬vento.. Questo contegno circospetto impensierì i militari tanto più che da qualcuno, che coraggiosamente si era fatto vedere, avevano ricevuto un inaspettato rifiuto di cibo e l’assicurazione della fuga delle autorità; il che confermò il convincimento che tutti o avessero paura dei briganti o ne fossero conniventi. Lentamente dal Piano del¬la Croce si avviarono-nell’interna del paese e trovarono la migliore soluzione nel rinchiudersi nel giardino della Torre per consumare un po’ di pane e di vino, che alla fine erano riusciti a raccogliere, e attendere il momento. opportuno per ritornarsene. L’ambiente appariva afoso e minaccioso. Improvvisamente si udirono colpi di fucile e le sentinelle diedero l’allarme: si scorgevano masse di uomini, conta¬dini e briganti accompagnati anche da donne forsnnate, che-si avvi¬cinavano armati con l’intento, evidente di accerchiare la Torre. Fu quello però un atto di provocazione a uscire allo scoperto per ren¬dere più facile la soppressione del drappello. I soldati, infatti, usci¬rono e, sparando senza colpire nessuno, si diressero attraverso le Càmpetelle verso la strada maestra preoccupati di non venire accer¬chiati e di raggiungere S. Lupo, dove risiedeva il Comandante della Guardia nazionale. Disgraziatamente la manovra non riuscì. Le ma¬snade dei briganti si richiamavano con forti grida d’intesa così che da ogni parte della zona si addensò sul « toppo » di S. Nicola un numero schiacciante superiore ai Piemontesi, che si videro perduti. Non potendo avanzare, presero la via sottostante per Casalduni dove, forse, ritenevano di sfuggire al sicuro massacro. Ma le campane di Casalduni suonarono funebremente a stormo e numerosi ribelli e bri¬ganti, comandati dal loro capo «generale» Angelo Pica, un massaro del luogo e principale fomentatore della strage, completarono l’accer-chiamento dei bersaglieri. E’ indescrivibile l’eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono. I 50 uomini si difesero di-speratamente, ma alla fine prevalse la turba sanguinaria : furono di-sarmati, spogliati della divisa, attaccati agli alberi, trucidati. Alcuni furono trasportati a Casalduni, dove subirono la stessa sorte col con¬senso del locale Sindaco Luigi Orsini; uno solo fu condotto a Pontelandolfo e rinchiuso nella Torre. E’ una dolorosa pagina che non si descrive nella sua. allucinante veridicità per un sentimento di ri¬tegno e che riguarda la storia di due paesi : Casalduni e Pontelandolfo, i quali certamente non ne hanno vissuto una simile nella loro non breve esistenza. Quando un popolo viene ingannato, suggestionato e aizzato perde i freni della sua tradizionale costumanza e diventa capace dei più esecrandi delitti, specialmente poi in nome di una libertà fraintesa per eccitazione dei fuori legge.
Nel «Registro, dei crimini» del giudice Mazara del 27-11-1861, presso la Pretura di Pontelandolfo, si trova un procedimento riguar¬do «al massacro dei 45 soldati italiani al comando del tenente Bracci. Vennero rubricati ben 118 individui dei quali soltanto 28 di Pontelandolfo; gli altri erano : 53 di Casalduni, 34 di Ponte, 2 di Morcone e 1 di Campolattaro ». Qui non si vuole fare addebiti di maggiore o minore responsabiiità; il crimine commesso fu troppo sconcertante da non meritare attenuanti, anche se niente affatto possa giustificare le barbare e abominevoli ritorsioni.
Quello che non si riesce a giustificare invece è la deformazione storica degli avvenimenti e la loro interpretazione in chiave classista. Questo indirizzo è ora di moda a certe ideologie per rag¬giungere scopi ben precisi.
Certamente a quei ribelli e a quei masnadíeri si erano uniti
; persone benestanti o che godevano molto prestigio. Il voler pensare
al brigantaggio meridionale come a una «Vandea napoletana »(6),
j come a,una riscossa delle classi umili e avide finalmenté di giustizia, come- una anticipazione delle future lotte per un’occupazione più
‘ dignitosa, come a un’influenza finanche nelle sollevazioni odierne,
, operaie o studentesche che siano, ha tutta l’evidenza di una sforzatura tura e di una affumicata e preconcetta visione della storia e delle
; motivazioni dei fatti. Chi è stato più vicino a quei tempi, appena un
‘ secolo è passato, chi ha sentito raccontare dagli anziani testimoni o
° sopravvissuti alle stragi; chi ha potuto leggere cronache, alle volte
; sgrammaticate, scritte da umile e non influenzata gente presente al succedersi degli eventi; Chi questo ha potuto fare conosce, senza artefatte elucubrazioni, quel tragico periodo risorgimentale almeno nelle nostre terre. Anche il cinema e il teatro (7) hanno tentato con qualche recente film o composizione, e certamente tenteranno ancora, di smitizzare fatti e personaggi, da noi diversamente conosciuti nello studio della storia. Ma non è il caso di aprire polemiche e distur¬bare autori morti e vivi che si sono interessati della questione.
M’ interessa invece far conoscere la nomea odiosa e sanguinaria che Pontelandolfo si era addossata in campo nazionale e internazio¬nale. Una famosa novella di De Amicis, che descrive una azione
brigantesca, comincia proprio così: « Era l’estate del 1861, allorché la fama delle imprese brigantesche correva l’Europa;… quando il colonnello Negri, presso Pontelandolfo, vedeva appese alle finestre, a modo di trofei, membra sanguinose di soldati; quando il povero
s luogotenente Bracci, ferito e preso in combattimento, veniva ucciso
? dopo otto ore di orrende torture; quando turbe di plebaglia forsen¬nata nata uscivan di notte dai villaggi, colle torce alla mano, a ricevere in trionfo le bande ».
Come si nota l’esagerazione e la menzogna avevano sconvolte
anche le menti di scrittori, che le divulgavano facilmente.
Frattanto il destino rincupiva sempre più intensamente su Ponte¬
landolfo e Casalduni.
(6) Cfr. A. DE IACO, op. cit. pag. 15.
(7) « Bronte cronaca di un massacro » film di Florestano Vancini. Nobe¬court: « Sulla cronaca di un massacro » in La Stampa del ?ú-Ó-19l2 – LEONARDO
14 AGOSTO 1861.

Il misfatto del giorno Il causò un senso di inquietudine negli abitanti dei due paesi, i quali si attendevano un’azione vendicativa ma non così repentina e tanto meno, così sterminatrice. Gli stessi
-fautori e partecipi al massacro avevano deposto la temerarietà bal-danzosa del primo momento e si erano ritirati nelle case; al timore di eventuali rappresaglie si aggiungeva la coscienza dell’empia car-neficina: il giorno seguente, infatti, la strada e i campi confinanti presentavano lo spettacolo miserando dei corpi straziati e insepolti. I capi però emanavano ordini, largheggiavano in promesse, si distri¬buivano incarichi a nome di un restaurato governo borbonico, in realtà inesistente.
Il Cav. Iacobelli, della Guardia Nazionale di S. Lupo, voleva attaccare i pochi briganti che si aggiravano sulla Prainella, nei pressi della strada per Casalduni, ma costernato preferì inviare a Napoli al generale Cialdini e al Ministro De Blasio, di Guardia Sanframondi, un rapporto minuzioso; vi erano descritte, in raccapric¬cianti particolari, le stragi del giorno prima, particolarmente l’effe¬ratezza dei cittadini e la virtù dei valorosi caduti.
Antonio Pistacchio, che lasciò un manoscritto sugli avvenimenti, venutone a conoscenza, avrebbe voluto prevenire la consegna del rapporto (8). Il suo arrivo a Napoli fu posteriore e il suo nobile tentativo di salvataggio andò fallito.
Il piano di ritorsione fu istantaneo e perentorio : bisognava esemplarmente e immediatamente vendicare l’uccisione dei 50 sol¬dati con l’eversione dei due paesi e con lo sterminio degli abitanti. Gli ordini furono dati separatamente per Casalduni all’ufficiale dei bersaglieri Carlo Melegari e per Pontelandolfo al colonnello Gaetano Negri (9).
Il Melegari, che ha lasciato le sue memorie sul brigantaggio e che aveva militato anche in Crimea sotto il comando del Cialdini, sapeva benissimo che un pensiero del generale, anche espresso sotto forma di desiderio, rappresentava una categorica volontà, a cui po-teva rispondersi soltanto con la posizione di attenti e l’ubbidienza.
SCIASCIA, « Il cinema contro Nínó Bixio », in L’Europeo del 18-5-1972 – Dacia McLraini : Viva l’Italia.
(8) Cfr. VINCENZO MAZZACANE: r fatti di Pontelandolfo nel manoscritto di un contemporaneo in Rivista storica del Sannio n. 3 Anno IX 1923.
(9 e 10) Cenni sul brigantaggío « Ricordi di un antico bersagliere » Roux Frassati e C., Torino -(Il volume è attribuito a Carlo Melegari).

E il desiderio fu esplicito: « il doloroso e in _ fame fatto di Casalduni e Pontelandolfo » deve essere castigato in modo «che di quei due paesi non rimanga più che pietra sopra pietra » (10). E così il Melegari con quattro compagnie di bersaglieri marciò contro Casal¬duni e il Negri con altri 500 del 18° reggimento e con scelti da vari battaglioni da Benevento sopraggiumgeva, su Pontelandolfo nel silenzio della notte (11).
« A Casalduni per sicura nuova di soldati marcianti, nessuno riposò; cittadini di ogni specie, ordine, età e sesso fuggirono; pochis¬simi nell’innocenza stettero, ma Pontelandolfo niente sapendo fu colto » (12). _
Era l’alba del 14 agosto. L’ufficiale Melegari esclama nei suoi ricordi: « Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto il momento del tremendo castigo » (13). Egli impartì l’ordine di circondare e assalire Casalduni coi fucili spianati e le baionette inastate e, senza incontrare resistenza, tutti cominciarono a sparare, a incendiare iniziando dalla casa del sindaco, a colpire quei pochi disgraziati rimasti nel centro, mentre le campane suonavano a stormo. Dei soldati, penetrati nelle case, gettavano giù simboli borbonici e i fucili e le cinghie insanguinate dei commili¬toni sopraffatti e trucidati tre giorni prima. Questa visione maggior¬mente irritò il risentimento degli assalitori e in breve le abitazioni si trasformarono in un rogo desolante.
Il Melegari voleva agire su Pontelandolfo quando si accorse delle truppe del colonnello Negri pronte a investire furentemente il paese. Qui la sciagurata punizione assunse proporzioni disumane e catastrofiche.
Nel frattempo, da una boscaglia vicino all’ingresso dei paese, i briganti di Cosimo Giordano, dopo aver ucciso una ventina di sol-dati, erano fuggiti sui monti accortisi della stragrande maggioranza dei bersaglieri (14).
I cittadini di Pontelandolfo erano ancora immersi nel sònno igna¬ri dell’incombente ora tragica. Improvvisamente l’ordine di assalto esplose in scariche di fucili, in furibonde scorrerie, in abbattimenti di porte e finestre, a cui si aggiunsero ammonitori e ferali i rintocchi delle campane suonate a martello. « Tutti correvano alle finestre, -ai

(11) Cfr. NICOLINA VALLILLO: L’incendio di Pontelandolfo in Rivista storica del Sannio, 1919.
(12) DE Sivo, Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861, Viterbo 1867 pag. 130. (13) Cenni sul brigantaggio op. cit.
(14) VALLILLO Op. Cit.
balconi, alle porte per rendersi conto di ciò che accadeva. I soldati, slanciandosi per le scale del paese e nelle case;abusando dell’ora presta, della nudità, del sonno, dello spavento dei cittadini, si ab-bandonarono a fatti orrendi, a saccheggi sozzi, azioni infami » (15). La sparatoria non risparmiava nessuno : furono uccisi giovani e vecchi, donne e fanciulle, chi protestava la propria innocenza e chi
rreva in difesa anche dei piccoli, pure quelli che si erano offerti, per antica convinzione, di combattere a fianco dei Piemontesi. Assassini, violenze, sopraffazioni, razzie costituirono l’ardimento ven¬dicatore. Le cronache, vicine al tempo, riferiscono nomi di uomini insensatamente ammazzati lungo le vie o nelle abitazioni (16), di donne violentate o uccise con particolari che spingono al ribrezzo. « A dare maggiore spavento agli animi dei miseri cittadini si unì l’incendio del paese e della chiesa. Alcuni manigoldi entrati nella chiesuola in fiamme gettarono le ostie consacrate, rubarono i doni e la corona della Madonna, e fuggirono per timore »(17). Anche Pontelandolfo, dopo l’agghiacciante eccidio, fu avvolta dal crepitio delle fiamme e rasa al suolo. Pareti annerite, anche dopo moltissimi anni, ne portarono i segni. La Torre medievale, da dove fu liberato il militare imprigionato l’11 agosto, (18), resistette testimone secolare del grande scempio e della detestazione generale delle scelleratezze. Ed è significativo sottolineare che la prima casa assalita e bruciata fu quella dell’Arciprete. Si era avverata la reminiscenza biblica, che non sarebbe rimasta pietra sopra pietra, del generale Cialdini, il quale poteva andare orgoglioso della riuscita della missione, at¬tendersi medaglie rimunerative, elogiare con la promozione i capi e con la premiazione i bersaglieri per la compiaciuta repressione (19).
Lo stesso capo brigante Cosimo Giordano nella dichiarazione inviata dal carcere al Presidente della- Corte di Assise di Benevento il 23-4-1884 riconosce: •« feci sparare qualche colpo, ma poi feci battere ritirata. I soldati entrarono e cominciarono a bruciare le case ed io non volli più saperne di quel paese. Poi dopo seppi che si facevano molti arresti di giorno e di notte e li portavano a Cer¬
(15) VALLILLO Op. Cit.
(16) Cfr. Registra dei morti del 1864 nell’Archivio parrocchiale di Pontelandolfo.
(17) VALLILLO Op. Cit.
(18) Giornale officiale di Napoli, 16-8-1861 n. 194.
(19) Durante e dopo la campagna di repressione contro il brigantaggio molte furono le promozioni e le premiazioni; quattro le medaglie d’oro di cui una al Generale Pinelli; varie quelle di argento di cui una al Colonnello Negri
reto Sannita, e che subito erano fucilati, e così pagavano la loro pena ».
L’apocalittica giornata si chiuse con il ritorno a Benevento, attra¬verso la via principale per evitare reazionarie sorprese, del colonnello Negri e delle sue compagnie, non senza aver fatto prima cremare sullo spiazzale davanti alla Chiesa di S. Rocco i corpi di quella ventina di soldati caduti nella mattinata (20). Volle nascondere le sue perdite ai pochi briganti rimasti nei dintorni e ai cittadini sbi¬gottiti e non ancora completamente coscienti e risentiti della spieatata invasione? A S. Lupo, invece, dove, ad azione compiuta, si era recato, l’ufficiale Melegari fu accolto dal colonnello della Guardia Nazionale. A un caporale, che su suo ordine doveva recarsi per una ispezione a Casalduni, porse un bicchiere dicendo: «Bevete questo bicchiere di vino alla salute del colonnello » (21)! Alla ferocia si aggiunse forse anche il cinismo?
15 AGOSTO 1861:
GIUSTIZIA E’ FATTA PER PONTELANDOLFO E CASALDUNI

Il 15 agosto, mentre i cittadini di Pontelandolfo e Casalduni, sfuggiti alla mostruosa catastrofe, attendevano a spegnere il fuoco, a puntellare le poche malferme pareti, a salvare qualche masserizia e specialmente a piangere le loro sventure e i loro morti, il colon¬nello Negri annunziò al Comando di Napoli per telegrafo : «Ieri, all’alba, giustizia fu fatta per Pontelandolfo e Casalduni » (22). La laconica notizia, comparsa poi sui giornali dell’epoca, aveva tutto il sapore del trionfo e della soddisfazione.
Il comandante Negri, a cui l’avvenire riservò una brillante carriera (23), aveva di sicuro subito un mutamento nella campagna di repressione del brigantaggio. Giovanissimo, da tenente, aveva assistito con raccapriccio alla fucilazione di molti briganti, imposta da disposizioni governative, e all’inizio della vita miltare e del con¬tatto con le sommarie esecuzioni ebbe il coraggio e senz’altro la sincerità di scrivere: «Io sono ributtato di questa guerra atroce e bassa, dove non si -procede che per tradimenti e per intrighi, dove spogliamo il carattere di soldati per assumere quelli di birri, e
(20) VALLILLO, op. cit. e MAZZACANE OP. Cit.
(21) Cenni sul brigantaggio op. cit.
(22) Giornale officiale di Napoli 16-8-1861 n. 194.
(23) Fu, in seguito, Sindaco di Milano, deputato e poi senatore.
sospiro all’istante di abbandonare questa atmosfera: di delitti’ e dí bassezze per respirare un’aria più pura e più confacente all’indole mia »(24). Queste parole non sembrano rispondenti’ al modo di com¬portarsi in seguito specialmente nel comandare ed eseguire da co¬lonnello la spedizione punitiva contro Pontelandolfo, anche se a un certo momento è costretto a riconoscerla «barbara». In una lettera, infatti, dell’agosto 1861, nell’informare il padre degli avvenimenti descritti, si rivela in queste osservazioni: «Probabilmente an¬che i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio in¬tero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni i cui abitanti si erano riuniti a quelli di Pontelandolfo ».
Ritengo che l’esultanza del Negri nel comunicare la «giustizia», eseguita dai bersaglieri, e il modo differente di valutare «l’atmo¬sfera di delitti e di bassezze» siano dovuti al suo persistere, con altri sentimenti, nelle campagne di repressione, tanto da meritare a proposito una medaglia d’argento e avanzamenti di grado fino a divenire colonnello, come viene chiamato nei documenti successivi. Nell’impresa contro i briganti, e non solo contro di essi, col passar del tempo si cominciava a trovare gusto e motivo di promozioni. D’altra parte gli ordini_ erano indiscutibili e inesorabili.
E’ opportuno riportare qui alcune dichiarazioni, tenute alla Ca¬mera dei deputati, dall’on. Giuseppe Ferrari, di cui in seguito si parlerà più diffusamente, il 2 dicembre 1861: (25) « Mai non dimen¬ticherò il 14 agosto, mi diceva un garibaldino di Pontelandolfo. Sul limitare di una delle tre case eccettuate dall’incendio, egli gridava ai villici di accorrere, li nascondeva nelle cantine, e mentre si affan¬nava per sottrarre i conterranei alla morte, vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui, fucilata nella spalla, perché aveva voluto salvare l’onore, e quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre». Come avrebbero potuto dimenticare i sopravvissuti, quando non riuscirono a distruggerne il ricordo neppure miliitari testimoni e attori -nello stesso tempo, gli indelebili orrori indiscriminatamente commessi e l’abbattimento arroventato delle
(24) Cfr. A. DE hco, op. cit. pag. 26. (25) Cfr. Atti parlamentari dell’epoca.
abitazioni perpretato a scopo vendicativo, ma in nome di una legge e di un governo, che volevano un nuovo ordine e l’unità degli Ita¬liani? Nella mente mia e di tanti miei coetanei risuonano ancora gli accenti commossi con cui alcuni vecchi concittadini, scampati all’eccidio e ancora viventi durante la nostra fanciullezza, rammen¬tavano con esecrazione i momenti e i particolari di quelle terribili
‘ giornate. Anche i loro figli rabbrividivano al racconto e ne hanno trasmesso fino ad oggi le amare rivelazioni con una costernazione,
, che neppure i tempi migliori avevano mitigato. Non si può negare che quelle vicende influirono moltissimo nei sentimenti degli infe¬lici superstiti e dei loro discendenti.
« Ma il sacrificio di Pontelandolfo ha forse distrutto i briganti? » Viene una gran voglia di credere, per dirla col Manzoni, che al solo trionfale annunzio della giustizia compiuta i briganti siano scom¬parsi per sempre. Eppure quello era l’interrogativo angoscioso che il suddetto on. Ferrari rivolgeva cinque mesi dopo ai suoi colleghi al Parlamento! E sarcasticamente faceva capire che i briganti bi¬vaccavano allegramente e indisturbatamente nelle campagne di Pon¬telandolfo.
Quando, infatti, egli vi si recò ricevette molti suggerimenti di prudenza e di biasimo contemporaneamente. A Maddaloni dal lo¬cale comandante ebbe una scorta di venti soldati, che poi ben presto congedò, per non rimanere fucilato dai briganti con quell’« apparenza di difesa »; e poi « gli ordini di Napoli erano precisi ». Bisognava andare scortati.
Di ritorno dal paese, verso sera, si vide: « Il fuoco dei briganti che si ristoravano nella grotta di S. Maria, d’onde erano visti da tutto il paese in giro a tre leghe di distanza, e dove nessuno pen¬sava alla possibilità di assalirli » (26).
Giustamente uno scrittore, molto documentato sulla storia del brigantaggio, ci presenta questa osservazione: « Col terrore i gene-rali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei «cafoni» con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e va¬lida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popo¬lare con le vittime »(2î). Comunque, però, non mi sembrano rispon¬denti alla verità, almeno in genere, le parole del ritornello della can= zone fatta conoscere nella prima puntata. Certo le reazioni intime e
(26) Dal su citato discorso dell’On. Ferrari. (27) A. DE Inco, op. Cit. pag. 27.

impotenti dei cittadini di Pontelandolfo, rimasti dopo il 14 agosto, dovettero suscitare quei sentimenti; ma in loro prevalse, col tempo, la certezza sì di un’ingiustizia subita con violenza e contro ogni senso anche minimo di umanità, ma poi anche dignitosamente il coraggio di riprendere il cammino con le proprie forze e col proprio lavoro, pur non dimenticando mai; ogni pietra finanche era uno stimolo alla memoria.
Luigi Guanella, un Beato vissuto in quell’epoca, in un suo libriccino (28) lamentava che in quel periodo molti abusi erano stati commessi e che due paesi, Pontelandolfo e Casalduni, erano ancora in fiamme e il suo monito era rivolto ad annunziare l’opera sociale svolta dal cristianesimo. Gli Italiani, di sicuro, non avrebbero tanto sofferto se l’avessero accolta.
UNA IRRUENTE REQUISITORIA
DELL’ON. AVV. GIUSEPPE FERRARI
NELLA SEDUTA PARLAMENTARE DEL 2 DICEMBRE 1861
La seduta parlamentare alla Camera del 2 dicembre 1861 ebbe per protagonista l’Ori. Giuseppe Ferrari, un avvocato milanese, noto oltre che per le sue idee politiche, che lo tenevano all’opposizione, anche per apprezzati studi su Giambattista Vico. A leggere i reso¬conti di quella giornata, la sua dovette essere una parola robusta e accusatrice che, provocando sdegno e rossore, scosse e turbò intensa¬mente il Primo Ministro Ricasoli e i colleghi.
L’argomento era Pontelandolfo con i fatti e i misfatti che la avevano interessata nei giorni del recente agosto. Quello che maggiormente colpisce e desta meravglia è il dover constatare che sol¬tanto una voce, quella di un deputato settentrionale, ebbe il corag-gio di presentare alla Camera, fra la commozione dei più e lo sba-lordimento di tutti, gli orrori commessi nell’Italia Meridionale e particolarmente in Pontelandolfo,, dove si raggiunse il colmo dello strapotere e dell’efferatezza dei militari.
L’On. Ferrari volle rendersi personalmente conto di quanto le cronache del tempo raccontavano adulterando, atti e motivazioni e di sua iniziativa intraprese un viaggio per Napoli e di là, il 1° no¬vembre 1861, a Pontelandolfo-circa tre mesi dopo gli avvenimenti (29).
(28) Luici GUANNELLA, Le glorie del Pontificato, Ed. Eusebiana, Milano 1887.
(29) Tutto è desunto dal discorso dell’On. Ferrari alla Camera il 2-12-1861.
Nessun commento e nessuna sintesi risulteranno più efficaci della sua impetuosa requisitoria e quindi mi limiterò a riferire brani del suo discorso come risulta dagli Atti parlamentari, che rappresenta anche un’autentica rivelazione e una nuova valutazione di alcuni fatti risor¬gimentali. I
Anzi tutto egli è« letteralmente inorridito per i soprusi, le prepotenze, le angherie, le incomprensioni, che con leggerezza pari alla iniquità furono riservate alla italianissima, generosissima, civilissima, neglettissima Napoli ». Dopo avere parlato di « più di ottanta paesi… taglieggiati, sconvolti, insanguinati, abbandonati in preda al saccheggio» prosegue: « Nel turbinio degli avvenimenti, le morti si moltiplicano nella immaginazione del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino napoletano che, reclamando teme d’esser sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non potevo sapere come Pontelandolfo, una città di cinquemila abitanti, fosse trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per, verificare i fatti con gli occhi miei. Mai io potrò espri¬mere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incen¬diata… vie abbandonate, a destra e a sinistra le case erano vuote e annerite : si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti. Dalle finestre vedevasi il cielo… Poi mi fu vietato di progredire : gli edifici, puntellati, mi¬nacciavano di cadere ad ogni istante. Soltanto tre case furono ri-sparmiate per ordine superiore; soltanto tre case in una città di cin-quemila abitanti! Chi può dire il dolore di quella città?»
Poi la voce dell’oratore si fa più calda e ammonitrice e prose¬gue impavida mentre il Primo Ministro, oscuro come la notte, con¬tinua a prendere appunti: « Mi trassero innanzi un gentiluomo, il Signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella per¬sona, nobile il volto, ma gli occhi spenti lo rivelavano colpito da una calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena, appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italica. Nulla chiedo, egli disse. E ammutolimmo tutti. Avevo due figli, il primo avvocato e l’altro negoziante. Entrambi quei giovani avevano vagheggiato di lottare per la libertà del Piemonte, e all’udire che approssimavansi i Piemontesi, cosi si chiama nel paese la truppa italiana, correvano festosi ad incontrarli. Ma la truppa procede mili¬tarmente. E i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi. Poi, tolto loro il danaro, sono condannati a immediata fucilazione. L’uno cad¬de subito morto, l’altro viveva ancora con nove pallottole nel corpo. L’infelice perì sotto il decimo colpo tirato alla ‘baionetta (moto di orrore in aula). Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e, gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano davanti a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene di orrore! Qua due vec¬chie periscono nell’incendio, là alcuni sono fucilati. Gli orecchini sono strappati alle donne. I saccomanni frugano vi ogni angola,. Da lontano si vede l’incendio di Casalduni come se l’esterminazione non dovesse avere limite alcuno».
E qui la parola dell’audace deputato diventa più appassionata, incalzante e riferisce l’episodio, già accennato, della giovanetta col¬pita a morte per aver voluto salvare il proprio onore. La descrizione fa rabbrividire e infiamma la reazione secca e immediata dell’On.
,
Ricciardi (30): « Commissione d’inchiesta! morte ai colpevoli! » Al¬cuni intervengono per farlo tacere, ma non tace il Ferrari che pro¬cede imperterrito e implacabile: « Intendo la vostra voce, Signori, l’immortale voce di tutti i burocrati italiani : non si poteva fare di¬versamente. Ma in che cosa Pontelandolfo aveva fallito? Ve lo dirò io. Pontelandolfo ha l’unica colpa di essere fieramente atteggiato su un monte, in mezzo ai monti, in mezzo alla catena del Matese, donde ai trabalzi si va dallo stato romano fino a Cancello, a un’ora da Napoli. Da Pontelandolfo si scopre un’enorme estensione di terreno ondeggiante, e quasi danzante, e nessun milite, nessuna pattuglia potrebbe avvicinarglisi senza essere scoperta a più miglia di distanza. Indovinate l’importanza di questo posto per i briganti, se potevano accamparvisi, se potevano concentrarvisi, i briganti e la mala gente di Morcone, Fragnetello, Campolattaro, essi potevano spargere il terrore fino nei dintorni di Napoli, e difatti appena si udì che Ponte¬landolfo era da essi invasa, il terrore nei dintorni fu tale che fino a Solopaca le autorità inviarono le donne e i fanciulli a Napoli, rac¬cogliendo ogni arma per resistere».
Il torto dunque di Pontelandolfo proveniva dalla sua situazione topografica e la strategia di un luogo, lo si sa molto bene anche per esperienze non lontane come quelle dell’ultima guerra, diviene una calamita appetitosa per premeditate aggressioni e per distru¬zioni credute difensive o offensive. Ed allora la guerra, la lotta, il così detto risanamento non ammettono attenuanti; la parola d’ordine è inesorabilmente colpire senza pietà e senza discrezione.
(30) Deputato del Collegio di Foggia

Comunque tutta questa furia devastatrici; _non ottenne il risul¬tato inteso : gli indifesi cittadini caddero nell’eccidio preparato e at¬tuato dai liberatori e i briganti continuarono le loro allegre e crimi¬nose scorribande.
Dopo aver messo in rilievo queste constatazioni, destando vivaci
`commenti nell’aula, e prima d passare a più dirette accuse e colpe-volezze, l’On. Giuseppe Ferrari volle aggiungere la seguente espres¬sione: « Dopo di che, o Signori, non vi parlerò di alcuna altra città meridionale, perché ho troppo rispetto per il vostro dolore e troppo ne sono partecipe ».
DENUNCIA E IMPUTAZIONE DELLE AZIONI DELITTUOSE
AL MAL GOVERNO E ALLA AMMINISTRAZIONE MILITARE
DELL’ITALIA MERIDIONALE

Mai una parola così infocata e un dito così denunciatore, in quell’epoca memoranda della storia italiana, si erano levati tanto perentori contro il Governo come quelli dell’On. Giuseppe Ferrari. I commenti alla Camera dei deputati erano svariati e risentivano delle diverse tendenze politiche; il racconto però dei nefasti eventi aveva agitato tutti. Pontelandolfo era lì con le sue rovine, con la cenere ancora ardente, con le tormentate fisionomie dei sopravvissuti a te¬stimoniare la brutalità e l’assassinio di una vendetta ignominiosa. Chi aveva visto, aveva potuto dirlo senza reticenze anche perché non stretto da legami col governo e col comando militare. Quindi l’onorevole milanese poté ergersi inesorabile e dai fatti di Ponte¬landolfo, tipico esempio di una politica sbagliata, si estese a quanto accaduto nell’Italia Meridionale ricercandone le cause e proponendo dei rimedi.
« Non ci sono piaghe insanabili, proseguì nella progressiva denuncia; se qualcosa c’è da sanare, è la nostra, la vostra politica. Do¬mandatevi se il sangue stesso degli uomini sacrificati onori il nostro Regno, il quale sorge pur sulle terre di Filangieri e di Beccaria, maestri di umanità e pur sulle terre dove sotto i migliori governi napoletani non v’erano briganti, e si viaggiava tranquillamente con l’oro in mano».
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Questa aperta imputazione e lo sconcertante riconoscimento di tempi passati più sicuri sfrenarono moti di insofferenza nell’aula par¬lamentare specialmente al centro, dove i deputati mal volentieri ` ascoltavano e si turbavano alle categoriche affermazioni di ben de¬terminate e tragiche realtà.
Ma l’instancabile ed incisiva eloquenza del Ferrari li affrontò tutti e li invitò a riconoscere le loro responsabilità.-« Fate —voi- stessi, Signori, egli disse, la vostra inchiesta : vedrete se avete permesso voi alla reazione di scoppiare, ai briganti di corrompere interi paesi, alla popolazione di molti luoghi di turbarsi. Così abbiamo trattato i nostri fratelli meridionali. E giacché ho citato Rinaldi, vi ripeterò lo parole che quel gentiluomo, orbato dei figli ed acciecato ad opera dei nostri saccomanni, mi disse: non domando niente, non mi la mento di nulla».
Al ricordo del Rinaldi, che raccoglieva nelle brevi ma penetranti parole, lo strazio del suo cuore, della restante popolazione di Pontelandolfo e forse di tutta quella dell’Italia Meridionale, un senso pro¬fondo di commozione pervase l’aula e particolarmente le tribune. L’opinione pubblica cominciava ad essere scossa; il morale rinnova¬mento economico ed amministrativo, tanto pomposamente annun¬ziato, falliva paurosamente, le acclamazioni festanti e plebiscitarie, che accompagnarono il passaggio dei trionfanti condottieri, echeg¬giavano affievolite. I responsabili, i veri colpevoli dei burrascosi e disonoranti avvenimenti del Sud, nella dialettica aspra e convin-cente dell’oratore, non si annidavano sui monti del Matese e dello Aspromonte e neppure nelle assolate campagne delle Puglie o tra i boschi della Basilicata; ma essi erano altrove, forse davanti a lui, pronti per giudicare e condannare. Ma nessun fremito di contrarietà riuscì a sminuire la franca e fastidiosa mole delle informazioni e delle accuse. Queste rimbombarono sonoramente nell’aula e per la prima volta si avvertirono la presenza e l’urgenza della questione meridionale, divenuta in seguito gigantesca e decisiva per la vita stessa dell’Italia proprio per la trascuratezza e l’abbandono della durata di circa un secolo.
La requisitoria del Ferrari terminò nello stesso tono risoluto e
perorante: « Scuotetevi, o Signor, dalla inerzia, dalla disperazione, dalle astensioni. Altrimenti, o Signori… Oh, no! Oh, no! Voi non permetterete che regni la violenza e che i nostri nemici ripetano contro di noi le parole di un esiliato da Milano : Io attendo che i delitti dei Torriani abbiano superato i delitti dei Visconti ».
L’entusiasmo pervase l’aula, eccetto qualche parte del centro
dove si levò un mormorio soffocato dagli applausi. Qualche onore-vole non riusciva a trattenere le lacrime, i deputati meridionali esprimevano la loro gratitudine con strette di mano, abbracci, con¬
gratulazioni. La figura dell’On. Ferrari ne uscì sempre piú improntata a quei sentimenti di umanità e di federalismo, che ne informa¬rono tutta la vita.
Purtroppo la sua parola così vigorosa e realistica rimase nella aula parlamentare _ senza produrre nessun efficace mutamento; gli stessi deputati meridionali, eccetto qualcuno e non della nuova fede
-istituzionale, non seppero trarne vantaggio per la loro opera a difesa delle popolazioni, da cui erano stati eletti e ne rappresentavano le aspirazioni. Dopo qualche anno tutto ritornò nell’indifferenza come se nulla fosse successo.
Ho voluto riservare a questo punto una frase dell’On. Ferrari, accolta da vivissimi applausi :,”GIi amici della libertà +no pronti ad ogni perdono, ma ci guardano e attendono molto da noi ». E a proposito mi sembra molto opportuno riportare qui le parole di una canzone, cantata allora a Napoli da ogni ceto del popolo e composta dall’illustre maestro potentino Francesco Stabile, morto qualche anno prima. Le parole, sempre attuali, sono le seguenti: « Benvenuta, o, Libertà: – nelle gerla che ci porti – a placare i nostri Morti – che immolaronsi per te? – Alla mia Basilicata – le ferite di aspra guerra – non sanasti:. la mia terra – eroi e martiri ti dié. – E tu in cambio che ci hai dato? – Della speme hai fatto strame, – tu ci hai dato pianto e fame: – non fa niente: viva il Re! » (31)
INCHIESTA PARLAMENTARE SUGLI AVVENIMENTI
NEL MEZZOGIORNO – NOMINA DI UNA COMMISSIONE

Durante la fiera requisitoria dell’On. Ferrari, in un punto in cui si denotava una turpe e insultante soverchieria nel pervertimento verificatosi a Pontelandolfo, si levò, come è stato accennato, solitaria e risentita una voce: quella dell’On. Ricciardi del collegio di Foggia, acceso meridionalista, reclamando « una commissione di inchiesta, morte ai colpevoli ». Quella proposta, la più appropriata, che potesse essere avanzata. per attribuire responsabilità, riconoscere e riparare adeguatamente errori, non fu ascoltata; anzi venne sopraffatta dal-l’intervento clamoroso di alcuni deputati.
Già qualche giorno prima e precisamente il 20 novembre 1861 (32,), il Duca di Maddaloni Marzio Francesco Proto, deputato del collegio di Casoria e acceso sostenitore dei Borboni, aveva appoggiato una sua mozione di inchiesta parlamentare con una docu¬

(31) Cfr. Roma, 26-11-1961 n. 329 pag. VIII. (32) Dagli Atti parlamentari dell’epoca.
mentazione di fatti impressionanti e delittuosi. Non mancavano ap¬prezzamenti del regime passato. Ma l’attenzione veniva distratta da¬gli esecrandi e vicinissimi misfatti di Pontelandolfo e Casalduni a tutta l’Italia Merdionale, dove purtroppo in più località analoghe situazioni si erano verificate, a tutta una politica governativa, esercitata senza lealtà, senza giustizia e seilza promozione di civili isti¬tuzioni.
La serietà e la severità delle argomentazionin non convinsero il -governo e i suoi fautori, forse anche perché il suddetto deputato aveva avanzato una proposta anacronistica e antiunitaria : la restaurazione del Regno delle due Sicilie, propugnata da lui, anche sulla «Gazzetta di Torino», ma duramente commentata dalla Direzione e severamente condannata dal popolo di Casoria, di cui era rappre¬sentante (33).
Comunque l’On. Marzio Francesco Proto ebbe il coraggio di dare le sue dimissioni da deputato quando la Presidenza della Ca¬mera decise di non accogliere neppure la richiesta che la sua mo¬zione fosse posta in discussione.
L’opposizione però non diede tregua al governo con insistenza tenace e pungolante, durata circa un anno e mezzo, e il 16 dicembre 1862 fu nominata una Commissione parlamentare di inchiesta com¬posta dai deputati onorevoli Saffi, Sirtori, Romeo, Castagnola, Ciccone, Argentino, Bixio con l’ori. Massari che ne fu il relatore. Oggetto delle indagini non furono i fatti narrati precedentemente, ma il fenomeno del brigantaggio meridionale.
Non fu agevole l’espletamento dell’incarico né si poteva atten¬dere una parola sinceramente chiarificatrice e oggettiva da una com¬missione scelta in una seduta parlamentare segreta e referente nelle sedute segrete del 3, 4 e 5 maggio del 1863. Tutto allora fu tenuto nascosto; soltanto qualche onorevole componente la commissione ma¬nifestò non troppo decisamente il suo e l’altrui pensiero attraverso qualche sporadica relazione o intervista giornalistica.
L’atteggiamento del governo, il conferimento di ben quattro medaglie d’oro agli ufficiali superiori partecipanti alla lotta contro il brigantaggio, sopra tutto la promulgazione della «Legge Pica» il 15 agosto 1863, fece capire il risultato delle indagini e delle discus¬sioni: la colpa era del Sud. L’accennata legge, infatti, encomiando i mezzi usati nella lotta contro il brigantaggio, comminava pene più severe, istituiva tribunali militari, autorizzava inesorabili repressioni di massa nell’Italia Meridionale.
(33) Il Pungolo (edizione napoletana) 1-12-1861.

É così ancora una volta l’azione persecutrice gettava una coltre di silenzio su fatti disonoranti, rendeva arretrato il Sud, ne conculcava le aspirazioni ne deformava il desiderio dell’inserimento nella civile convivenza fondata sulla giustizia e sull’uguaglianza.
In questi ultimi tempi il suddetto periodo è stato oggetto di
_ attento studio e di diversa valutazione da scrittori e storici nello intento di fare un po’ di luce, coi documenti resi pubblici o, sco¬perti negli archivi, su una vicenda tanto dolorosa e tanto deleteria
‘ per l’avvenire delle popolazioni meridionali. Potrebbe trattarsi di un riesame degli avvenimenti e di una critica demolitrice delle loro tradizionali interpretazioni ed esposizioni. Non ho intenzione in questo resoconto storico limitato, di entrare nel merito della que¬stione, interessantissima e quanto mai opportuna oggi in cui il pro¬blema del Mezzogiorno è divenuto scottante e incidente su tutta l’economia nazionale.
Moltissimo quindi si potrebbe dire ancora su questo argomento come pure sulla storia antica e moderna della cittadina di Ponte¬landolfo, principale proposito di questo breve studio; di ciò in altro e più propizio tempo.
Altre opere particolarmente consultate oltre quelle citate nel testo:
ALFREDO ZAzo, Nuovi documenti sulla reazione di Pontelandolfo e Casalduni, –
(7-14 agosto 1861) in SAMNIUM, 1951 n. 3 e dello stesso: Per Egildo Gen¬
tile, Amministrazione Comunale di Pontelandolfo; Salerno, 19733.
EGILDO GENTILE, Il Castello e la Terra di Pontedandolfo, Trani-V. Vecchi, 1905. DANIELE PERUGINI, Monografia di Pontelandolfo, Campobasso – Stabilimento del
Progresso 1878.
CARLO ALIANELLO, La Conquista del Sud, Milano – Rusconi Editore 1972. FRANCO MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano – Feltrinelli 1964. MANLio LUPNACCI, Il Risorgimento riveduto e scorretto dal Corriere della Sera
del 21-6-1972.
A. C. IEmoLO, L’antirisorgimento, un mito. La conquista del Sud. dalla Stampa del 17-6-1972. –
TREVELYAN MACALAY GEORGE, Garibaldi e i Mille, Bologna, Zanichelli, 1910;
ID. Garibaldi e la formazione dell’Italia, Bologna, Zanichelli 1913.
P. VALLE, Sul sentiero della gloria, Città di Castello, Lapi 1895. .
DOMENICO BARTOLI, È di moda rimpiangere i Borboni di Napoli in Epoca Sett.
17-2-1972, n. 1159.