Incontro e intervista con Maria Grazia

Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Roma contemporanea” di Edmond About-Milano 1861

Pag. 241-244

MARIA GRAZIA

Ben tosto la mia amabile guida mi fece chiamare per presentarmi il suo antico modello. Io vidi una creatura grande e robusta di cinquanta a sessant’anni, guercia e quasi cieca, ma piena di buon umore e di salute. Essa parlava lestamente, con una voce veramente maschia e in tuono burbero; nonostante mi fece buona accoglienza. L’arrivo del suo benefattore e del suo antico padrone, che aveva forse qualche cosa di più per essa, le cagionò una soddisfazione evidente, ma la sua gioja non aveva nulla di espansivo nè di fragoroso. Si riconosceva nelle sue maniere quell’impassibilità villereccia, che ha la sua sorgente nell’abitudine di lavorare e di soffrire. Il suo costume era affatto moderno e simile a quello delle contadine di Bievre o di Montreuil. Ella preferiva evidentemente le vesti d’indiana ed i fazzoletti di Lione agli ammirabili tessuti di lana scura che avea portato in sua gioventù e “voglio sperare che avrete portato i vostri vestiti della festa.” La nostra risposta la contrariò assai. Ella strinse le spalle e disse: “non si crederà mai che voi siate signori. domani è la festa di sant’Antonio, patrono di Sonnino. Vi sarà processione, corsa di cavalli, e fuochi d’artificio. La nuova banda suonerà delle arie dalla mattina fino alla sera; imperòcchè nol abbiamo una banda composta dei migliori giovani del paese. Essi hanno imparato la musica, e hanno comperato degli stromenti, che peccato che non abbiate portato i vostri abiti neri!”

Noi ci scusammo alla meglio, io specialmente, che desideravo ottenere le sue buone grazie. Le feci tanto bene la corte, che mi promise di raccontarmi al domani la storia della sua vita. Ma a che scopo! diceva ella col suo tuono brusco, “Io ho vissuto come le altre, e non mi è accaduto nulla di straordinario; tutti a quell’epoca erano nella stessa mia condizione.”

Ci fu servita la cena, ma Maria Grazia non volle parteciparvi; però ella accettò un bicchiere di vino e ne bevette diversi. “Ciò fa bene, diceva essa, è molto tempo che non ne avevo bevuto, perchè questa mercanzia è ad un prezzo eccessivo.”
Il nostro ospite fece togliere le posate dei nostri domestici, allorchè seppe che non avevamo l’abitudine di mangiare con essi. Ci presentò il suo futuro genero, un giovane ingegnere che aveva l’aria di un collegiale.
Io manifestava il mio stupore, che dei ragazzi così giovani si sposassero per farne degli altri; mi si rispose che era l’uso.
A Sezza, nei paesi malsani, le ragazze si maritano ancora più presto, e si vedono delle adolescenti di quindici anni passare a terze nozze. I mariti muojono sì presto intorno alle paludi Pontine!
Il pasto fu buono e soprattutto abbondante. Noi non avemmo a lagnarci di nulla, fuorchè della cortesia eccessiva dei nostri ospiti. In queste montagne gli uomini si servono prima delle donne, quando però quelle osano mangiare dinanzi a loro. Ma l’uso impone un grande scialacquo dì complimenti. “Buon appetito. -Grazie. – Voi siete il mio padrone. – Accomodatevi come vi piace. – Fatemi il favore. – Davvero, è troppo! Voi mi colmate. Io non saprei come riconoscere. – Con vostro permesso.
-Desidero che questo pasto vi faccia buon pro! Vi sbarazzerò della mia presenza. -Addio.. – Buona sera. – Buona notte. -Dormite bene. -La Madonna vi accompagni! – E notate bene che al principio il padrone di casa vi ha detto: Noi vi tratteremo alla buona, senza cerimonie, senza complimenti.”

Io dormii come si dorme in viaggio.
La seguente mattina uscendo dalla mia stanza, incontrai il giovine ingegnere che si offrì gentilmente di farmi vedere la città e la fiera, lo che accettai ben volontieri. Strada facendo lo confessai un poco. Egli aveva fatto i suoi studj a Roma, e aveva frequentato i corsi della Sapienza. Nel mentre studiava le matematiche aveva trovato il tempo di leggere alcuni volumi di Voltaire e di Rousseau; leggeva il francese ma non lo parlava. Rousseau era il suo favorito e più volte s’era riunito con alcuni camerati per commentarlo a porte chiuse. Egli giudicava il governo pontificio come tutti gli uomini della classe media, e sperava di vivere abbastanza per vederlo rovesciato. Intanto faceva istanza per un impiego nei lavori pubblici. .

La fiera si teneva alle due estremità del villaggio. Io contai una dozzina di botteghe discretamente mal assortite. S’indovinava al primo colpo d’occhio, che Sonnino non era la capitale del commercio. Alcune pezze di tela, alcuni fazzoletti di seta o di cotone, un po’ di rame da cucina, e delle stoviglie ordinarie, molte corone, e ciliegie in quantità: ecco tutto ciò che io ho registrato nelle mie memorie. Aggiungete un fondo di libreria consistente in istorielle da un soldo, e in lamenti edificanti; infine un carico di assiccelle sottilissime, che il mercante adatta in un momento per fabbricare sedie, bauletti, poltrone e perfino dei canapè.
Le strade cominciavano a empirsi di gente; gli uomini erano magri, grandi e bruni; le donne leggiadre e dilicate. Il costume nazionale, che è insieme severo e spiccante, spuntava qua e là, ma le stoffe di seta moderne che finiranno per tutto invadere, guastano già la toeletta delle donne. Uomini e donne avevano dei fiori in mano, in bocca, od in testa.
La folla andava e veniva senza sdrucciolare lungo le scale umide. Di quando in quando bisognava incollarsi sul muro per lasciare libera la strada ad un mulo, ad un asino od a qualche piccolo greggie di animali neri; vi ho già spiegato questo eufemismo.
La strada di mezzo s’allarga un poco in certi siti per formare ciò che si chiama la piazza. Domandai al mio giovine ingegnere, se non era là che si era piantato il cavalletto sotto il pontificato di Leone XII? Rispose che non ne sapeva nulla, e si mise a parlar d’altro.
Mi mostrò il palazzo del governo, una vera catapecchia, ove regna un giudice governatore con settecento franchi al mese, assistito da un cancelliere con cinquantatre franchi e mezzo.
Io riconobbi la porta s. Pietro per averne udito parlare molte volte. È quella ove anticamente si appendevano entro gabbie le teste dei briganti che si erano lasciati prendere. Al dì d’oggi non vi si vede più che lo stemma del papa. Il mio Cicerone mi assicurò, stringendosi nelle spalle, che non vi è mai stato appeso altro; io lo pregai di mostrarmi l’area di qualche casa fatta radere al suolo da Leone XII per i misfatti del suo proprietario, ma mi disse non aver mai inteso a parlare di quelle strane esecuzioni.

All’incontro mi fece visitare una casa grande da contadino con una torre in rovina da un lato. Un custode od intendente che vi alloggiava, ci condusse in alcune stanze quasi nude, ammobigliate con sedie di paglia e letti di legno dolce. Cinque o sei mobili dorati bellissimi, di stile rococò, giacevano vergognosamente sul granajo. S’incontravano qua e là delle imagini volgari, dei Gesù di cera colorati, delle litografie rustiche. In una specie di sala, un piccolo s. Pietro di legno intagliato guardava gravemente quattro statuette di gesso semi-decenti. Era una. donna che allaccia il suo busto, un’altra che annoda la sua giarettiera un’altra che cerca le pulci nella sua camicia. In questa casa è nato il più illustre dei figli di Sonnino, e colui che ha dato le maggiori brighe ai diplomatici dell’Europa: S. Em. il cardinale Antonelli.
Il custode non ci lasciò partire senza mostrarci il luogo principale della casa. È un magazzino in cui vi si raccoglie un enorme quantità d’olio d’oliva in pozzi di muro. La famiglia Antonelli compera l’olio al minuto dai piccoli coltivatori di Sonnino, per rivenderlo all’ingrosso ai negozianti di Marsiglia.

Il suono delle campane e la musica della banda ci avvertirono che la festa religiosa stava per incominciare. Si celebrava una messa grande in onore di s.Antonio nel convento ove avevamo lasciato i nostri cavalli. Noi vi giungemmo un momento prima della cerimonia, intanto che i contadini e le contadine apportavano i loro voti e le offerte ai piedi del santo. Ciascuno dava ciò che aveva, e domandava ciò che gli mancava, il tutto ad alte grida. Una madre presentò il suo fanciullo ammalato, dicendo a s. Antonio: Guariscilo, o prendilo !

La messa durò lungo tempo. Quando fu terminata, la processione uscì. Quasi tutti gli uomini di Sonnino sono inscritti in una confraternita, di cui portano il mantelletto ed il cappuccio. La confraternita delle Anime del Purgatorio è la più nobile, vale a dire che si compone dei contadini più agiati. Quelle del Corpo di Gesù e del nome di Maria sono rivali. Insorse fra loro una disputa per il passo, e vidi il momento in cui i mazzieri stavano per giuocare di bastone. Tuttavia si limitarono alle ingiurie, l’ordine fu ristabilito e un lungo corteggio irto di croci e di stendardi s’innoltrò inciampando nelle contrade della città. La processione era chiusa da un vitello adorno di nastri, offerta un po’ pagana, che un possidente aveva fatto a s. Antonio. Il donatore menava devotamente l’animale, cui teneva con una mano per la testa, e coll’altra per la coda.
Bene spesso il corteggio si fermava. Ora compariva uno stendardo che non poteva passare sotto una volta, ora un fanciullo che cadeva, ora i portatori di s. Antonio che si davano il cambio, ora il vitello finale che rifiutava d’andar più avanti. Ad ogni stazione qualcuno gridava: Ave Maria ! ciò che nello stile di processione vuol dire: fermatevi !
I pochissimi abitanti che erano rimasti in casa, se ne stavano alla finestra e facevano piovere dei fiori di ginestra o delle foglie di garofani.

Noi eravamo corsi avanti, e ci eravamo collocati in un angolo della piazza. Ivi feci conoscenza col medico comunale, che venne a presentarsi a me senza cerimonie. Il medico comunale è un personaggio piuttosto importante in queste piccole città. Ha studiato a Roma, ed ha ottenuto il suo posto al concorso. La comune gli paga sui suoi redditi un emolumento fisso, affinchè curi gratis i ricchi ed i poveri. È lo spirito municipale d’Italia che ha creato quest’instituzione, che meriterebbe di essere introdotta in Francia. Il mio nuovo interlocutore mi raccontò che riceveva mille seicento cinque franchi all’anno, e che il suo collega chirurgo era pagato sullo stesso piede. È più che sufficiente in un paese, ove una casa discreta si affitta sessanta franchi, e ove una persona sola può nutrirsi con soli dieci soldi al giorno. Egli mi disse che la municipalità di Sonnino è ricca, mercè l’estensione del suo dominio comunale. Essa ha novanta mila franchi di avanzi, che destina a ristaurare il palazzo di governo, e specialmente a migliorare le strade. Gli abitanti sono assai sobrj e molto laboriosi. Quasi tutti possedono un piccolo pezzo di terra; sono poveri, ma non vi è neppur un indigente. La salute pubblica è abbastanza buona. La febbre vi domina poco o niente; soltanto alcune gastriti acute cagionate secondo ogni apparenza dalla farina di grano turco. L’istruzione pubblica non è brillante, poichè sopra trenta adulti non se ne trova uno che sappia leggere. Ma quaranta fanciulli del sesso mascolino vi frequentano le scuole: le fanciulle sono in maggior numero per la semplicissima ragione che desse sono meno utili nei campi. La cifra esatta della popolazione è di due mila cinque cento cinquantotto individui, di cui trenta ecclesiastici.
« Va benissimo, dissi al dottore. Ma parlatemi un po’ del brigandaggio”.
Gettò gli occhi su di me, poi sul mio vicino l’ingegnere, ed un furtivo sorriso brillò ne’suoi occhi. Sorriso eminentemente italiano, pieno di cose, e più istruttivo d’un discorso intero. “Mi chiedete se le scorrerie guastatrici sono sempre in uso in queste campagne ? Purtroppo si! I nostri contadini si farebbero scrupolo di rubare un soldo sulla via, ma considerano quasi siccome un giuoco innocente il furto de’frutti, dei grani e de’foraggi. Quanto alle coltellate, non sono nè più rare nè più comuni qui che altrove. Dipende molto dalle vendemmie. Si ammazza minor gente quando il vino costa più caro”.
Non era precisamente quello ch’io gli dimandava, ma però non mi arrischiai a ripetere l’interrogazione. Il giovane ingegnere contava senza dubbio alcuni de’ suoi antenati fra gli eroi della porta San Pietro, ed io era già stato abbastanza indiscreto parlando del brigandaggio in sua presenza.
La processione alfine era passata; i più tardivi raddoppiavano il passo; il povero vitello, sfinito dalla fatica, s’era da ultimo fatto portare. Tornammo quindi a casa, dove il pranzo ci aspettava e dove il nostro ospite ci narrò, che una donna ammalata era spirata appunto in quel momento che s. Antonio passava dinanzi a lei. I parenti dell’estinta si consolavano, dicendo che il santo l’aveva presa con sè.
Gli abitanti di Sonnino hanno un passeggio, di cui a buon diritto vanno superbi. È una strada lunga un miglio, costrutta a forza di braccia sulla sommità della montagna. Comincia alla porta San Pietro , e finisce ad un gruppo di verdi querce. II suolo è abbastanza compatto da potervisi correre in carrozza; ma sgraziatamente le carrozze non potrebbero salire fino là su. Vi si fanno correre cavalli nel giorno della festa, quando la Provvidenza permette che se ne trovino in quel paese.
La corsa era promessa per le 22 ore, vale a dire doveva cominciare due ore prima della caduta del giorno. In attesa dello spettacolo, mi recai da solo nel boschetto delle verdi querce, dove le vacche avevano lasciato larghe tracce del loro passaggio. Tuttavia mi assisi alla meglio sopra un tronco, e m’accinsi a nota colla matita ciò che aveva visto e inteso fino dal giorno precedente. Tutt’ad un tratto il cielo si offuscò, era un temporale che passava , venendo dalle montagne di Napoli. La luce scomparve d’improvviso, e la valle si coprì de’più fantastici colori. I lampi ed i fulmini si rendevano più frequenti, e poco dopo credetti sentire il tuono anche sopra il mio capo.
Non potevo ripararmi nel villaggio, senza affrontare per un buon miglio una grossa pioggia, ed ero vestito con panni leggerissimi. Mi rassegnai dunque a rimanere dov’ero fino alla fine dell’uragano. Però il cielo mi mandò compagnia numerosa, chè parecchi pastori, mandriani, custodi di buffali di capre e di pecore, vennero a ricoverarsi intorno a me. Erano inzuppati fino all’ossa, eppure nessuno d’essi pensò ad indossare il proprio abito, e lo portavano sbadatamente sulla spalla sinistra, come vuole il costume del paese. Offrii loro de’sigari, ed essi volenterosi gli accettarono, per isminuzzarli nelle loro pipe di legno ornate di chiodi dalla testa di rame. Un giovinotto, per ricambiare la cortesia, mi regalò delle mele verdi, che avrebbero potuto esser mature alla fine d’agosto. Aperse poscia un fazzoletto di cotone rosso nascosto sotto il suo abito e pieno di ciliegie. Ne accettai due o tre discretamente, ma egli bravamente insistette, dicendo: Non temete di divider meco queste ciliegie: non le ho pagate, ma mi appartengono per diritto di preda. Se non volete prenderne da voi stesso, aspettate, che andrò a servirvi io medesimo. – Me ne diede molte sulle prime, poi me ne caricò fin di soverchio: mi trattò d’Augusto a Cinna; e quando vide ben chiaro, che ne avevo ad esuberanza, distribuì il resto fra’suoi compagni.
Quand’io mi vidi in mezzo a quella buona gente, di cui v’era alcuno che faceva i primi passi nella vita, mentre altri avevano già varcato i dodici lustri, mi venne in pensiero di risvegliare in essi le reminiscenze del brigandaggio. Un solo di essi era stato brigante; e contava alcuni anni di servizio sotto quel famoso Gasparone, che ho veduto di poi al bagno di Civita Castellana. Ricordavasi a meraviglia del tempo in cui il cavalletto e la sferza di bue erano in permanenza sulla piazza di Sonnino; ed aveva veduto la ornata San Pietro ornata di 18 teste d’uomini, e personalmente aveva conosciuto una mezza dozzina di quelle persone. Era presente allorcbè Giuseppe De Santis morì per accidente, percuotendo il calcio del suo fucile contro la terra. Il colpo partì, ed egli ne fu ucciso. Il governatore gli fece recidere il capo e mettere cogli altri, ma indebitamente, poichè De Santis non era mai stato preso. Il mio narratore era con Gasparone, allorchè venne a staccare quella testa, a dispetto del governatore e del presidio, per dargli sepoltura. Ricordavasi di alcune altre imprese , ma parlava sì confusamente ed in un dialetto sì napolitano che, malgrado l’attenzione più fissa, io non poteva tenergli sempre dietro. Il più bel capitolo della sua epopea era la resistenza che aveva osato fare a Gasparone. Quel gran capitano l’aveva mandato a far acqua di notte ad una sorgente che doveva essere sorvegliata e “Rifiutai assolutamente, dissemi egli, asserendo d’aver risposto”: Mandami a portar via del vino dalla cantina del governatore, a rapir un bue dai pascoli del Pellegrini, andrò, se di giorno; ma di notte, in quel sito, ho troppo paura d’un’imboscata. Ammazzami, se vuoi… E vedi mo’signore, se avevo ragione! Colui che andò per comando di Gasparone invece mia ha potuto appena fuggire, con pericolo della vita, fra cinque o sei palle di fucile”.

Quest’eroe pieno di prudenza era caduto due o tre volte fra le mani de’soldati, ma aveva sempre saputo persuader loro che accudiva onestamente a’suoi affari. In somma, ei non era stato vero brigante di professione, poicbè il suo mestiere era di custodire i buoi ; ma egli aveva fatto come gli altri, finchè il brigandaggio era stato di moda nel paese.
E non è a dirsi che gli esempi severi gli fossero mancati, che anzi nella sua giovinezza aveva assistito al supplizio di venticinque masnadieri, presi e fucilati dai Francesi. Il fatto era appunto accaduto all’ingresso del boschetto, dove ci eravamo ricoverati per la pioggia; ed i loro cadaveri erano stati gettati in una caverna profonda e tenebrosa a tre miglia da Sonnino.
Gli chiesi quali fossero le cagioni che avevano fatto cessare il brigandaggio. Ciò avvenne perchè il mestiere non era più conveniente sotto il papa Leone XII. Appena preso un galantuomo, subito lo si decapitava, e non v’era più nemmeno il tempo di fuggir di prigione. Ecco come la moda ha cessato.
– Parlava di quell’epoca sanguinosa colla più bella tranquillità del mondo, senza rimorsi, senza orgoglio, senza passione, senza rancore; trattando in pari modo i gendarmi ed i briganti, il delitto e la legge; a quel modo che chi vede giucare una partita a scacchi osserva i bianchi ed i neri, o come Macchiavelli contempla la lotta del bene e del male. I suoi compagni l’ascoltavano colla stessa imparzialità italiana.
Bramai sapere s’egli rimpiangesse le sue ricreazioni antiche.

Tu sei mandriano, gli dissi , e guadagni poco. Tu mangi del pane di melgone, non bevi vino tutte le domeniche. E non rimpiangi dunque il tempo in cui non avevi che a prendere!
– E davvero, risposami, ebbi de’bei momenti, ma ne ho patito di pessimi. Non eravamo sempre i padroni, ed invece d’inseguire, si fuggiva. Del resto , non c’è da scegliere, poichè il brigandaggio non è più di moda.
La conversazione era a questo punto, quando mi saltò in capo che i miei nuovi amici avrebbero avuto bel giuoco su me, se avessero amato il pittoresco al pari de’padri loro. Spiegai loro il mio pensiero, per veder meglio come la pensassero. Buona gente, dissi loro, se foste gli antichi abitanti di Sonnino, già da qualche ora avreste frugato nelle mie tasche: siate dieci contro uno, ad un buon miglio dal villaggio dovete ben supporre che uno straniero, il quale venga fin qua, debba avere qualche scudo nella sua borsa. Vedete che sono inerme, mentre voi tutti quanti avete, oltre il bastone, un buon coltello affilato. Se gridassi ajuto, non sarei inteso; se movessi lamento, non potrei indicare i vostri nomi, che ignoro. Perchè non mi spogliate? L’ antico soldato di Gasparone non si scandalizzò della mia dimanda, e mi rispose con semplicità: Noi non faremo una cosa simile, poichè siamo galantuomini.

Dunque non eri un galantuomo quando correvi la montagna con Gasparone?
– Sì, ero un galantuomo, ma faceva quello che tutti gli altri già facevano. Era usanza di que’tempi. Ed anche allora, se tu fossi stato seduto presso di me, se m’avessi dato de’sigari, se tu avessi mangiato con me sulla stessa pietra, io non t’avrei tolto un soldo. Però se tu avessi avuto del denaro in tasca; e se m’avessi donato un ritrattino del papa, l’avrei accettato per bere alla tua salute.
Il temporale era svanito; il sole riapparve; l’ora delle corse si accostava. Già vedevamo tre cavalli uscire dal villaggio ed avanzarsi di..passo verso il nostro boschetto, dove si doveva dare il segnale della partenza. Intanto che i miei compagni giudica­ vano i corridori a dis-tanza, e scommettevano pel bajo ro, pel bianco, vidi da lungi un piccolo corteggio di circa dodici persone scendere da Sonnino per la porta S. Giovanni, e procedere di passo verso la chiesa di Sant’Antonio. “Che è ciò chiesi al vecchio mandriano. Sì direbbe che portano qualche cosa.
-E di vero, rispose egli, portano a seppellire una donna morta oggi durante la processione.
-È impossibile!
-E perchè’?
-E la legge permette di seppellire le persone quattr’ore dopo la morte?
-Eh! è forse proibito, ma tanto peggio. Da noi non si ha tempo a perdere, e quando le persone son morte, si seppelliscono”.

La defunta, appena fredda, entrava in chiesa nel momento in cui i tre cavalli arrivarono a noi. Io non sono grande conoscitore, e non ho mai appartenuto a società di corse; tuttavia mi fu facile il predire che la corsa sarebbe mediocre. I tre cavalli inscritti stavano per disputarsi senza jockey un premio di 1O scudi. Il morso e lo sprone erano surrogati da alcune palle dl piombo armate di punte per istimolarli ne fianchi. Una ventina di mariuoletti gl’inseguirono ad alte grida ed a sassate: non era già una partenza, ma qualche cosa di simile ad una spinta in fuga. A mezza strada, le povere bestie, non sentendosi più inseguite, si misero al passo, nonostante che i proprietarj accorressero verso di loro per richiamarle al dovere. La folla ebbe un bel fare a stimolarne l’amor proprio con tutti i projettili che
poteva aver fra mano, la corsa fu compiuta a piccolo trotto, e le tre povere bestie malgrado loro raggiunsero la meta.
Arrivai io stesso quasi nel medesimo tempo, quantunque non mi venissero gettati sassi, e vidi uno spettacolo ben curioso. L’autorità locale rifiutava di aggiudicare il premio, allegando che corsa viene da correre, e che i cavalli non erano corsi. Il proprietario del cavallo vincitore era abbastanza calmo, ed andava ripetendo ostinatamente: Ho guadagnato, datemi dunque dieci scudi. Ma coloro che avevano scommesso per lui erano meno pacifici, accusavano il popolo di Sonnino, gridavano al ladro, e rammentavano con allusioni abbastanza vive la vecchia fama del paese. La cosa sarebbe andata più in là, nonostante l’intervento della gendarmeria, se il vino fosse stato meno caro.
Una compagnia di suonatori continuava a percorrere le strade, e non si fermò che alla sera. Aveva salutato l’aurora, annunciato la messa, accompagnato i canti della chiesa, seguito la processione, aperto e chiuso le corse. Condusse poi il popolo ai fuochi d’artifizio, e non tacque se non coll’ultimo razzo. Era la prima volta che i giovani di Sonnino davano un concerto pubblico, ed è chiaro perciò che più ardente era il loro zelo, più caldo il loro fanatismo.
INTERVISTA A MARIA GRAZIA
Terminata la festa, si accesero alcune centinaja di torcie, e ciascuno rientrò in casa.
Maria Grazia non s’era coricata, e m’aspettava. Eccomi, diss’ella, vedendomi a rientrare, vedete ch’io sono di parola. Vorrei raccontarvi la mia storia, benehè non contenga nulla di sorprendente: ma a che pro? Che ne farete? A che vi servirà il conoscerla?
– Maria Grazia, le risposi, quando conoscerò la vostra storia, la racconterò nel mio libro. Le persone della mia patria videro già il vostro ritratto; ora conosceranno il nome vostro.
Un sorriso di compiacenza illuminò il suo vecchio viso sedette presso di me sul mio baule da viaggio, ed a mezza voce mi raccontò la storia seguente:

“Sono nata a Sonnino, ne’tempi del brigandaggio. Debbo avere ad un bell’irca cinquant’anni; bisognerebbe chiederlo al curato. A quindici anni ho sposato il mio primo marito, bravo giovane, mandriano di professione, e che possedeva qualche cosuccia. Abbiamo avuto un figlio, che in progresso è morto. Mio marito ebbe qualche litigio per le prede insieme al padrino di mio figlio: non saprei dire se fossero olive o grani che ci avesse preso, ma era una bagattella, non v’è dubbio. Ed era meglio di perdonargli. Ma mio marito lo denunciò al governatore e lo fece mettere in prigione per un mese. L’altro minacciò vendetta. Io credeva che non avrebbe fatto nulla, attesohè era nostro compare e ci aveva sempre mostrato amicizia. Tuttavia mio marito credette bene di cambiar paese, ed andossene a custodire i buoi dalle parti di Roma. Ma anche l’altro vi si recò nell’anno appresso, ed avendo trovato mio marito che dormiva in un campo, lo uccise con un colpo di coltello.
Allora feci conoscenza col mio secondo marito, ch’era nato nel regno ( di Napoli), ma abitava a Terracina, dove mi condusse, e ci ponemmo a lavorare la terra.

Non era gran tempo ch’io m’era rimaritata, quando mia sorella mi fece dimandar consiglio per isposare colui che mi aveva ucciso il primo marito.
“Le facea la corte, ed essa lo trovava di suo genio. Le risposi che facesse ciò che le piaceva; che mio marito era morto, ed io non ero una santa per risuscitarlo. Essa sposò quindi l’altro che, come vi dissi, non era un uomo cattivo, e che per noi aveva avuto molta amicizia.
“Io aveva avuto due figli dal mio secondo marito, e vivevo felice in sua compagnia, quando gli accadde un gran disastro. Egli reclamava due o tre scudi da un uomo pel quale aveva lavorato, ed il suo debitore rifiutava di pagare, atteso che era ricco e che conosceva il giudice. Allora mio marito, non potendo ottenere altra giustizia, l’uccise; quindi il poveretto, dopo quel colpo, non ebbe altro scampo che farsi brigante e correre la montagna. Capitò dalla banda di Sonnino e si mise cogli altri. Io ritornai presso i miei parenti, dove ricevevo spesso sue notizie. Ora ei veniva a trovarmi di nascosto; ora mi faceva pervenire qualche dono.
“Ma il papa Leone, che aveva risolto di sterminare i briganti, ordinò che le mogli ed i figli di coloro che correvano per le montagne fossero condotti per forza a Roma. Fui messa alle Terme insieme a molte altre donne de’nostri paesi, e vi trovai mia sorella, il cui marito era pure alla montagna, e più della metà delle famiglie di Sonnino. Il papa era salito in tanta collera, che parlava di distruggere il villaggio. Si erano trasportati de’cannoni fino sulle montagne che ci dominano, e non vi vedreste pietra sopra pietra, se il cardinale Consalvi non avesse intercesso per noi.
“Intanto che noi eravamo alle Terme, i signori e gli artisti venivano tutti i giorni, gli uni per vederci, gli altri per copiare i nostri costumi, e fu allora ch’io cominciai a servire di modello pel signor Schnetz, e mia sorella pel signor Robert. È mia sorella che fa da tamburino nel quadro della Madonnina dell’Arco. Io poi fui copiata ben migliaja di volte nel mio costume, e mi fu detto che il mio ritratto stava nelle chiese e nei palazzi del vostro paese. Eravamo trattati dolcemente, essendoci permesso d’andare negli studj d’artisti ed anche di collocarci siccoome governanti presso persone rispettabili.
Ma mio marito, ch’era un brav’uomo, siccome vi dissi, e che mi amava assai, venne a sapere eh’ io era stata arrestata; e> credendo eh’ io fossi infelice in prigione, andò egli stesso a con• segnarsi per ottenere la mia libertà e quella de’ figli. Ora il santo padre aveva promesso salva la vita e poco tempo di pri­ gione per coloro che volontariamente facessero la loro sommis. sione tra le mani del vescovo della loro provincia.

“Ma il mio povero marito prese abbaglio per ignoranza: invece di consegnarsi al vescovo di Piperno, che era il nostro, andò a costituirsi prigioniero a Terracina. E così perdette il benefiziO della legge, e gli fu detto: “Se tu fossi andato a consegnarti a Piperno, avresti ottenuto la grazia, poiché il papa l’aveva pr messo; ma sei andato a Terracina, tanto peggio per te.” – Fu mandato alle galere del Porto d’Anzio.
“I signori ch’io conosceva a Roma ebbero pietà del mio dolore, e domandarono che mio marito fosse rinchiuso in sito più vicino a me, onde fu trasferito in Castel Sant’Angelo, da cui gli fu anche concesso di venire qualche volta a vedermi. Il poveretto si diportava bene in carcere, imparava a leggere ed a scrivere, ed era un modello da imitare, onde gli fu permesso di lasciarsi copiare da’pittori, e guadagnò un po’di danaro. Sopravvennero alcune amnistie, la sua pena fu diminuita parecchie volte, a segno che in capo a due o tre anni non gli rimanevano più che 18 mesi di condanna. Eravamo contenti e pieni di speranza, e facevamo conto di costruire un piccolo albergo verso la porta Portese e di finirvi tranquillamente la nostra vita; quand’egli, che era sempre stato cosi savio in prigione, commise non so quale imprudenza. Mi pare che, in un momento di collera, abbia proferito qualche villana parola contro i santi. E per tal colpa fu condannato in vita al bagno di Civitavecchia.
“Vi dissi già ch’egli era il più dolce ed il migliore degli uomini, ma questa volta fu preso dalla disperazione; chè, quando si è tanto vicini alla liberazione, non vi si può rinunciare per sempre. Egli quindi prese concerto con un compagno di pena; ed un giorno ch’erano stati mandati a far legna fuori della città con un solo soldato per custodia, essi se ne sbarazzarono. Bisogna che la Madonna gli abbia assistiti miracolosamente in seguito, perchè abbiano potuto rompere i loro ferri, cambiar d’abiti, passare il Tevere senza saper nuotare, e pervenire a Sonnino, che è all’altra estremità dei paese.
“Ivi si difesero per più d’un anno contro i soldati dello Stato (Pontificio) e contro quelli del regno (di Napoli), che da tutte parti gl’inseguivano. Il santo padre aveva messo a prezzo le teste, in ragione di cento scudi l’una. Credete che, se resistettero sì lungo tempo, fu miracolo del loro coraggio, pratica del paese, esperienza del mestiere, ed onestà de’buoni pastori del vicinato, che preferivano denunciar loro i gendarmi anzichè guadagnare cento scudi.
“Ma da ultimo, un traditore scoprì la capanna dove s’erano ritirati a passare la notte, e furono accerchiati da soldati napoletani. Quando vollero uscire, era troppo tardi. Il compagno fu ucciso sul colpo, e mio marito ferito a morte, con una spalla fracassata.
“Sventuratamente per lui e per me, egli non morì subito, ma fu trasferito dapprima all’ospitale di Terracina, ed i soldati napolitani lo seguirono per reclamare la somma loro promessa. Ma interrogandolo s’accorsero che non era suddito del papa, ma del re. Fu dunque riconsegnato all’autorità napolitana, ed i soldati si mandarono a farsi pagare a casa loro, ond’essi s’indirizzarono al governatore di Gaeta, che mandolli al diavolo, attesochè il re non aveva promesso nulla. Cosi non furono pagati da nessuno, e sta bene!
“Quanto al mio povero marito, rimase 18 mesi nell’ospitale di Gaeta, senza decidersi nè a vivere nè a morire. Durante la sua malattia s’era fatto il suo processo, ed i giudici l’avevano condannato a morte, ma il carnefice aspettava ch’ei fosse guarito per tagliargli il capo. Perciò il poverino non aveva coraggio di guarire, ed avrebbe voluto rimaner malato fino al giudizio universale.
“Tutto ciò era ben affligente per me, tanto più ch’io vedeva mia sorella felice, e ch’io stessa aveva trovato un’occasione d’esserlo. Mio cognato, che aveva ucciso il mio primo marito, aveva fatto pace colla giustizia, e, denunciando alcuni camerati, aveva ottenuto un posto di carceriere. Guadagnava discretamente, e Teresa non aveva a lamentarsi di lui. Io poi conosceva a Roma un cappellajo che mi amava e desiderava sposarmi. Ma non poteva prendere un terzo marito, finchè non fosse ben morto il secondo. Ora in questa trista condizione, non essendo, nè nubile, nè moglie, nè vedova, presi il partito di fare scrivere una petizione al re di Napoli, perchè facesse compiere la sentenza contro il mio povero marito tal qual era, senza attendere la sua guarigione. In pari tempo cominciai con mia sorella e col cap­ pellajo una novena a s.Giovanni decollato. La mia petizione rimase senza risposta, ma la novena riuscì, poichè mio marito venne a morte, ben confessato, all’ospitale di Gaeta, ond’io sposai il cappellajo, ch’era anch’esso un degno uomo ed un marito esemplare. Ne ebbi un figlio che morì dragone nell’ospitale di Viterbo, mentre il padre morì a Roma, nella sua stanza, della morte de’giusti. Anche mia sorella e mio cognato sono morti. Ho inteso dire che quel povero Robert si era ucciso per disperazione, in causa d’un quadro. Ed io sto bene, e vivrò lungo tempo, se piace a Dio, benchè faccia gran freddo a Sonnino, che ci vegga poco coll’occhio che mi resta, e che il vino sia a sette soldi il mezzo litro.”

Ci siamo congedati da Maria Grazia e dalla sua troppo celebre patria. Ora ecco il villaggio di Prossedi, che anch’esso vanta qualche gloria negli annali del delitto. Gasparone, il gran Gasparone non era di Sonnino, ma di Prossedi.
È un borgo di 1500 anime popolato di contadini che coltivano gli ulivi ed i gelsi, e seminano grano per loro consumazione. Qui l’ignoranza è forse più grande che a Sonnino: non sono più di 15 i ragazzi che frequentano la scuola. È l’uno per cento della popolazione.

Il villaggio è costrutto di tal modo, che le carrozze non vi potrebbero penetrare. II nostro albergo è situato fuori delle porte, dinanzi al castello del principe Gabrielli, il quale è proprietario d’una buona parte delle case. La prigione della città è sua, ed il suo ministro, ossia intendente, ha due carrozze.
Il comandante di piazza è un brigadiere di gendarmeria.
Gli abitanti in mancanza di carrozze posseggono una grande quantità d’asini e di muli, chè molti di vero ne occorrono per trasportare nelle montagne tutte le cose necessarie alla vita.
Le donne sono belle e vezzose, vanno a piedi nudi, e portano, enormi fardelli sul capo, siccome le donne di Sonnino.
Il villaggio è tristo e lurido, e quasi tutte le case avrebbero bisogno d’essere riparate, ma non lo si fa a cagione della spesa. In compenso non v’è quasi nessuno degli abitanti, che non abbia fatto scrivere sulla porta: “Viva Gesù! Viva Maria! Viva il sangue di Gesù! Viva il cuore di Maria!”.Cotesto allagamento d’iscrizioni è frutto d’una missione quinquennale, che fu fatta nel mese di marzo. Il pittore del villaggio vifece fortuna, poiché ogni iscrizione in grandi caratteri gli venne pagata 25 paoli, ossia franchi 13,40.

Tutti questi villaggi si rassomigliano, onde chi ne ha veduto uno può dire d’averli veduti tutti, e sarebbe opera perduta il descriverli ad uno ad uno.
Alla mattina gli uomini vanno nei campi, le donne vanno a prender acqua e legna. Nell’ore più calde, la piccola città è deserta e come morta. Verso sera, quando il vento si rinfresca, gl’impiegati escono dai loro ufficj e vanno a sedere dinanzi al caffè. Se v’ha prelato in alcuno di questi villaggi, esso comincia il suo passeggio in calze color viola, accompagnato da due famigliari laici od ecclesiastici e seguito da un suo lacchè in gran livrea. Al cader del giorno, i mercanti di verdure dispiegano la loro merce sulla piazza, i contadini rientrano nel villaggio, carichi de’loro pesanti arnesi, e comprano qualche grama provvista per la cena. Le donne ritornano dalla fontana colla conca piena d’acqua fresca: quindi si cena e si dorme. Qualche volta parte della notte viene spesa nel sentire una predica in una chiesa ornata di bagattelle. La fatica del corpo, la sonnolenza dello spirito, l’ignoranza del passato, le difficoltà del presente, l’incertezza dell’avvenire ed una certa sonnifera rassegnazione formano il tessuto della vita di queste povere popolazioni. Una noja glaciale svapora da queile mura: vi si lavora, si mangia, si beve, si procrea, e tutto malinconicamente.

Se Roma venisse inghiottita da un terremoto, i contadini di questi villaggi continuerebbero a coltivare i loro campi, a consumare le loro raccolte sul posto ed a vegetare in una miseria abbastanza coraggiosa. Ogni piccolo municipio vive da sè e per sè sopra un suolo che non è sterile. Le contribuzioni comunali pagano il medico comunale, il chirurgo comunale, l’institutore comunale e la riparazione comunque siasi della strada comunale. Lo Stato preleva una grossa parte sui redditi d’ogni anno. In cambio dell’imposta, esso manda un giudice governatore che vende la giustizia. L’agricoltura è la sola carriera aperta all’attività dell’uomo: non v’è nè commercio, nè industria, nè affari, nè movimento nelle idee, nè vita politica, nè alcuno di que’potenti legami che attaccano le provincie alle capitali.

Di tutti gli animali utili, la donna è quello che il contadino romano impiega con maggior profitto. Essa fa il pane, la pizza, il mortajo; fila, tesse, cuce; va ogni giorno a cercare le legna a tre miglia, ed il pane ad un miglio e mezzo. Essa porta sulla sua testa il carico d’un mulo; lavora dal sorgere al cader del sole senza ribellarsi ed anche senza mover lamento. I figli ch’essa mette in luce in gran numero e che nodrisce essa medesima, sono una fonte preziosa, chè dall’età de’quattro anni vengono adoperati a custodire altri animali.

Io m’informo in ogni dove del progresso de’lumi. Quante persone sono quivi che sanno leggere? – Pochissime. – La risposta è uniforme. – Istruzione primaria.
Quando un albero ha bisogno d’esser tagliato, se ne taglia la testa a mezzo. Un tratto di sega in linea orizzontale ha ben tosto compito l’opera. Quando si ba bisogno dell’albero intero, lo si sega ad un piede dal suolo: la radice ed il resto del tronco imputridiscono sul posto. – Istruzione professionale.

Le imposte comunali sul vino, sulla carne, sui salumi, ecc., sono, affittate ad impresarj che ne ritraggono ciò che possono e vendono qualche cosa alla comune. – Scienza amministrativa.

Le tasse comunali sono assai gravi ed il contadino si lamenta d’esserne oppresso. Nei più modesti villaggi bisogna pagare un soldo di dazio consumo per 339 grammi di carne o di salumi; da 15 a 30 soldi pel più piccolo barile d’aceto; un tanto per ogni testa di cavallo, di mulo o d’asino, un tanto per ogni majale che si fa crescere in casa. Il focatico si paga da due a cinque scudi: quest’ultima imposta, a quanto ho potuto giudicare, è progressiva.
Eppure non si può dire che questa brava gente sia miserabile siccome gl’Irlandesi, per esempio: basti il dire che sono poveri. L’avere gratis il culto, la scuola, le cure mediche, compensa fino a certo segno l’enormità de’loro pesi.
Il loro lavoro sui proprj campi basta a farli vegetare fino alla vecchiaja, onde passano la vita nel guadagnarsi la vita, e la loro esistenza somiglia ad un cerchio vizioso.

Si potrebbe forse essere ben attoniti, sentendo che havvi qualche villaggio di 2000 anime che possiede una trentina di preti, se non si sapesse in pari tempo che quei preti non gli costano nulla. Posseggono de’benefizj, delle dotazioni, delle terre, grazie alla liberalità di qualche signore del buon tempo.I loro beni sono affittati, ed essi vivono d’entrata.
Bisogna dunque convenire, che cotesta moltitudine d’ecclesiastici, che sarebbe onerosa ad ogni altra nazione, costa relativamente ben poca cosa al popolo romano. Un Cardinale, a cagion d’esempio, non percepisce che 4000 scudi sull’entrate dello Stato; ed il resto delle sue rendite si compone di alcuni grossi benefizj e soprattutto delle cariche ch’egli occupa. L’accumulazione è autorizzata, e se ne fa largo uso.
In causa della mal’aria e della poca sicurezza della pianura, furono i contadini di queste terre costretti a porre le loro abitazioni sopra rupi aeree e poco accessibili. Questa usanza è antichissima, poichè buon numero di cittadelle dove noi ci fermammo sono ancora cinte di mura ciclopiche. Quando la popolazione diminuisce, si lascia cadere in ruina qualche casa; quando cresce, le persone si racchiudono in maggior numero nelle case esistenti.

Si fabbrica ben poco, per mancanza di capitali: si ristaura di rado , ed all’ultima estremità. Tutte queste città hanno l’apparenza d’essere state costrutte nello stesso giorno, e fatte d’un solo pezzo. Il contadino si accovaccia nel meschino suo tugurio, tenendo poco conto delle distanze, della ripidezza de’sentieri, e soprattutto dell’ incomodità delle case. La vita si passa nei campi.

Per questi lavoratori che sudano da mattina a sera sotto un sole ardente, sopra un suolo riarso, in strade guaste, l’uomo che rimane in casa sanza far nulla, e non esce nemmeno in strada per passeggiare, è un uomo felice, privilegiato, nobile per eccellenza e prossimo parente degli Dei immortali.
Io stava sulla piazza del Palazzo, alla porta di Prossedi, e faceva conversazione con un giovane indigeno. Questi mostravami a qualche distanza un uomo ben vestito, che veniva costretto da cinque o sei persone a salire in carrozza. Era una persona distinta della città, che, avendo smarrito la ragione, veniva condotta all’ospitale di Perugia. Ecco, dicevami quel giovane, un uomo che ha passato tutta la sua vita in casa sua, siccome un principe; non lo si vedeva fuori più di quattro volte l’anno. Ed ora viaggia sulle pubbliche strade siccome un semplice contadino.

Pagliano conta 4.150 abitanti, 50 uomini di presidio, 30 carcerieri, 150 detenuti politici, i quali l’anno scorso fecero un tentativo di evasione. Sei furono uccisi a colpi di fucile, dai tetti; altri sei saranno assoggettati a giudizio, e potranno essere condannati a morte in virtù d’un vecchio decreto del cardinal Lante, che venne or ora rimesso in vigore.

Lo stato delle strade è sì miserabile in queste montagne, e sì grande la difficoltà de’trasporti, che non si è stabilito alcun equilibrio nel prezzo delle derrate. La libbra di pane costa due soldi qui, e due soldi e mezzo a quattro leghe più lontano.
Il trasporto per queste quattro leghe val dunque mezzo soldo alla libbra. Il vino costa sette soldi la foglietta ( mezzo litro ) a Sonnino, e due soldi e mezzo a Pagliano, dove è buono; mentre a Sonnino è cattivo. Costa dunque quattro soldi e mezzo per trasportare a 10 leghe un mezzo litro di liquido.

Jeri, mentre facevamo la siesta a Pagliano, udimmo le campane suonar per temporale, ed era il quarto che incontravamo dopo la domenica. Però questa volta ne uscimmo a buon patto; poicbè caddero poche goccie di pioggia sulla fortezza, il tuono romoreggiò da lontano, e noi potemmo rimetterci in viaggio per Olevano.
Questa mane, andando da Olevano a Palestrina, abbiamo veduto le traccie d’un turbine spaventoso. I ruscelli gonfiati dalla poggia avevano invaso i campi vicini; alcune aje erano cadute sulla via con enormi frane di terra. Ma questi guasti non erano nulla; la gragnuola aveva fatto peggio: ecco noci flagellate da spesse ammaccature, i germi delle viti spezzati, le foglie degli alberi gettate a terra. Tutto che era tenero e verde, tutto che dava promessa o speranza, era perito.
Ci siamo fermati all’albergo di Palestrina; vedevasi una chiesetta, dall’altra parte della strada, tutta inondata. Nel villaggio tutti i vetri infranti, ed i contadini ci si fanno intorno per descriverci la grossezza della gragnuola ed i guasti del turbine. Direbbesi che il loro dolore ha bisogno di espandersi; nè si trastullano punto col darci dell’Eccellenza sotto il naso, ma ci danno del tu, e ci chiamano fratelli.
È cosa volgare il descrivere la miseria del contadino che vede perire in un istante il frutto di tutte le sue fatiche d’un anno. Quando si trova questa narrazione in un libro, si è quasi tentati di gridare contro l’autore: dateci qualche cosa di nuovo, per amor di Dio! D’altronde noi siamo tanto abituati a veder l’uomo crearsi mille fonti diverse, senza contare l’agricoltura, che non sappiamo come mai qualche branco di gragnuola sopra un campo possa rovinare una famiglia intera. Ma quando si è vissuto per alcuni giorni in mezzo a questi contadini, quando si sono veduti partire innanzi l’alba per lavorare il loro pezzo di terra, quando ci è noto che non hanno altro avere al mondo, e che tutto il loroavere è là, esposto al freddo ed al caldo; e da ultimo, quando si tocca col dito la distruzione della loro messe, quando si veggono i loro visi pallidi e bagnati di lagrime veraci, si scorge che questa descrizione volgare è interessante al pari del dramma più nuovo. Dimandai ad uno di quei desolati, se gli ulivi della montagna avessero sofferto quanto i campi di pianura alzò le spalle e rispose: E che sono gli ulivi? E che è mai la vite? Trattasi delle nostre granaglie, che sono perdute. Quando non c’è olio, se ne fa senza; quando manca il vino, si beve acqua; ma quando il grano perisce, non v’è pane, non vi sono più uomini!

Mi sono forse. un po’ troppo dilungato sopra un viaggietto oscuro, in cui non ebbi la fortuna nè d’incontrar belle dame, nè avventure romanzesche. Contadini, e sempre contadini! Ma il nostro diletto Alfredo Musset, in uno de’suoi più graziosi capolavori, si è dato la premura di prepararmi una scusa in rima:

Ces pauvres paysans, perdonne-moi, lecteur,
Ces pauvres paysans, je les ai sur le coeur.
XVI, IL VETTURALE.pag. 244

…OMISSIS…

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