Curletti – PAG.34 A 44 XI.

PAG.34 A 44   – XI.

Qualche settimana prima dell’ingresso de’ Piemontesi nelle Marche, io era stato spedito a Napoli. Il Gabinetto di Torino incomincia a concepire una sorda diffidenza in riguardo a Garibaldi. Sapevasi che i Mazziniani davansi gran movimento a Napoli ove erano convenuti i loro capi principali, Mazzini, Saffi, Mordini, e Mario; dubilavasi che Garibaldi, uomo dazione spirito cavalleresco, non si lasciasse circonvenire dai maneggi dei repubblicani; (1) e che finalmente te questa rivoluzione napolitana, i cui rapidi successi bisogna pur dirlo, più che alle imprese del venturo Generale doveansi all’oro del Piemonte, non riuscise a confusione di Torino.

(1) Garibaldi era fermissimo nell’idea di proseguire la rivoluzione italiana a nome di Vittorio Emmanuele, e non piegava a Mazzini in Napoli se non come aveva piegato a Crispi in Sicilia; cioè per sentimento democraticò, convinto che l’intervento dei Piemontesi e di Lafarina guasterebbe il movimento unitario che ei si era prefisso di completare, una volta messo il piede sul continente Napoletano. Intorno a questo proposito soltanto, ei riceveva i consigli del Crispi e del Mazzini; e non alla forma governativa; pruova ne sia che proclamò subito lo statuto Sardo appena giunto in Calabria. Nè Mazzini, Saffi, de Boni, Mario e Miss White si brigavan d’altro che di proseguimento di guerra insurrezionale: e prova ne sia che avevan già preparato il terreno, mercè l’opera de’ Comitati, nell’Umbria e nelle Marche in cui Nicotera lavorò moltissimo, e poi il rapace Piemonte usufrui al suo solito, all’epoca della discesa in quelle Provincie, con alla testa Cialdini. I Comitati passavano agevolmente da Mazzini a Vittorio Emmanuele per le ragioni esposte nella nota antecedente Vedi “l’Unità Italiana” di Genova, di quel tempo, che pubblica tutti i documenti, e prova come ogni paesetto di quelle regioni aveva il suo Comitato).
Garibaldi (che in privato detesta Vittorio Emmanuele come Vitt.Emmanuele detesta lui), in pubblico ne è lo sviscerato amico; è infatti insinuava a tutti amore per questo modello di re…. cosa che faceva scompisciar dalle risa i suoi amici. Ma egli susurrava loro in privato. Siete in pochi; la maggioranza è contro di voi: fatevi in molti, e passerò dalla parte vostra. Il programma degli amici di lui era quello che è stato base al Ministero Crispi in Sicilia; se non che in Napoli vi mancavano altresì gli uomini; di noto non vi era che Zuppetta !!! e gli altri ernn poca cosa, come Anguissola. Che si poteva fare con questi ?
Si cercò di fare un’associazione unitaria nazionale per far propaganda, con manifesti e statuto di Mazzini e de Boni, ma gli accorsi quando videro non esser quistione d’impieghi disertarono in massa. Tutti si gettavan dal governo. I Mazziniani, gridati a morte dagli agenti di questo, e pubblicamente insultali nelle persone di Ricciardi e Zuppetta, istituirono allora il giornale “il Popolo d’Italia”, che uscì con manifesto di Mazzini, che dovea preparare, al solito, l’avvenire. Garibaldi, dopo essersi invano dibattuto coll’invasione piemontese (vedi il primo dispaccio di Bertani a Tripoli) dovè cedere alla piena gli 11 ottobre, e coll’animo angosciato dichiarò ritirarsi. Mazzini scomparve pochi dì dopo.
In poche parole. Il Ministero travedeva già il fantasma dell’Italia Meridionale constituila in Repubblica, sotto la Presidenza di Garibaldi. Questi, timori furono, tanto almeno quanto la posizione inquietante dell’esercito meridionale dinanzi a Capua, le ragioni che determinarono la brusca invasione delle Marche.
La mia missione consisteva pertanto nell’assicurarmi del vero stato delle cose e di combattere le influenze che avessero potuto allontare Garibaldi dagli interessi piemontesi.
Trovai Napoli immersa nel più incredibile disordine.
Il campo di Caserta in un disordine vie più incredibile. L’esercito era abbondantemente fornito di donne, Milady Wilhe e l’ammiraglio Emile ne erano le eroine: le notti trapassavansi nelle orgie… Garibaldi, la stessa attività fosse esaltamento pel successo, o semplice effetto del clima, non era più riconoscibile.
In que’momenti in cui egli non soddisfaceva alla sua passione di popolarità, facendosi acclamare per le vie di Napoli, divideva il suo tempo fra la guerra e Alessandro Dumas che lo seguiva da per tutto. Egli nulla vedeva non s’occupava di nulla, e lasciava progredire le cose a seconda.
Per fatto di questa non curanza, Napoli era l’oggetto di una speculazione in regola da parte, dei Tofano ec. Io non mi farò qui ai dettagli, si leggeranno questi nell’opuscolo speciale che io sto preparando circa gli affari di Napoli.
Però mi piace di estrarre dalle mie note un solo fatto che darà misura di quelli ch’io taccio per il momento, e il quale prova che se Garibaldi, dittatore di Napoli e della Sicilia, accontentavasi a un modesto assegno di 10 fr. il giorno, i suoi non operavano con lo stesso disinteresse.
Bertani, segretario di Garibaldi, prima della spedizione della Sicilia (1860 ) era semplice officiale di sanità a Genova, facendo visite a un franco e 50 cent.
Oggi 1861 esso è colonnello di Stato Maggiore e la sua fortuna, secondo i più modesti calcoli, raggiunge almeno la cifra di 14 milioni ! Non si conosce l’origine se non di milioni. E l’origine ancora di questa non è pura!. .. Questi 4 milioni furono la mancia che Bertani pretese dai banchieri Adami e comp. di Livorno, perchè loro fosse accordata una concessione di ferrovia, che essi grandemente sollecitavano.
Sotto il punto di vista politico, la situazione del regno di Napoli era di tal natura da ispirare gravi inquietudini al governo di Piemonte: i borbonici storditi per un istante dalla brusca e inesplicabile comparsa di Garibaldi, incominciarono a giudicare gli eventi con più sangue freddo e a contarsi l’un l’altro. S’udivano i primi moti degli Abruzii, pronti a insorgere contro i nuovi arrivati (2).

(2) È innegabile che gli abruzzesi, uniti all’esereito del re di Napoli, avrebber disperse e distrutte le bande di Garibaldi. Le condizioni di costui eran troppo infelici anche dopo la giornata del 1 ottobre, e Cialdini gliel’ha imprudentemente rinfacciato nella nota sua lettera. Ma al Piemonte premeva troppo Napoli, almeno per usufruirlo temporaneamente, ed ecco perchè si affrettò a discendere, calpestando ogni legge ed ogni ragione.
Vittorio Emmanuele fu al solito, messo innanzi ad appagare gli stolidi illusi.
Il regno di Napoli era pel Piemonte quistione di moneta come non hanno avuto ritegno di confessare gli istessi suoi uffiziali, e poi bisognava un’India ove mandar a sfamare gl’ingordi e affamati agenti che avevano lavorato al suo ingrandimento territoriale, cioè a dire per proprio utile. E il Piemonte li rovesciò tutti su Napoli; donde la lotta fra gl’indigeni rivoluzionarii, che avean creduto far la rivoluzione per proprio conto, e si vedevan strappato l’osso di bocca dai lupi subalpini e costoro; lotta che dura ancora, e che è l’anima di tutte le interpellanze napoletane in Parlamento, il riflesso di tutti i deputati di questa ragione, (eccetto i già venduti al Piemonte, come gli emigrati, Caracciolo di Bella, de Cesare, ec.).
Anche qui; ripeto, non era quistion di repubblica; Mazzini si aspettava a proclamarla ad unità compiuta, all’epoca della Costituente in Roma, ove naturalmente cadeva. Egli abbisooava ancora dell’opera del Re Galantuomo per espugnare il quadrilatero, che i rivoluzionarii in camicia rossa certo non possono, ottenere amichevolmente Roma da Napoleone III che lui, Mazzini non avrebbe ottenuta di certo. E dopo ciò, giù la maschera,non più accordo fra repubblicani e Sabaudi, ma REPUBBLICA; repubblica da proclamarsi in Campidoglio, e prima che vi ascendesse quel dabben uomo di re Vittorio; egli l’annunçiò fin dal 18S9 a Firenze, i suoi lo replicarono colle stampe nel Popolo d’Italia, all’epoca di non so qual tumulto in Napoli, nello scorso inverno. E si firmarono tutti.
Gli Abruzzesi, neppur domi dalle valorose e oneste truppe sabaude, lo furono dai Mazziniani inviati da Cialdini ad esterminarli.

Per altra parte i mazziniani accarezzavano il progetto di porre il piede in Italia, instaurando la repubblica a Napoli, e influenzarono lo spirito di Garibaldi, cui circondavano molti dei loro partigiani. Di piemontesi non era parola. ..
Sarebbe bastato un’accento di Garibaldi, o ancor più uno dell’esercito di Francesco II, per rovesciare da cima a fondo le speranze de’piemontesi.
In presenza a siffaatte condizioni, che io esposi, prolissamente al ministero, questo non poteva esitare senza venir meno al suo programma;mdappoichè non sarebbe stato possibile si fosse al­ tra volta potuto presentare più favorevole occasione per completar quasi l’unità italiana.Sarebbe riuscito ingrato pel Piemonte vedersi sfuggir dalle, mani all’ultimo momento, una conquista pressocchè compiuta (lo si credeva almeno in quel tempo), e ch’esso sapea bene d’aver comperata colla sua moneta. E pertanto il gabinetto di Torino non esitò.
Io trovaami ancora a Napoli, quando vi giunse Farini col titolo di luogotenente del re. Io fui applicato alla sua amministrazione nella qualità di capo della polizia. L’antico governatore dell’Emilia arrivava a Napoli pieno di rede nella sua abilità, e nel suo avvenire:in capo a pochi mesi ei ne partiva spogliato delle sue illusioni e nel più profondo scoraggiamento (3)!
(3)Farini non pensò che a vuotar il tesoro. In nome della luogotenenza fecero man bassa sulla Tesoreria tutti i governatori delle Provincie, nell’epoca dei 47 giorni di pieni poteri, e Ruggiero Bonghi segretario della stessa. Le noie che ha pagato allora la tesoreria son scandalose; le si doveron sopprimere e mettere in salvo a Torino, quando il “Popolo d’Italia” minacciò di tutto rivelare. Ma esso non ne sapeva più di quel che espose, e gl’incolpati furono a tempo a salvarsi. Tenevano il primo posto tra essi Scialoja e de Cesare ( stati entrambi ministro e direttore delle Finanze !!)
A suo tempo questa storia. Sappisi intanto una particolarità. All’epoca del plebiscito ei si fece fare una liberanza di 36,000 per le spese segrete che quest’atto richiedeva !! Ma di questa somma non versò nelle Casse della polizia che soli, ducati 100 !!! Gli altri entraron nella sua.

E fu solo veggendo tornai Farini vinto, che il gabinetto di Torino incominciò ad aprir gli occhi sulla situazione di Napoli e fu d uopo perchè egli ne abbracciasse tutta la gravezza, che rompesse successivamente contro le accennate difficoltà.
Dopo Farini venne la volta del principe di Carignano e Nigra, quindi di Ponza di S.Marti no e finalmente Cialdini, il quale sembra sia stato più avventurato de’suoi predecessori e che cedeva il suo posto a La Marmora. Ma non bisogna dimenticare che Cialdini riusci a paralizzare per un istante la reazione appoggiandosi ai mazzi­ niani, preparando in tal modo altri perigli per l’avvenire.
Ripeto che io qui non intendo stendere la storia degli affari di Napoli; la loro importanza e la grande quantità di memorie che sono in mio potere circa alle
luogotenenze di Farini, di Nigra, e di san Martino, m’obbligano a farne oggetto di una pubblicazione separata.
Posseggo un numero di documenti officiali e molte lettere, che emanano da principali personaggi,i quali in questi ultimi anni hanno recitato la loro parte nell’Italia meridionale, lettere e documenti che per felici azzardi son rimaste fra le mie mani e che saranno inserite in questo nuovo opuscolo (Non sarà questa la parte meno interessante e soprattutto meno istruttiva; e la pubblica opinione mi saprà grado di averle conservato gli alti insegnamenti di questi preziosi autografi.)
Vi sono poi alcune cose le quali, ciascuno m’intende, non possono azzardarsi se non colle prove alla mano.
Io abbandonai Napoli con Ponza di S. Martino arrivando a Torino, la mia dimissione m’ha resa la libertà.
Già da lungo tempo m’era risoluto di rientrare nella vita privata per trovarvi un riposo, di cui aveva gran bisogno dopo una vita straordinariamente attiva ed agita ta delle occupazioni di oltre 30 mesi.
La morte del Conte di Cavour, mio protettore avera finito di staccarmi dalla politica. Egli era il solo uomo che m’avrebbe fatto conservare ancora qualche illusione , e che io credeva capace di vincere le difficoltà ond’era circondato il gabinetto di Torino. Gli altri uomini che venivano al potere non m’ispiravano che una fede mediocre per l’avvenire: li aveva forse veduti troppo dappresso?… D’altronde, convien pur dirlo, l’esperienza da me acquistata aveva modificate singolarmente le mie idee. Avendo toccate con mano le cose e conoscendo meglio i bisogni e le aspirazioni d’Italia, io cominciava a dubitare assai del coronamento dell’edifizio, le cui base gettate a Plombieres, si erano così smisuratamente estese lo vedeva il Piemonte, açcettato con ripugnanza e come una transazione dalla Lombardia, imporsi colla sorpresa e col raggiro a Parma a Modena e nell’Italia centrale, e mantenersi a gran pena, a forza di sangue, nel regno di Napoli, che parecchi uomini gli avevano di recente, venduto (4).

(4)Ciò è esattissimo. Cavour non sognò mai che un regno subalpino; ma avendo gettato le basi di questo sulla rivoluzione, eragli impossibile combatter più la medesima apparentemente, allorchè essa gli prese la mano e lo trasse dalla sua. Messo alle strette tra il re di Napoli e ques1a, che stava nel suo periodo di successo, esitò un istante, ma o abbagliato o costretto, si dovè lasciar trascinare da essa, senza però dissimularne i pericoli; che vi volle tutta la sua forza è destrezza per ischivare, vivendo. Egli non aveva niuno programma come Mazzini; e poi il suo compito di uomo di Stato non poteva esser quello di un rivoluzionario, che non ha a fronte serii e dignitosi gabinetti esteri, e teste coronate con cui camminare equamente nella via del legale progresso, e della vera felicità dei popoli. Cavour dunque dovè curvar la schiena sotto il pesante fardello rivoluzionario, più che per altro, per amore del suo re, che vide si miseramente compromesso, e in penitenza dei falli commessi; allora ricorse a tutto il suo ingegno e tutta la sua influenza presso il Bonaparte, per risolvere le supreme quistioni di Roma e Venezia, ma l’ingegno gli venne meno e la vita con esso. Non ci volevano che gl’ignoranti faziosi per proseguire l’opera impossibile cui era soccombuto, e si trovò Bettino Ricasoli. Adesso un altro servitor devoto di re Vittorio, Rattazzi si sacrificherà alla stessa causa: ma si domanda, sarà l’ultima vittima di questa Sfinge e ce ne abbisognano altre ancora ? E i tempi, non più imprevidenti ma già maturi, lasceranno fare ?
Un profondo Uomo di Stato diceva spiritosamente a questo proposito: il Piemonte non fa che pagare il suo fio per la lega stretta in tempore iJlo coi mazziniani. Questi a cui egli si vendè in principio; non fanno, impadronitisi ora di lui, che Incalzarlo colla spada nelle reni; prcipitandolo di bestialità in bestialità, di errore in errore. Avemmo le usurpazioni sui diritti preesistenti e il mendacio officiale in forma pubblica; avemmo una guerra fatta da un re a un altro senza dichiarazione, e contro ogni diritto delle genti; avemmo le fucilazioni in massa fatte tacitamente, perchè IN TEMPI NORMALI almeno SOTTO UN GOVERNO MONARCHICO
COSTITUITO!! avemmo, per lo stesso motivo, ottanta e più villaggi saccheggiati e bruciati dalla milizia regolare civilizzatrice; avemmo la libera stampa imbavagliata, le libere Tipografie distrutte; avemmo il fiore dei cittadini, fuggito, e la povera gente lavoratrice e religiosa delle campagne, trucidata o gettata negli ergastoli e nelle galere, avemmo il clero perseguitato e vilipeso, la religione schermita e derisa anche pubblicamente sui teatri, la prostituzione invaditrice di tutto, e corrompitrice dei santi edificatori costumi di questo regno, avemmo la violenza nei singoli officiali del potere, e la menzogna e la crudeltà primo requisito dei pubblici officiali in capo, e avremo, siatene certi, proseguendo di questo passo, il regno del terrore, i patiboli,e gli eccidii in massa col corteggio degli assignati e della fame; e tutto ciò sotto un REGIME MONACHICO COSTITUITO , un regno glorioso.

Insomma io non aveva osservato da nessuna parte quel fanatismo per l’unità italiana, che, imbevuto dalle illusioni piemontesi, m’aspettava di veder scqppiare da ogni dove: per lo contrario avevo trovato dovunque e in tutta la sua vivezza I’istinto dell’indipendenza locale. Dapertutto, in una parola, il Piemonte era avuto in conto di straniero ed di cooquistatore.
In cospetto di tali sentimenti io era forzato riconoscere che il verace vessillo del movimento italiano non aveva cessato di essere l’indipendenza, ma non era stato mai l’unità, la cui idea non era per anche matura: riusciva evidente ai miei occhi che la Casa Savoia volendo falsarne il senso, per servire alle sue ambizioni, si era gettata in un’impresa ben superiore alle sue forze e che il fascio delle provincie che agognava di abbracciare, non tarderebbe a sfuggirle dalle mani troppo deboli. L’unità d’una nazione non si crea: conviene aspettare l’istante della sua nascita. AJlora solo può esser forte e vitale.
E piaccia a Dio che, nel dissolvimento inevitabile che si apparecchia all’opera di Torino,i risultati del programma così deciso di Villafranca non sieno essi medesimi compromessi, e non ci troviamo risospinti anche più indietro.
Gl’intralci ognor rinascenti del Piemonte nel regno di Napoli, il malcontento ogni giorno più manifesto delle provincie annesse, non sono tali (vorrà convenirsene) da farmi pentire di queste dolorose convinzioni, frutto d’una esperienza che non ha potuto illudersi nè sugli uomini, nè sulle cose (5).
(5) E le cose vanno sempre più male. E la mano nella coscienza si può dire LA RIVOLUZIONE DEL 1860 HA ROVINATO IL PAESE.