Briganti: quali?…

BRIGANTI: quali? di Angelo Manna

Relazione presentata al convegno nazionale sul brigantaggio post unitario tenutosi a Cerreto Sannita (BN) nel gennaio 1986

 Il tema assegnatomi dal comitato organizzatore – che ringrazio per l’onore che si è degnato di concedermi – è Briganti: quali? Ed è un tema che, abbastanza provocatorio, svolgerò nell’unica maniera possibile: provocatoriamente. Al suo svolgimento, però, mi pare di dover premettere che sbaglierebbero grossolanamente coloro i quali dentro e fuori di questa aula dovessero ritenere meramente accademici, e perciò platonici, se non addirittura mondani, questi convegni di storia patria: specialmente quando intendono affrontare, per lumeggiarli in maniera finalmente disincantata, accadimenti fondamentali tanto vicini a noi nel tempo e nello spazio, e ancor più specialmente quando si propongono – come nel nostro caso – di contribuire alla ricerca delle autentiche cause di quella miserabile epopea che avrebbe meritato considerazioni meno schizofreniche da parte dei suoi spettatori (che furono governi e sudditi di tutta l’Europa) e che solo la perfidia combinata dei conquistatori allobrogici e dei loro manutengoli nostrani (nostrani sì, ma solo per l’anagrafe…) si compiacque di definire brigantaggio, e come brigantaggio si compiacque di reprimere, per farsi un alibi, o, meglio, per dare un alibi di comodo al brigantaggio proprio… Non appartiene soltanto al mondo delle favole il bue (che poi è il toro) che chiama cornuto l’asino… E sbaglierebbero imperdonabilmente: perché – ecco: la raccolgo e la rilancio, la provocazione – questo brigantaggio che infestò e funestò le nostre contrade appena appena un secolo e un quarto fa, rappresentò – al di là degli avvenimenti più esecrabili, più grandguignoleschi, che seppe scatenare – la prima, seria, esplicita denuncia, e la più esplosiva e la più tragica, della Questione Meridionale: della quale palesò e svergognò, apertis verbis, le scaturigini abiette, le gridò a squarciagola sulla faccia del cosiddetto mondo civile (che se ne stette, o nauseato o sbigottito o strafottuto, a guardare…); inflisse con il proprio furioso, consapevole, scontato olocausto, la più vergognosa disfatta morale e civile a tutti coloro che avrebbero potuto comprenderlo e si rifiutarono di comprenderlo propter avaritiam, e cioè per interesse; condannò con il subito massacro tutti coloro che vollero proditoriamente mostrarsi sordi alle umane invocazioni di aiuto che – pure negli eccessi di una beluinità sconfinata levò dai suoi covi insicuri, dai suoi pagliai e dai suoi tuguri in fiamme, dai suoi casolari e dai suoi talami violati, dalle sue chiese dissacrate, dalle sue stalle svuotate, dai suoi solchi avari e dai suoi raccolti magri strappati ed usurpati a tradimento, dalla sua miseria, nera, disperata, e ingannata per l’ennesima volta… E disonorò, con la propria sconfitta (che non fu disonorevole affatto!), tutti coloro i quali vollero accanirsi contro le sue sacrosante ragioni (che furono soprattutto sociali) con ferocia prefabbricata lontano e vicino, lassù e quaggiù, vollero dargli addosso con un livore che fu talmente incredibile ed assurdo che fece fremere di raccapriccio perfino un governo di sua maestà britannica, e perfino il più subdolo dei nostri amici: e cioè quel Napoleone III che giurò che ci avrebbe aiutati, e che ci aiutò, come no?, a ben morire, ingannati e traditi!… E bollò con il proprio fallimento (che fu – vero, Franco Molfese? – un suicidio collettivo) tutti quei sadici aguzzini che nei suoi confronti vollero e seppero coniugare, da maestri insuperabili della grammatica del terrore!, il verbo reprimere nelle sue tinte più fosche e con la più sfrontata delle premeditazioni: perché quell’Italia che s’aveva da fare potesse esser fatta, a tamburo battente! Quell’Italia che s’aveva da fare: quell’Italia che l’impezzentito debitoso Savoia aveva brigantescamente impupazzato e nascosto dietro al paravento dei sacri ideali e dei sogni sublimi! Quell’Italia dei patti schifosi stretti da lui, brigantescamente, con i grossi proprietari terrieri (più briganti di lui…): con i mammasantissima delle provincie meridionali da infeudare, da annettere, da colonizzare per assoggettare, da ridurre in schiavitù e bollare – come vacche grasse da mungere in esclusiva – col marchio del regno piemontese, detto sardo per colmo di brutalità antisarda! E sbaglierebbero, sì: perché la questione meridionale della quale esso brigantaggio svelò gli estremi (che furono ardenti, agrari e sociali: come sosterrà, ma inutilmente, Pasquale Villari), lungi dall’essere stata risolta, non è mai stata affrontata a dovere. Ed è oggi un maledettissimo inestricabile imbroglio di cifre negative fra le quali sopravviviamo in più di ventisette milioni, e non già come cittadini di una Repubblica unitaria, ma come sudditi di una colonia soggiogata: e fra le quali cifre negative poche migliaia di sciacalli (capitalisti longobardi, licustri e allobroghi, e multinazionali, e compari del regime da costoro incarnato) guazzano e sghignazzano per la faccia nostra di coloni assoggettati che abbiano il morto in mezzo alla casa (traduzione letterale di tenimmo ‘o muorto mm’ez a casa) e siamo tanto masochisti che ce lo lasciamo putrefare, tanto bello, sotto gli occhi, o siamo tanto irrimediabilmente perduti o venduti che – a parte il fatto che, invece di piangercelo, lo bestemmiamo – sciogliamo tanti bei Te Deum di ringraziamento all’indirizzo di coloro che ce lo uccisero, il morto nostro: come se ce lo avessero ucciso per liberarci da un incubo, da una jattura immonda, da una peste bubbonica, da una fattura che temevamo irreversibile! Il tempo e lo spazio in cui tiriamo a campare noialtri, oggidì, sono la conseguenza logica, fatale, ineluttabile, del tempo e dello spazio in cui rantolarono da morti ma seppero morire da vivi quei miserabili fardelli di carne battezzata che i conquistatori stranieri e i loro degni compari nostrani vollero, per vigliaccheria, ribattezzare briganti. Questi convegni, dunque, ci servono. Perché in questo nostro tempo e in questo nostro spazio (che a dispetto dell’inesorabile scorrere degli anni, dei mesi e dei giorni, e a dispetto delle crescite smisurate, elefantiache, e pure abusive, dell’urbanistica, non sono mutati affatto rispetto a quel tempo e a quello spazio che furono caratterizzati dall’incompresa e tragica esplosione di rabbia dei nostri paria della terra), noi – discendenti diretti di quei cosiddetti briganti, o di quei cosiddetti galantuomini, o di quelle ambigue guardie nazionali, o di quegli untuosi arrampicatori sociali o politici che tentarono di profittare del tremblement de Dieu per diventare, da signor nessuno, signor qualcuno, o di quei soldati sbandati, borbonici o garibaldini, ai quali nessuno, o quasi nessuno, seppe mai perdonare di aver difeso, a prezzo della propria vita, la patria e la bandiera, o di aver contribuito alla loro disfatta – noi si possa procedere, finalmente, in tutta serenità, all’esame necroscopico della tradita e assassinata patria nostra napoletana, ricostruirne il maledetto paesaggio complessivo, evocarne i fantasmi, risentirne gli spasimi e i fremiti, gli anatemi e le agonie, gli abbasso e gli evviva, le campane a morto e a gloria: sforzandoci di rinunciare a sentimentalistiche collusioni postume o ad altrettanto postume e viscerali difese di ufficio o maledizioni apodittiche, sforzandoci di eliminare distorsioni e sovrapposizioni! E non già per tentare riabilitazioni che pure devono essere, storia alla mano, possibili. Ma per tentare di redigere un errata corrige ragionato, disincantato, obiettivo, finalmente storico senza virgolette, da contrapporre definitivamente a quel bestiale compendio di infamie antisudiste che fu scritto dai conquistatori di fuori e di dentro, ed ebbe il titolo bugiardo di Storia del Risorgimento italiano. Questa patria posticcia dei giorni nostri non è più napoletana: è italiana. Ma è allo stremo anch’essa: proprio perché posticcia, proprio perché non nostra, proprio perché patria imposta. Ed è anch’essa allo stremo, sì: perché è il frutto di quel seme fetente del disfacimento che i nostri schiavizzatori travestiti da affrancatori fratelli gettarono premeditatamente nelle nostre contrade. Ed è allo stremo anche e soprattutto per un altro ben più grave motivo. Ed è che di tutto ciò che essa fu, noi meridionali, estranei in casa nostra, continuiamo a non voler saper nulla, o di quel poco che presumiamo di sapere di essa (e che ci fu inculcato dai vincitori suoi e nostri) continuiamo a saperci far beffe soltanto, e a vergognarci, e continuiamo a farci rinnegatori di tutto ciò che fummo e di tutto ciò che siamo, rinunciando, così, con questo comportamento (che è rinuncia sadomasochistica alla nostra dignità di uomini), ad un avvenire di cittadini liberi, pensosi dei destini nostri in una Italia unita per davvero! La buonanima di Carlo Alianello ha lasciato scritto, nel capitolo Sud liberato della Conquista del Sud: “Bella cosa, la Cassa del Mezzogiorno. Industrie, commercio, turismo, un fiume da noi finora soltanto sognato di buona moneta. L’Italia del Nord si svena per l’Italietta del Sud. Quanta ricchezza scende dal monte al mare! Eppure, per un miracoloso intersecarsi di uomini e di interessi, non si ferma dov’era diretta; ne intravediamo il fulgore, tremola, oscilla, come una fata morgana, e subito riprende la via del ritorno. La ritroviamo, moltiplicata o suddivisa, nel cerchio delle Alpi, tra la Dora e il Mincio. E aggiungiamoci il Po. Si vuol forse dire: “Qui c’è l’imbroglio”? Mai più. Certo è però che la batosta inflitta dal Nord al Sud è di quelle da cui non ci si solleva se non per miracolo… Riassettare, riassettare! E non solo le cose, ma gli uomini. Rifare di sana pianta l’uomo, solo o in comunità. Immaginiamo i loro disegni, i progetti sicuri per far dell’Italia meridionale – giacché l’han tutta affidata alle loro espertissime mani – quello che su per giù fanno i medici accolti al capezzale di un malato. Fanno la diagnosi, la prognosi, fissano la terapia, e con l’esame clinico commentano la storia di quella malattia: com’è che il paziente si è ammalato, e che guai aveva prima, il che, se non sbaglio, si dice anamnesi. Beh, questa anamnesi, questo racconto dei sintomi e dei mali, i valorosi tecnici della Cassa e del CIPE e via dicendo, non potranno studiarsela mai; perché una storia vera, una storia sincera dell’antico Reame non c’è. Resta invece quella leggenda che sarebbe la storia ufficiale come l’han costruita per conto proprio o per conto altrui: col rosso, con l’azzurro Savoia, col nero, in un’ibrida mescolanza di martelli, squadre e compassi massonici, piumetti di bersaglieri, berretti frigi, fiaccole. E chi l’ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell’unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un pò per volta, in armonica disarmonia. Gente magari in buona fede, ma che ignorava i fatti, quelli veri: oppure gente che voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti. La ragione, o meglio il pretesto più comune e più facile, era, anzi è l’unità d’Italia, alibi necessario che ogni sozzura copre con le sue grandi santissime ali. Il risultato? Oggi più che mai l’Italia è divisa in due parti, una tutta bianca, l’altra tutta nera… Questi convegni, dunque, ci servono! Per quanto mi riguarda, sostengo da sempre che l’avvenire delle popolazioni meridionali potrà avere un senso compiuto solo quando una rinsavita, riscattata intellettualità meridionale avrà saputo frugare nel passato della propria razza, avrà saputo cercare e trovare e svergognare tutte le menzogne nelle quali i suoi oltraggiatori vollero affogarla non già per realizzare antichi sublimi sogni e affrancamenti da gioghi stranieri: ma per conquistare, ferro ignique, territori da poter sfruttare legittimamente come colonie e mercati di consumo; per schiavizzare, decapitandoli, nove milioni di potenziali consumatori, e farli sentire, oltre che schiavi – come ho detto – stranieri in casa loro; per allontanare per sempre da Torino e dintorni lo spettro dell’asburgizzazione aleggiante dall’indomani della disfatta di Novara; per fare man bassa dei danari di casa Borbone e dei suoi sudditi, e di quelli dei banchi di Napoli e di Sicilia, e far fronte, con essi, ai vecchi e ai nuovi debiti, interni ed esterni: debiti contratti per lo più con i Rotschild per poter stare in tredici nell’affare del secolo – il Canale di Suez – e per poter fare atto di presenza nella spedizione di Crimea, e, infine, per poter mettere in piedi il tanto glorioso esercito sardo-piemontese delle luride gloriosità del quale doveva toccare a noi, fratelli da liberare e redimere (nel senso di spedire all’altro mondo), l’onore di fare la personale conoscenza. E che i crediti dei favolosi ebrei tedeschi e francesi venissero soddisfatti non appena i vari eroi dei due mondi e delle tre tavolette ebbero messo le loro lunghe mani sporche sull’oro dei nostri pubblici e privati forzieri lo si evinse agevolmente dalla parlata numero 327 del giornale napoletano Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbèto del l3 dicembre del 1861, nel quale si dava notizia, in napoletano – e, apparentemente, senza malizia – che il signor Rotschild aveva – di reddita annua – nel 1828 trecento milioni di franchi, e cioè sessanta mila ducati, nel 1840 ne aveva, di ducati, centodieci mila, e nel 1848 ne aveva centosettantamila; e mò – scriveva l’anonimo cronista – annevinate a quanto arriva lo credeto sujo?… Dicite na cosa pe pazzìa… Arriva a mille meliune de franche, val’a ddì duicientovintiquatto meliune de ducate. I quali, nella vil moneta dei giorni nostri, assommano a non men di 3.360 miliardi di lire (tenuto conto che un ducato napoletano del tempo di Francesco II di Borbone equivaleva press’a poco a 15 mila lire dei nostri giorni). Se io avesse – concludeva l’anonimo … ragioniere – la renneta che tene Roscildo ogne anno, sarria lo cchiù ricco de Napole. Ignorava che gran parte di queste rendite le aveva conquistate, l’ebreo, grazie all’annessione violenta del Reame di Napoli al regno cosiddetto sardo. Lo Stato italiano, repubblicano, sì, ma erede legittimo di quello sabaudo che ci tolse il battesimo dalla fronte e il danaro dalle tasche, va ancora oggi violentando le nostre coscienze con mostre e conferenze confessionali, sul cosiddetto brigantaggio nelle provincie meridionali, che hanno il solito rancido scopo di consolidare odi vigliacchi, resuscitare o vivificare raccapricci ed orrori nei confronti di quelle migliaia di poveri cristi che divennero criminali e, come ho detto, infestarono e funestarono le nostre contrade dall’indomani della presa di Napoli (che fu possibile grazie alla camorra di Salvatore De Crescenzo) fin quasi alla presa di Roma (che fu possibile grazie ai cardinali romani: ché l’organo genitale attraverso il quale l’Italia unita si sgravò di se stessa – la breccia di Porta Pia – l’aprirono loro, e dal di dentro della città leonina). Queste mostre e queste concioni confessionali e sperperajole non accennano mai alle cause vere, autentiche, del cosiddetto brigantaggio postunitario, non fanno parola, mai, della questione meridionale di cui esso cosiddetto brigantaggio fu aperto, ostinato, furibondo denunciatore e primo personaggio ed interprete tragico. Né hanno il coraggio civile di affermare, con la dovuta solennità, che il brigantaggio al quale esse intendono fare allusione fu, si, il più terribile leviatano del tempo che seguì al fatal Sessanta, ma, storia alla mano, fu – nella sua quasi totalità – stato di necessità e legittima difesa di un proletariato rurale che, stanco di subire angherie e soprusi micidiali, scelse di morire in piedi: preferì affrontare il massacro a testa alta; non volle più saperne di dover ancora servire a testa bassa, in ginocchio, leccandosi in silenzio le piaghe; bandì la rassegnazione dal suo, altro che plurisecolare, eterno vocabolario; non se la senti più di dover ancora andare ramingo in cerca di un tozzo di pane bestemmiato, di una fatica bestiale malpagata, di un prestito di pochi centesimi da restituite ad insopportabile usura, di sementi da dover pagare con buona parte del magro raccolto; non ce la fece più a considerare, ancora, la propria esistenza una grazia, un miracolo di un santo o di una madonna, la elargizione di una divinità incarnata dal potere……. Provocatorio il tema assegnatomi. Certo. E provocatorio ne è lo svolgimento. E non per partito preso. Ché i partiti presi li lascio ai piemontesi, ai liguri, ai lombardi, e ai loro servacci romani che, in cambio di una routine di nababbi, nei partiti presi dei plutocrati nordisti guazzano a meraviglia, volentieri, e impuniti, da un secolo e un quarto… E gratificati sempre meglio! Io sono colui che ha sempre rischiato in proprio, e sempre in proprio rischia, perché non si stanca mai di affermare che se è vero (ed è vero!) che la camorra, la mafia e la ndrangheta rappresentano la trimurti tragica delle nostre province e del nostro tempo, è altrettanto vero (ed è terribilmente vero) che è da folli pretendere – per mezzo della pura e semplice repressione di volerla sradicare da una memoria storica plurisecolare che è parte, non già integrante, ma essenziale, è materia prima, della nostra razza! Così come è da folli evidenziare, di essa trimurti tragica, soltanto l’aspetto criminale – che è l’effetto e non la causa! – e limitarsi tout court a perseguitarla come associazionismo per delinquere e basta: come se, per incanto, potesse dileguarsi, sparire, togliete il disturbo, essere cancellata con l’incarceramento dei suoi capi e delle sue code. La camorra, la mafia e la ndrangheta sono associazioni per delinquere? Certo che lo sono. Ma lasciamolo affermare a coloro che per professione fanno gli operatori del diritto e i tutori dell’ordine pubblico. Noi storiografi, noi giornalisti, e soprattutto noi politici, meridionali non rinnegati, abbiamo il dovere di correre a gridarlo in ogni contrada di questo nostro paese unitario (che del diritto non è mai stato la culla, è sempre stato la tomba): e sia; puniamoli, ché è giusto, codice penale alla mano, questi criminali, per tutto ciò che di criminale commettono. Ma poi compenetriamoci: sforziamoci di comprendere che questi criminali sono dei poveri sventurati che il nostro sconfinato egoismo e la nostra smania di classe egemone di fare il vuoto intorno a noi e la folla ai nostri piedi hanno spinto sulla strada del crimine. Siamo stati noi, noi potere, a sprofondare nell’abiezione questi che oggi sono la maledetta gramigna delle nostre contrade. Li abbiamo sfruttati, li abbiamo usati perché assecondassero i nostri istinti più perversi; li abbiamo trasformati in nostri grandi elettori, in nostre guardie del corpo, in nostri consigliori fidati, in gestori dei nostri più ignobili negozi, abbiamo creato per loro vastissime isole di impurità in cambio di voti di preferenza, di partecipazioni e di cointeressenze nei traffici più infami e più abietti. Quando, però, ci siamo accorti che avrebbero potuto darci fastidio come concorrenti scomodissimi, quando ci è parso che volessero prendersi la mano con tutte le dita: solo allora ci siamo inventati puliti e onesti! Solo allora li abbiamo confinati nei loro quartieri putridi e infetti – i fetenti – e li abbiamo emarginati; e per ricordare loro la loro condizione di servi, li abbiamo esclusi da ogni nostra attenzione, politica, sociale, culturale, economica; li abbiamo ghettizzati (pensate quali vivai di criminalità, quali monumenti eretti all’apartheid siano i moderni quartieri-ghetto della legge 167 e i quartieri nuovissimi, non ancora inaugurati, che abbiamo costruito nei comuni delle province terremotate in ossequio alla legge 219!); e poi li abbiamo perseguitati solo perché le tangenti pretese da loro facevano gola a noi; e poi gli abbiamo negato il lavoro, ma gli abbiamo concesso il sussidio, il buono alimentare… Che cosa speravamo: che al primo fischio dell’arbitro, questi emarginati, questi ghettizzati, questi brutalizzati, questi criminalizzati, corressero ad irrigidirsi sugli attenti dinanzi ad esso, si facessero buoni buoni e cacchi cacchi cacciar fuori dal campo e andassero da soli e a testa bassa nel cantuccio dello spogliatoio a mettersi faccia al muro e ad inginocchiarsi sui chicchi di granone?… Questo? Questo speravamo? Briganti?, Quali? Briganti oggi, nei confronti della trimurti tragica del Mezzogiorno; briganti ieri nei confronti dei cosiddetti briganti delle conquistate, rapinate, disonorate, violentate provincie meridionali. E sempre per l’accennato abietto, schifoso motivo: propter avaritiam, per interesse, per danaro. E sempre fieri, noi potere, delle più luride canagliate; sempre orgogliosi, noi potere, delle più inconcepibili viltà. Potremmo sradicarla, oggi, la trimurti tragica del Mezzogiorno. Certamente. Ma a quante rinunce, noi, il potere, dovremmo saper essere disposti? Parte di questo nostro potere non è stato costruito dalla camorra, dalla mafia e dalla ndrangheta? L’unità d’Italia, per esempio, non la dovemmo anche ai camorristi che don Liborio Romano aveva nominato poliziotti, ai mammasantissima che don Liborio Romano aveva nominato delegati di P.S., e a Tore ‘e Crescienzo, il capo di tutti i capi, che, ottenuta carta bianca, provvide da par suo a far sì che i cannoni già pronti a far fuoco sul corteo trionfale di Garibaldi restassero muti, puntassero le loro bocche verso il mare o verso il cielo, e in questa posa, estatica, venissero inchiodati? E non dovemmo, i sì del plebiscito del 21 ottobre, anche ai camorristi, che li estorsero con minacce e mazzate? Avremmo potuto scongiurare le carneficine assurde, i bagni di sangue, dell’insurrezione armata postunitaria? Certamente. Ma il nuovo potere avrebbe dovuto rischiare di perdere tutto quanto aveva arraffato con una guerra di conquista mai dichiarata; avrebbe dovuto rischiare di alienarsi, di colpo, tutte quante le interessate amicizie importanti che – fondate sulla pattuita spartizione della camicia di Cristo – si era assicurate; avrebbe dovuto, il nuovo potere, preoccuparsi di fondare uno stato unitario rispettoso delle istanze di tutti i popoli unificati, uno stato in grado di raddrizzare, subito, con legislazioni urgenti e mirate, torti antichi e ostinati, uno stato propugnatore e realizzatore di una giustizia sociale invocata a lungo e mai ottenuta, uno stato capace di garantire (con comportamenti non equivoci, non dilatori, non gesuitici) la concreta par condicio tra vincitori e vinti, per modo che tutti indistintamente potessero sentirsi ed essere italiani, con pari diritti e pari doveri, e pari dignità, non soltanto di cittadini ma di uomini… Avrebbe dovuto, il nuovo potere, rinunciare ad essere, insomma!, tutto ciò che – dietro ai paravento dei sacri ideali e dei sogni sublimi – aveva sempre sognato di essere ed era sempre stato, fin dal giorno della partenza dei due piroscafi della Rubattino dallo scoglio di Quarto: un’orda barbarica che, spedendo in Sicilia Garibaldi, in avanscoperta (ma stavolta con garanzie! Con quelle garanzie, cioè, che per la spedizione di Pisacane non erano state neppure immaginate…), era pronta a calare nel Reame Napoletano, onusto, sì, di gravissime mancanze, ma anche di civiltà e ricchezze invidiabilissime, per predare, stuprare, oltraggiare e assassinare, mettere a ferro e a fuoco! Oh, no! Un usurpatore e un ladro giurato del calibro di Vittorio Emanuele II di Savoia non avrebbe potuto rinunciare a tutto ciò. Non glielo avrebbe consentito il suo naturale, non glielo avrebbero consentito i Cavour e i suoi degni epigoni, i pezzenti debitosi di Torino e dintorni, i plutocrati, i fiutatori magnifici del magnifico affare, i Cialdini, i Persano, i Della Rocca, i beccai di Racconigi e di Stupinigi: e non glielo avrebbero consentito i ricchi proprietari terrieri delle provincie conquistate, e tutta quella marmaglia meridionale che aveva atteso il tremblement per poter dare il cambio a prefetti, sindaci, intendenti e magistrati, per riuscire, finalmente, a far numero in una smorfia……. “Ih comm’accummenciaje, comme fernette.”… La terra sarà di chi vi sputa sangue! La terra sarà di chi vi muore anonimo da secoli per servire un padrone che in cambio del suo sudore bestiale paga meno di uncarlino il giorno!… E i poveri cafoni, a questi annunci, a questi proclami, aqueste sacre promesse, avevano prestato fede… Diffidenti per natura (consapevoli’ delle grandi e pesanti batoste del passato), pensa e ripensa, oggi e domani, avevano finito per dar retta agli imbonitori del risorgimento!… La terra sarebbe stata loro… La terra: il mondo intero, la vita, la vita non soltanto presente, ma anche la vita avvenire… Loro, i cafoni odiatissimi, sarebbero diventati uomini! Avrebbero avuto i loro nomi e cognomi scritti nei registri del catasto, della fondiaria! E quanti di loro si erano levati in armi (zappe, forconi, roncole e trincetti) contro i borboniani che a rotta di collo se la svignavano per fare largo alle camicie rosse di Garibaldi e al loro seguito di picciotti e traditori (Crocco, Ninco Nanco, la intera banda Muraca). Quanti di loro avevano versato le prime lacrime di gioia della loro esistenza alla notizia che il biondo eroe dei due mondi stava facendo onore agli impegni assunti: aveva abolito la tassa sul macinato – già abolita dai Borboni -, aveva diminuito i prezzi delle sementi, aveva persuaso certi ostici riottosi proprietari terrieri a ritoccare gli antichi magri salari bracciantili; a Rosciano aveva decretato la concessione degli usi gratuiti di pascolo e di semina sui terreni demaniali della Sila, aveva annunciato che i prezzi del pane, dell’olio e del sale sarebbero calati; aveva quotizzato e concesso ai contadini la masseria Polisciazzo, nell’Altamurese, che era stata della famiglia reale… Non immaginavano neppure, però, che a quasi tutti questi decreti nessuno desse esecuzione… E nessuno volesse darne. Mai! Quanti cafoni si erano ormai convinti che il nuovo vento avrebbe spazzato via, finalmente, tutte le iniquità, tutte le brutture, le disuguaglianze le ingiustizie, le maledizioni!… Quanti cafoni erano ormai convinti che Garibaldi, sì, Garibaldi, così come nella Sila e nell’Altamurese, avrebbe risolto, lui, e presto, e nel verso giusto, l’antica questione della quotizzazione delle terre demaniali che si era bloccata non tanto nei municipi quanto nelle prefetture, ché i prefetti erano amici e talvolta pure protettori degli usurpatori, e perciò si mostravano restii ad applicare le leggi, severissime, che dall’eversione della feudalità fino alla deposizione di Francesco II, erano state emanate o confermate (salvo trascurabili ritocchi) a favore delle miserabili popolazioni rurali e contro le clandestine, abusive accessioni?… Il sogno della resurrezione alla vita umana dei paria della terra, brancolanti da sempre fra l’umanoide e il subumano, si era infranto, però, a Taverna Catena (non a Teano). Conservare il più possibile dell’amminirione precedente, aveva gridato da Torino ai suoi beccai il ragionier Benso Camillo, e, poco più tardi, a Taverna Catena (non a Teano), il protobeccaio Cialdini Enrico, presente sua maestà italiana, aveva spodestato Garibaldi, il leone imbecille: gli aveva notificato su due piedi (o meglio sui quattro piedi del suo cavallo) la volontà del sovrano (sovrano italiano soltanto per merito dell’armata garibaldina) di cancellare tutte le concessioni da lui fatte nella sua qualità di alter ego reale, e di sciogliere, mandare alla malora, l’intera armata delle camicie rosse, l’armata che aveva conquistato il Reame Napoletano: centomila uomini!… Conservare il più possibile dell’amministrazione precedente, e cioè dell’amministrazione borbonica, era stato l’ordine perentorio di Cavour, al partito del quale (il moderato) il partito democratico di Garibaldi e di Mazzini stava facendo andare le scarpe sempre più strette! E certo, la pro-dittatura Pallavicino aveva inferto ai governatori delle provincie annesse un colpo gravissimo con la revoca dei poteri illimitati; e, certo, la italianizzazione dell’ex Reame rischiava di realizzarsi secondo i piani democratici dei repubblicani Mazzini e Garibaldi… La venuta a tappe forzate, dunque, di Vittorio Emanuele e del suo protocarnefice nell’appena conquistato territorio poteva ben dirsi al di là del suo formale, ufficiale, protocollare significato di presa di possesso della nuova colonia – una vera e propria dichiarazione di guerra dei subaudisti pragmatici e ben decisi a difendere il sospirato presente ai troppo munifici campioni di un socialismo radicale che con troppa e pericolosa disinvoltura andava realizzando troppi cambiamenti e facendo troppe concessioni, anche se platoniche… I moderati si erano ripresi l’iniziativa strappandola ai democratici. Il nostro suolo, retrocesso da Reame libero ed indipendente a provincia coloniale, era stato declassato, in quattro e quattr’otto, finanche in terreno di scontro fra le due fazioni egemoni… Mazzini fuori legge, Garibaldi esule volontario a Caprera, i ricchi proprietari terrieri e i loro cani di presa in auge sempre di più e sempre più esosi: e la situazione complessiva delle popolazioni rurali precipitò. Aveva trionfato Vittorio Emanuele II sul figlio della negazione di Dio, sul figlio del re bomba… (Lui, il Savoia, che non aveva bombardato Messina… Lui, il Galantuomo, che aveva bombardato soltanto Ancona, Genova, Perugia, Capua e Gaeta…). Ed aveva trionfato da pirata senza scrupoli sulle istanze legittime di nove milioni di regnicoli sprofondati in un inferno senza fine, in un caos senza sbocco, irto di passioni violente, trapuntato di esplosioni di odi e di furori vendicativi, di voltafaccia e di crolli finanziari e fallimenti a catena, di destituzioni vigliacche o capricciose di magistrati, funzionari, professori liceali e universitari; punteggiato di spedizioni punitive eseguite da camorristi, soldati sbandati o avvinazzati bersaglieri e carabinieri per conto dei pidocchi insignoriti; infiorettato di regolamenti di conti antichissimi, di latrocinii e di estorsioni e di richieste di esose tangenti per la concessione di modestissimi posti di lavoro sui municipi, nella pubblica sicurezza, o di licenze di commercio; decorato di sbadamenti terribili, sottovalutati dalla truppaglia di occupazione, interessanti la bazzecola di duecentomila soldati, fra borbonici e garibaldini, finiti sul lastrico, in attesa di essere incorporati nel regio esercito italiano: e, nel frattempo, senza un soldo, o napoletano o piemontese, e con la testa a tre assi.. E tutto ciò mentre venivano abbattute le barriere doganali; mentre i prezzi dei generi di prima necessità salivano alle stelle; mentre venivano vendute le rendite pubbliche e messi all’asta i feudi ecclesiastici; mentre tra capo e noce del collo si abbatteva la chiamata alle armi per le leve degli anni compresi fra il 1857 e il 1860; mentre, scaduti i vecchi contratti agrari, bisognava rinnovarli alle nuove condizioni: alle condizioni imposte dal vecchio odiato latifondista rimasto in piedi, o alle nuove condizioni imposte dal nuovo latifondista (uomo della nuova guardia, Dio guardi); mentre la soldataglia piemontese si abbandonava a saccheggi e incendi di case e di chiese e a stupri di maritate e di figliole per lo più della campagna; mentre taglie private venivano poste sulla testa di presunti reazionari; mentre 350 mila operaie delle industrie tessili finivano sul lastrico; mentre le autorità civili sempre più esautorate cadevano in un lassismo da peones messicani; mentre migliaia di ufficiali e soldati dell’orda occupatrice prendevano le distanze dai macellai e dai garzoni dei macellai piemontesi e si rifiutavano di ricoprire gli infami ruoli degli aguzzini e dei boia e se ne tornavano al nord o si univano a coloro che avevano preso la via della montagna; mentre i moderati (ormai decapitati…) tentavano di riorganizzarsi e nell’agone riservato alle fazioni egemoni cominciavano a lanciarsi i papalini terrorizzati dal massonismo mangiapreti dell’orda allobrogica; mentre l’autorità militare, assunti i pieni poteri, proclami su proclami, riempiva le carceri di reazionari ostinati, di sospetti manutengoli e di sediziosi che in centinaia di comuni (che saranno 1428 ai principi dell’ottobre 1861) avevano approfittato del contrasto perfino armato tra i moderati e i democratici per rimettere sui propri pennoni i vessilli borbonici; mentre la guardia nazionale rimasta fedele a Francesco II attirava in imboscate, con allarmi fasulli, bersaglieri e carabinieri; e mentre quella che aveva fatto causa comune e comunella con i vincitori organizzava e compiva vendette private, accusava all’autorità militare persone al di sopra di ogni sospetto, si serviva della criminalità organizzata per realizzare ruberie, abigeati, estorsioni, proteggeva delinquenti comuni imboscati in cambio di cessioni di crediti, di somme di danaro, di case, di ville, di terre… Una tremenda Babele: un crogiuolo profondissimo nel quale sprofondavano di colpo, con fragore sinistro, i sentimenti più disparati, e i più roventi. Era stato questo il fatal Sessanta. E tale fu il suo prosieguo. Lo scontro previsto fra il Nord e il Sud, tra mentalità e culture, idealità e civiltà, diverse; lo scontro che avrebbe dovuto, sulla scena dell’unificazione, farla da prim’attore, finiva immediatamente per ricoprire un ruolo comprimariale, degenerava subito in scontro armato, spietato per tutti: e non interessava né le diverse mentalità né le diverse culture… La poesia si toglieva la maschera, e mostrava il suo volto di prosa infame… Propter avaritiam… Le Crociate… Perfino le Crociate, che si erano proclamate finalizzate alla liberazione del Sepolcro di Cristo, avevano avuto, invece, per fine, la conquista, il saccheggio, la rapina… L’inquisizione… Perfino l’Inquisizione, che si era proclamata finalizzata alla esorcizzazione del Male, alla liberazione delle anime e dei corpi dalle strette e dalle incorporazioni sataniche, aveva avuto, invece, per scopo, l’incameramento, la confisca, la depredazione dei patrimoni degli eretici, delle streghe e delle fattucchiere… E dunque: per quale motivo il cosiddetto Risorgimento italiano avrebbe dovuto non essere bifronte, non esser poesia sul recto e prosa volgare sul rovescio?… La plutocrazia del Nord – industriale – e la ricca borghesia agraria del Sud non scrivevano poesie. Né amavano leggerne. Non volevano l’unità d’Italia. Volevano potere, danaro, ricchezze a sbafo. Da questo tourbillon pazzesco fatto di colpi bassi irreparabili e di rapidissimi immiserimenti e cadute da stati di grazia, in alcuni casi cinque volte secolari; da questo schianto di blasoni e di fortune; dagli effetti del corrusco crepuscolo dei vecchi dei (che minacciava conseguenze irreversibilmente disastrose per coloro che direttamente o indirettamente avevano avuto legami personali o familiari con gli spodestati reali o con i loro ministri) tentavano di salvarsi tutti quanti: con il solito camaleontismo, con la solita consorte compiacente, con la solita abiura già stampata e pronta per l’uso, con il solito giuramento di fedeltà, con il solito sprofondarsi a squadra o il solito cadere ginocchioni ai piedi dei nuovi ottimati. E, certo, erano soltanto in pochi coloro che riuscivano con forti e repentine bracciate a raggiungere l’opposta agognata sponda… Ma non si può dire che nell’affannoso attraversamento perissero affogati interi ceti sociali, intere categorie.Vi era però in agguato la famosa legge, inesorabilmente valida sempre, sotto qualsiasi cielo e qualsiasi bandiera… La legge secondo cui le svalutazioni monetarie, le congiunture economiche, i rincari repentini dei prezzi dei generi di prima necessità travolgono senza eccezioni e senza pietà i ceti più miserabili, le classi peggio retribuite, i redditi più inconsistenti. Li travolgono a morte. Implacabilmente… Questi ceti, queste classi, questi miserabili da meno di un carlino al giorno (1500 lire dei nostri giorni) furono i paria della terra, i cafoni: i veri cornuti e mazziati del cosiddetto Risorgimento italiano. Contro i quali si accanirono, in paranza, la malasorte (che non e’ mai stata cieca come la buona sorte (che, dunque, non è sua sorella), il bersaglierume, il padronato, la truppaglia, la guardia nazionale, la stampa, le coscrizioni, il governo, le tasse, gli usurai, il Parlamento, l’opinione pubblica e le bestemmie dei latifondisti. In una parola: l’Italia intera! Che seppe soltanto inorridire e fare gli scongiuri al loro furioso esplodere in armi; seppe soltanto invocare, nel Sud ormai in fiamme, più repressori, più boia, più scherani sanguinari, più belve assetate di sangue e di bottino. La tragedia del proletariato rurale delle provincie meridionali non volle comprenderla per non compromettere, come ho affermato, praticamente tutto! Tutto ciò che aveva rapinato quaggiù, fino ad allora, e tutto ciò che le rimaneva da rapinare! Evviva l’Italia! Oh, sì, certo: furono l’abbattimento delle barriere doganali, la chiusura degli opifici, la disoccupazione, l’aumento dei generi di prima necessità e delle sementi, il ripristino dell’odiosa tassa sul macinato, e la chiamata alle armi, e tante altre calamità sopravvenute, le cause del malcontento che sfociò in odio, in repulsione sconfinata verso i conquistatori. Ma la causa che scatenò quasi tutti i cafoni e li fece insorgere in armi, la sentenza con la quale essi sentirono di essere stati condannati a morte per fame e per disperazione senza appello fu anche e soprattutto un’altra: e fu la più abietta della storia d’Italia. Per molti anni il brigantaggio postunitario si buscò una fantasiosa connotazione reazionaria. Perfino Benedetto Croce ritenne possibile un accostamento dei suoi ideali agli ideali che avevano scatenato la Vandea controrivoluzionaria del 1793. Era stato suggestionato, Benedetto Croce, dalla mobilitazione di gran parte del clero rimasto fedele al trono, e dalla presenza piuttosto massiccia, in verità, sulla scena del cosiddetto brigantaggio, di legittimisti stranieri come Klitsche de La Grange, come Tristany, come Langlois, come Borjes, e di sottufficiali e soldati dello sconfitto e disciolto esercito napoletano: personaggi – gli stranieri – certamente ingaggiati dai ministri dell’esule di Palazzo Farnese perché tentassero di organizzare e di guidare la controrivoluzione in nome delle ragioni dei discendenti di Carlo III. Sta di fatto, però, che il brigantaggio reazionario, il brigantaggio finanziato e fomentato dai borboniani fu soltanto una frangia assai trascurabile dell’insurrezione postunitaria. E certamente non merita neppure una smentita sdegnata (ché si spernacchia da sola, e le sta bene) la lombrosesca attribuzione del brigantaggio ai connaturati istinti criminali, alle costituzionali tendenze all’assassinio, dei subumani campioni della razza inferiore delle nostre contrade, che erano Afirica!… secondo la geografia del signor beccaio di prima classe Farmi Carlo Luigi, Afirica popolata di selvaggi talmente selvaggi che al paragone i beduini erano rose e ……. La causa scatenante della suicida (perché acefala) rivoluzione delle nostre genti rurali fu la sporca faccenda delle usurpazioni delle terre appartenenti ai demani comunali (faccenda alla quale ho fatto cenno poc’anzi, e più di una volta): fu la volgare, delinquentesca faccenda degli abusi a catena, perpetrati dai soliti grossi proprietari terrieri (finanziatori dei liberali) ai danni delle miserabili comunità rurali. E scusate se mi permetto di illustrarla alla presenza di Franco Moifese……. Con la soppressione della feudalità erano venute a galla magagne inaudite che avevano fatto trasalire Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, e che i Borboni, restaurati, nei 1815, avevano tentato – con ferree disposizioni legislative, rispettose (occorre ricordano) dei principi delle leggi eversive di svergognare e di perseguire come reati abietti, perché, truffatrici immediatamente dei comuni, finivano per nuocere mortalmente a decine di migliaia di poveri contadini che traevano sostentamento personale e familiare proprio da esse terre demaniali dei comuni esercitando su di esse, praticamente da sempre, i cosiddetti usi civici: che erano (e sono) veri e propri diritti individuali e collettivi, e consistevano (e consistono) nel seminare e raccogliere frutta, ortaggi, erbe, nel tagliar legna e venderla, nel menare ai pascoli le greggi, gli armenti, eccetera … D’altra parte, migliaia di ettari di terra liberati dai feudatari, dallo stesso sovrano, risultati acquisiti alle comunità per usucapione, o sdemanializzati come beni baronali per difettodel titolo di infeudazione, erano stati pacificamente invasi dai cafoni che vi esercitavano – legittimamente, dunque! – i su elencati usi civici. I re di casa Borbone avevano costatato anch’essi come – a poco a poco, per non dire a vista d’occhio – questo quasi sterminato patrimonio demaniale fosse andato ed andasse restringendosi, rattrappendosi, come fosse stato e fosse, non già di terra, di tela scadente: ché ad ogni colata era diventato, e diventava, più stretto,.. Le magagne venute a galla nel 1806, e sempre piu’ galleggianti nel prosieguo, erano consistite e consistevano nella usurpazione di queste terre demaniali da parte dei proprietari terrieri limitrofi. I re borbonici avevano deciso di quotizzarle, queste terre, e venderle,.. E immaginate quante speranze di poter diventare proprietari, magari di un lotto piccolo piccolo di terra, avessero riposto i contadini in queste quotizzazioni, in queste sdemanializzazioni… Ma ai latifondisti, però, queste terre avevano fatto gola, sempre: così avevano fatto sempre, dal 1806 in poi, le classiche carte false per poter imbrogliare le carte altrui allo scopo di potersele aggiudicare, le terre in questione, o di poter dimostrare che le stesse fossero già di loro proprietà… I contadini si erano indebitati, avevano fatto ricorso agli usurai per poter concorrere anch’essi ai loro acquisto; e Ferdinando II di Borbone nei 1836 aveva decretato “doversi presumere usurpato in danno del demanio comunale tutto quel territorio che non si trovasse compreso nel titolo di infeudazione; doversi considerare libera ogni terra posseduta dai privati o dai comuni finché il feudatario non avesse giustificato una servitù costituita con pubblici strumenti… “, e infine, … “doversi considerare inamovibili quei coloni che avessero coltivato per un decennio le terre feudali, ecclesiastiche o comunali, e come assoluti proprietari delle terre coloniche sulle quali è loro accordata la pienezza del dominio e della proprietà senza mai poter essere tenuti a una doppia prestazione”. Ma, amici di sindaci e di prefetti, i ricchi possidenti non avevano temuto né i poveri paria della terra né il rigore delle leggi, né i tuoni e i fulmini di Ferdinando. Spesso e volentieri erano riusciti a cacciare via i cafoni, a sopprimere gli usi civici, e a prendersi le terre; e quando qualche comunità era riuscita a ricorrere ai tribunali ordinari, e a spuntarla sulle manifeste usurpazioni, aveva segnato, purtroppo, il proprio destino: si era esposta alla vendetta del convenuto costretto a mollare l’indebita preda, e aveva spinto costui, usurpatore svergognato, fra le braccia degli agenti piemontesi… I possidenti a brigare in alto e a minacciare in basso, a promettere là danari di mazzetta e qua mazzate alla cieca, e i contadini a sperare e a tentare con tutte le forze loro (ben poca cosa, in verità) di impedire le usurpazioni e di rivendicare gli usi civici e le terre clandestinamente annesse: e si era giunti al fatal Sessanta, ma le quotizzazioni non erano state ancora assodate. E vi erano, ora, anche i feudi ecclesiastici da mettere all’asta. I sindaci e i prefetti non si erano voluti inimicare i magistrati: certo, avrebbero voluto procedere alle assegnazioni favorendo gli amici possidenti (quando questi amici non fossero stati essi medesimi o le loro mogli, o le loro amanti…), e i magistrati non si erano voluti esporre, né con i proprietari terrieri né con il sovrano: sicché avevano deciso di prendere tempo, di dover approfondire, di dover valutare con ulteriori accessi, con ulteriori ricognizioni, con ulteriori testimonianze… Con i piemontesi, però, le cose erano cambiate: anche se le leggi erano rimaste là, nel frattempo, nei codici e nelle pandette, così come erano state scritte e riscritte dal 1806 in poi… Erano cambiate, le cose, perché approfittando del tremblement, i proprietari terrieri erano passati decisamente all’attacco delle terre prese di mira e se l’erano usurpate o aggiudicate per poche lire. Ed avevano cacciato via a pedate (vizietto antico) i poveri cafoni: o li avevano fatti cacciar via dai loro amici bersaglieri, o dai briganti – quelli veri – che così proteggevano e finanziavano in cambio di lavoretti di questo tipo. E quando non se le erano usurpate o aggiudicate perché certi cafoni si erano alzati più mattina di loro, avevano atteso buoni buoni, e, alla fine, erano riusciti a spuntarla ugualmente: ché, con i rincari vertiginosi dei prezzi, con gli inasprimenti fiscali e con le rate usurarie da pagare, magari agli stessi possidenti, i cafoni si erano dovuti arrendere… Se l’erano dovute svendere, le terre, per pochi sporchi centesimi. Come volevasi dimostrare… E furono decine di migliaia i paria della terra che, costretti ad abbandonare le terre promesse, presero la via dei monti. Vittorio Emanuele II, il re galantuomo, vendette un milione e mezzo di ettari di terra demaniale. A chi? Ai cafoni no. I cafoni usarono vanghe, zappe, roncole, mazze e forconi. Non più per lavorare la terra. Per fare la loro guerra. La guerra della fame e della disperazione. Decine di ufficiali superiori che avevano compreso la loro tragedia scrissero fiumi di parole umane, avvertirono Torino del grosso granchio che i protobeccai avevano preso… (Furono molti, sì, gli alti ufficiali onesti della orda di occupazione). Ma Torino spedì, a compiere il bestiale sterminio dei cafoni in armi, la crema del suo canagliume… Estorsioni, rapine, assassinii, eccessi di sadismo… Si… Storia alla mano, i cafoni se la presero con i soldati soltanto quando vennero attaccati. I loro nemici furono i possidenti, gli ipocriti ricchi borghesi che, nel solco della tradizione, sembrava che stessero sull’orlo del precipizio ed erano stati capaci di salvarsi. Poveri briganti… Si gridò a lungo, nel Parlamento subalpino, che le provincie meridionali abbisognassero di iniezioni di benessere economico. Accorsero, finalmente, al loro capezzale, le finanze del nuovo Regno d’Italia. E… si sbracarono. Al cospetto dei disastri, degli sfaceli di ogni genere – ma quelli economici tenevano il campo, tragicamente – i grandi medici la partorirono, alla fin fine, la provvida ricetta! Per fronteggiare la disoccupazione galoppante e la coatta recessione, si ponga mano ad un programma faraonico di lavori pubblici!, fu la loro prescrizione. E Torino applicò e fece sapone. Finanziò (a morte neppure di subito) lavori pubblici per la somma fetente di cinque milioni di lire. Di diciassette miliardi di lire, cioè, e seicento milioni dei nostri giorni!… Io non devo dirvi altro. Poiché credo di avervi, almeno per sommi capi, detto e ridetto, chiaro e tondo o fra le righe, di quali briganti fu fatto il cosiddetto Risorgimento italiano e di quali eroi fu fatto il cosiddetto brigantaggio postunitario. Un solo contributo voglio ancora avere la presunzione di offrire a questo utilissimo convegno. Ed è il seguente: molti ufficiali rimasero stupiti dal comportamento dignitoso dei briganti catturati. Il generale Pallavicino, per esempio, in un rapporto del 1864, successivo dunque di alcuni mesi alla famigerata Legge Pica del 15 agosto 1863, ebbe a scrivere: Non vi fu mai caso in cui un brigante catturato avesse preferito denunciare i compagni o coloro che li avevano soccorsi nel tempo del pericolo. Ealtri alti ufficiali furono concordi nel ritenere che i briganti non seppero fare la guerra, non seppero combattere: seppero, però, morire a testa alta, sfidare – con fucili vetusti e coltellacci spuntiti e arrugginiti – mitragliatrici e cannoni, bajonette e revolver maneggiati da tiratori addestrati. Mentre ritengo che cada a proposito ricordare quanto nel diario di Tristany si trovò scritto (e cioè che anche ai tempi di Mammone i suoi gregari si infischiavano della Monarchia e del Papato oppressi dai Francesi; ma gli uomini di Mammone erano animati dalla volontà decisa di vendicare la loro storia secolare di miseria, di disonore e di schiavitù), voglio concludere: si può dire che i briganti menassero a dirupo la vita? Certo che sì. Ma, meglio, si deve dire che il significato e il valore dell’esistenza sono stati sempre diversi, a seconda che a ponderarli fosse un emarginato, un paria, un povero cristo oppure un inserito, un integrato, un benestante. Il brigantaggio non ebbe – se non di sfuggita e all’inizio – scaturigini borboniche. Ad innescarlo fu una miseria antica, millenaria, fatta di angosce che nessun rappresentante, nessun campione della civiltà corrente potrà mai comprendere appieno. Altro che freddezza dell’abbrutimento, altro che stupidità (parole che Massari riferì alla Camera dei Deputati nel 1863): i briganti furono gli emarginati di sempre, i paria della civiltà contadina, la carne da macello. Andare incontro alla morte fu, per loro, normale; lasciarsi massacrare fece parte della routine, fu quasi un dovere abituale. Non era stato, il loro destino, per secoli e secoli, un lungo calvario di sofferenze più morali che fisiche, o più fisiche che morali? La vita è un bene da difendere ad ogni costo! Chiacchiere! La vita è un bene da difendere per chi non la subisce in maniera monotonamente tragica; può e deve apprezzare il valore della vita chi riesce a coglierne, sperimentandoli, gli alti e i bassi… I briganti che stupirono per il coraggio con il quale affrontarono il plotone di esecuzione non erano affatto stupidi. Al contrario; erano coloro che incoscientemente si pigliavano la rivincita sulla storia della propria rassegnata emarginazione, sbattevano sulla faccia del potere forte e spietato la propria appartenenza al genere umano, si dichiaravano Uomini, nel momento della morte. Riscattavano la loro vita-morte esaltandola nella morte-vita. I boia piemontesi si trovarono di fronte dei morti-vivi per i quali la morte fisica non aveva il significato della perdita: aveva il valore supremodella liberazione. Diverso, perciò, fu il coraggio dei briganti dal coraggio degli acculturati. In costoro lo sprezzo cinico o eroico della vita quale bene supremo. Nei briganti il riscatto, la sortita sarcastica dalla scena del dolore, il rigetto, il vomitamento dell’anima mai sperimentata: non la sua restituzione. La violenza finale. Violenza come disprezzo solenne, non della vita in sé: della società che non si è mai degnata di accorgersi della sua presenza. Perché sia tormentata dal rimorso. Coloro che non riuscirono a morire massacrati? Scesero dai monti e deposero le armi. Si vendettero finanche l’onore delle figliolette e delle madri per togliere il disturbo. Scesero dai monti per prendere la via dell’unica speranza di vita che la matrigna Italia fosse capace di additar loro: l’America… Un passaporto rosso, una mappatella appesa ad una mazza, la morte nel cuore. E fu l’emigrazione … Andò al porto di Napoli, l’Italia degli intellettuali, a vederli partire … Fu soltanto capace di cantarci sopra, di sventolare fazzoletti, di intonare canzoni lagrimose… Partono ‘e bbastimente pe tterre assaje luntane…! Versò qualche lacrimuccia vigliacca. Tornò a casa, mangiò con buon appetito, e si fece la controra. Prosit, Italia degli intellettuali… Un asin bigio rosicchiando un cardo rosso e turchino…

Briganti: quali?…

fonte

http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Manna.htm