Una Società immobile? Sviluppo Pre-Unitario e Questione Meridionale

UNA SOCIETÀ IMMOBILE? SVILUPPO PRE-UNITARIO E QUESTIONE MERIDIONALE
Guido Pescosolido

L’immagine di un’economia e di una società meridionale completamente immobile nei decenni preunitari è stata da tempo sensibilmente rivista dalla storiografia più accreditata. Essa era stata costruita, sin dagli anni dell’unità e in quelli immediatamente successivi, dalla propaganda politica e dalla storiografia agiografica risorgimentale, tendente ad esaltare la positività storica dell’unificazione e le realizzazioni dello stato unitario anche attraverso una minimizzazione dei processi di cambiamento e di sviluppo avvenuti nei decenni precedenti l’unità. Successivamente tale immagine era stata ribadita e consolidata sulla scorta di una non del tutto corretta lettura delle prime inchieste del meridionalismo classico, che negli anni Settanta dell’Ottocento ritrassero una condizione di estrema precarietà economica e sociale dell’area latifondistica delle campagne meridionali, che costituiva evidentemente il nocciolo duro dell’arretratezza economico-sociale del Mezzogiorno, ma che certamente non esauriva l’immagine complessiva che i meridionalisti ne diedero e che comunque non implicava che il Mezzogiorno preunitario nella sua interezza fosse rimasto del tutto “immobile”.
Agli inizi degli anni Settanta del Novecento cominciarono ad apparire studi che rovesciarono repentinamente e radicalmente lo schema immobilista con intenti chiaramente svalutativi e denigratori della politica dello stato unitario, il quale avrebbe saccheggiato le ricchezze del Mezzogiorno borbonico, interrompendo uno sviluppo industriale ormai avviato e riducendo la popolazione del Sud alla miseria e all’emigrazione(Mi riferisco in particolare a E. M. Capecelatro, A. Carlo, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1972, a N. Zitara, L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Milano, Jaca Book, 1971. Molti dati di questi lavori derivavano dal classico di F.S. Nitti, Nord e Sud: prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia, Torino, Roux e Viarengo, 1900, e poi da alcune valutazioni quanto discutibili di Domenico Demarco. Molte argomentazioni di Capecelatro, Carlo e Zitara sono state poi riprese e strumentalmente ingigantite dalla recente propaganda neoborbonica, alla quale hanno fatto gioco, senza volerlo, diversi lavori ispirati al “pensiero meridiano” da Donzelli a Cassano ed anche la pregevole Breve storia dell’Italia meridionale. Dall’Ottocento a oggi, di P. Bevilacqua, Roma, 1993.)
A questo tipo di lettura si contrappose una risposta abbastanza energica della storiografia meridionalistica più qualificata di ogni tendenza, dalla liberale alla marxista, che richiamò invece l’attenzione sull’arretrata situazione del Mezzogiorno al momento dell’unità (Si veda per tutti G. Aliberti, Liberismo e struttura industriale, in Id., Strutture sociali e classe dirigente nel Mezzogiorno liberale, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1979.)
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la rappresentazione immobilista cominciò ad essere rivista anche alla luce di numerosi studi scevri da intenti di strumentazione politico-ideologica e volti ad approfondire con rigore scientifico le dinamiche economiche, sociali, territoriali, istituzionali del Mezzogiorno preunitario e ad articolarle a livello regionale e sub-regionale con uno sforzo che produsse sicuramente una conoscenza migliore di tutta una serie di realtà a lungo trascurate, o peggio oscurate. E la messa in luce di queste nuove dimensioni e realtà del Mezzogiorno preunitario contribuiva sicuramente a meglio intendere non solo la storia economica e sociale meridionale nel periodo preunitario ma anche, a volte al di là degli stessi intenti degli autori, le origini e i termini della questione meridionale divenuta ben presto componente strutturale della vita dello stato unitario (A. Massafra (a cura di), Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Dedalo, Bari, 1981, Id. (a cura di), Campagne e territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Dedalo, Bari, 1984, Id. (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Eco­ nomia, società, istituzioni, Bari, Dedalo, 1988. Per una ulteriore rassegna di questi studi, E. Iachello, Il Mezzogiorno nell’età della Restau­ razione: nuove indicazioni di ricerca, «Società e storia», n. 29, 1985, pp. 649­672, e G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno, 12° vol., Il Mezzogiorno nell’Italia unita, Napoli, Edizioni del Sole, 1991. Inoltre i saggi riguardanti le regioni meridionali contenuti in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, 3 voll., Venezia, Marsilio, 1989­1991.)

I risultati più importanti di questi studi furono dunque un richiamo di attenzione sulla rottura operatasi sin dalla metà del Settecento del circolo vizioso della stagnazione di popolazione, consumi, prezzi,produzione e redditi, che perdurava ormai dalla prima metà del Seicento, e l’individuazione di precise dinamiche di sviluppo produttivo e di trasformazione sociale che rendevano praticamente superata la categoria dell’immobilismo quale chiave di lettura della storia economica e sociale del Mezzogiorno preunitario. In particolare furono individuati modi e tempi di una crescita produttiva dell’agricoltura meridionale la cui consistenza era comprovata, oltre che da numerosi e proficui studi su scala regionale, anche dal fatto che, considerati i flussi di importazione ed esportazione di derrate alimentari, era stata quanto meno tale da consentire un aumento della popolazione meridionale dai 6 milioni di individui del 1771 agli oltre 7.150 del 1801 e ai 9,5 milioni del 1861, quindi con un incremento complessivo in 90 anni del 63% (G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico 1750­1913, Roma­Bari, Laterza, 20072).
Una serie di originali ricerche mise poi in luce come non solo nella cerealicoltura, direttamente interessata al soddisfacimento del fabbisogno alimentare primario della crescente popolazione, ma anche in altri importanti settori come quelli olivicolo, vitivinicolo, agrumicolo e gelsi-bachicolo, che producevano sempre più per i mercati esteri, l’aumento produttivo che avrebbe raggiunto i suoi vertici ottocenteschi negli anni Ottanta del XIX secolo era iniziato già nel periodo preunitario. Fu nel contempo documentata con una serie di studi su numerose realtà urbane e rurali un’ascesa di lungo periodo dei prezzi soprattutto dei cereali e di altri prodotti alimentari che peraltro ripeteva una dinamica estesa in pratica all’intera Europa. Essa garantì un incremento dei redditi, la cui ripartizione fra i fattori produttivi, influenzata dalla perdita di potere contrattuale della forza lavoro, dovuta al ricordato aumento della pressione demografica, premiò fasce abbastanza ristrette della popolazione meridionale (Ivi, pp. 26­43).
L’aumento della produzione e dei redditi era stato peraltro accompagnato da un esteso cambiamento delle forme giuridiche di possesso della terra e in cambiamenti più contenuti della distribuzione della proprietà fondiaria e dei rapporti di produzione. Quanto al mutamento delle forme giuridiche del possesso fondiario, il Mezzogiorno continentale e la Sicilia ne erano stati teatro specie nella prima metà dell’Ottocento in misura più estesa e significativa di qualunque altra parte d’Italia. Dopo la liquidazione settecentesca del patrimonio di enti ecclesiastici soppressi, nell’Ottocento, con l’abolizione del feudalesimo e la legislazione eversiva delle soggiogazioni della proprietà ecclesiastica e nobiliare e dei diritti collettivi delle popolazioni contadine sui terreni demaniali ed ex feudali, si era formata una massa enorme di nuova proprietà borghese.Tale processo non aveva però trovato una proporzionata corrispondenza nella distribuzione della proprietà fondiaria e ciò segnava un primo chiaro limite della natura e della portata delle dinamiche sociali e anche produttive registrate nelle campagne meridionali prima dell’unità. In base alla legge eversiva del 1806 il grande baronaggio meridionale era infatti riuscito a salvare la maggior parte degli antichi latifondi feudali, cedendone circa un terzo ai contadini titolari degli antichi diritti di uso e mantenendo in tal modo il possesso di un’estensione ancora enorme di terreni ex feudali, ora detenuti in proprietà piena e libera. Si era inoltre fatto avanti un nuovo ceto di grandi proprietari borghesi formato da grandi affittuari (massari e gabelloti) e da una parte del ceto civile cittadino, che già aveva acquistato una quota consistente sia del patrimonio ecclesiastico espropriato sia dei terreni delle famiglie nobili andate in dissesto o estinte dalla fine del Settecento in poi. Parte dei contadini che avevano avuto accesso a qualche quota di terreno demaniale si era trovata spesso costretta a rivenderla a grandi proprietari vecchi e nuovi. In definitiva, se la proprietà feudale era scomparsa, la crescita di una media e piccola proprietà coltivatrice era rimasta abbastanza ridotta e la tipica polarizzazione della proprietà fondiaria nel Mezzogiorno in età moderna tra latifondo ex-feudale e borghese da un lato e proprietà contadina polverizzata dall’altro, non era stata significativamente scossa e tanto meno scardinata (P. Villani, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806­1815), Milano, Banca Commerciale Italiana, 1964, Id. Italia napoleonica, Guida, Napoli, 1978, A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Dall’antico regime alla società borghese (1657­1860), Liguori Editore, Napoli 1986, Id. Terra di lavoro in Età moderna, Napoli, Guida, 1978, G. Pescosolido, Unità nazionale cit., pp. 50­57).
La figura del grande affittuario di latifondi emergeva ancora come perno intorno al quale ruotava la vita economica di gran parte della società rurale dell’area latifondistica e, per quanto rilevanti fossero gli avanzamenti del medio possesso nelle aree per lo più costiere delle colture specializzate, il quadro complessivo della tipologia dei rapporti di produzione nelle campagne meridionali non risultava, in fin dei conti, radicalmente alterato, mentre i contadini si ritrovavano nell’immediato senza l’antico paracadute degli usi civici (Id., Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno, 12° vol., Il Mezzogiorno nell’Italia unita, Napoli, Edizioni del Sole, 1991, pp.46­47).
Oltre a ciò le masse rurali avevano subito, lungo l’arco della prima metà dell’Ottocento, l’estesa usurpazione di terre demaniali da parte di nuovi, intraprendenti e rapaci proprietari borghesi, senza che il governo borbonico facesse alcunché di incisivo per rimediare al fenomeno (Sul problema feudale e demaniale mi limito al rinvio d’obbligo ai classici D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli, 1883 (2 ed.), R. Trifone, Feudi e demani. Eversione della feudalità nelle procincie napoletane, Roma­Milano­Napoli, 1909, F. Lauria, Demani e feudi nell’Italia Meridionale, Napoli, 1924, V. Ricchioni, Le leggi eversive della fedualità e le quotizzazioni demaniali nel Mezzogiorno. Problemi dell’agricoltura meridionale, Napoli, 1953, A. Cestaro, Aspetti della questione demaniale nel Mezzogiorno, Brescia, 1963. Una fonte importante per una valutazione d’insieme resta la Relazione della Commissione reale per i demani comunali nelle province del Mezzogiorno, 1885, in
L. Franchetti, Mezzogiorno e colonie, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1950. Il più recente inquadramento del problema demaniale è in G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, vol. V, Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815­1860), Torino, UTET, 2007, pp. 670 ss).
Fu questa l’origine dell’aggravamento di quella frattura tra galantuomini e contadini che non è stata ridimensionata nella sua portata sociale e politica da nessuna revisione storiografica tesa alla valorizzazione degli effetti dello sviluppo economico preunitario. Al contrario, essa fu accentuata proprio dai processi di evoluzione in senso capitalistico-borghese dell’economia e della società meridionale, i cui effetti accelerarono la perdita di consenso da parte della dinastia bor- bonica e contribuirono all’insorgere del brigantaggio all’indomani del 1861. Un brigantaggio da vedere, quindi, come frutto anzitutto della povertà, della miseria e di un odio covato a lungo – e di tanto in tanto esploso – nel corso della prima metà dell’Ottocento dai contadini meridionali contro i grandi possidenti e il ceto civile, e che nel momento del passaggio di regime, tentò la resa dei conti definitiva contro il ceto civile e i grandi proprietari che il nuovo Stato difendeva, ribadendone e anzi rafforzandone la supremazia sociale ed economica. L’insofferenza per il carico fiscale piemontese e le nostalgie borboniche postunitarie rafforzarono, ma non furono l’origine prima di una ribellione le cui cause erano ben radicate nella storia sociale del Mezzogiorno prima dell’Unità e anche nei limiti di una espansione produttiva che era stata considerevole, ma bastante a sfamare l’accresciuta popolazione, non a migliorarne in modo significativo le condizioni di vita (La migliore e più attendibile ricostruzione del brigantaggio meridionale resta ancora oggi quella di F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964).
Neppure l’estendersi dei sistemi di conduzione capitalistica nelle aree costiere legati alle colture specializzate destinate al mercato interno e all’esportazione, nonché nelle aree campane dell’orticoltura in funzione del mercato della capitale, sicuramente rilevante, fu in effetti tale da sconvolgere i preesistenti rapporti di forza tra i fondamentali sistemi agrari e gli assetti sociali ad essi corrispondenti. Nell’insieme, il rapporto tra produzione lorda vendibile delle colture arboree e quella delle colture erbacee rimase fino al 1861 nettamente favorevole alle seconde, che erano praticate nel latifondo a grano e pascolo mediante tutte le figure di operatori ad esso collegate: proprietari latifondisti, grandi affittuari speculatori (massari e gabelloti), lavoratori senza terra o proprietari non autosufficienti (terraticanti, braccianti, contadini). Tale rapporto sarebbe giunto poi a rovesciarsi solo dopo l’unità, nel corso degli anni 1880-90 (I dati statistici relativi a tali fenomeni sono in Istat (Istituto centrale di statistica), Indagine statistica sullo sviluppo del reddito nazionale dell’Italia dal 1861 al 1956, «Annali di statistica», 9, Roma, 1957, Id., Sommario di statistiche storiche italiane 1861­1955, Roma, 1958).
Nel 1861 la superficie destinata alle colture legnose specializzate era pari nel Mezzogiorno al 7% del totale della superficie agraria e forestale complessiva, contro il 44,6% dei seminativi, il 15% di boschi, il 25,7% di prati e pascoli permanenti (Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861­1961, Roma, 1961, p. 49).
Il fatto che nel Nord la superficie coperta da boschi fosse pari al 21,6% del totale suona come un’ulteriore indicazione indiretta di quale fosse la natura e la portata dell’aumento produttivo della cerealicoltura del Sud, basato molto sulla semplice estensione dei colti in seguito a disboscamenti e molto poco sulle bonifiche e su una trasformazione delle tecniche colturali. D’altro canto sappiamo che le rese unitarie del frumento erano rimaste sostanzialmente stazionarie anche nel Nord-Italia e una moltiplicazione del seme per sei o per otto nel 1861 era considerata molto favorevole non solo nel latifondo meridionale, ma anche nelle aziende della cerealicoltura asciutta centrosettentrionale, incluse quelle della pianura padana ( G. Porisini, Produttività e agricoltura: i rendimenti del frumento in Italia dal 1815 al 1922, Torino, Ilte, 1971, Agricoltura e aziende agrarie nell’Italia Centro­settentrionale (secoli XVI­XIX), Atti del Convegno di Trento 4­6 giugno 1981, a cura di G. Coppola, Milano, Franco Angeli, 1983, G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Roma­Bari, Laterza, 2004 (I ed. Firenze, Le Monnier, 1983).
La pratica delle foraggere era stabile solo nella grande azienda capitalistica delle zone irrigue della bassa lombarda. Quasi ovunque, e nel Sud in particolare, la loro comparsa era evento eccezionale, di data prossima agli anni 1850 e accolta da coloni e contadini con molta diffidenza, quando non con aperta resistenza (G. Pescosolido, La costruzione dell’economia unitaria, in L’unificazione italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2011, pp. 411­ 13).
Questi limiti quantitativi e qualitativi della crescita produttiva e dell’evoluzione dei rapporti sociali nelle campagne non debbono indurci a ricadere nello stereotipo di un’agricoltura e di una società rurale meridionale rimaste immobili, né tanto meno a dimenticare che le attività primarie erano la componente dell’economia meridionale che di più aveva stimolato un discreto innalzamento del livello della commercializzazione interna e internazionale dei suoi prodotti e lo sviluppo di una rete di centri urbani di alcune regioni come la Campania, la Puglia, la Sicilia puntualmente illustrato in una serie di studi indirettamente già ricordati (G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale cit., pp. 62 ss.).
Bisogna infatti aggiungere che se l’evoluzione della struttura sociale del Mezzogiorno conteneva ancora molti elementi di arretratezza rispetto a quella del Centro-Nord, in termini di prodotto pro-capite il divario si manteneva entro dimensioni molto contenute. Se infatti abbandoniamo la categoria dell’immobilismo e ci rifacciamo a quella molto più efficace di arretratezza in termini moderni, allora si deve parlare per il Mezzogiorno rispetto al Nord-Italia al momento dell’unità di una evidente arretratezza a causa non tanto del prodotto dei principali rami di attività (agricoltura e industria) e del reddito pro-capite, quanto della pochezza del capitale fisso sociale, della fragilità ed eterogeneità del sistema creditizio, del basso sviluppo dei livelli di alfabetizzazione.
Nel 1998, in seguito ad una verifica dei dati contenuti nelle fonti utilizzate dall’annuario statistico del 1864 usato da Richard Eckaus per le sue stime, ritenni che il livello da questi segnalato del 25% del dislivello del prodotto pro-capite tra Nord e Sud fosse eccessivo e che la differenza di reddito non potesse in realtà superare il 10, massimo il 15%:che non era poco, ma che era determinato in misura minima dall’arretratezza industriale del Mezzogiorno,stante la modestia dell’apparato industriale sia del Nord che del Sud, quanto dalla superiorità schiacciante del Nord nella produzione gelsi-bachicola (peraltro congiunturalmente in crisi a causa della pebrina), in quella serica e nell’allevamento bovino, mentre la cerealicoltura meridionale manteneva livelli di produzione globale e per unità di superficie abbastanza vicini e in alcuni settori superiori a quelli settentrionali. Inoltre una situazione nettamente favorevole al Sud si registrava nell’allevamento ovino e soprattutto bufalino, mentre le colture specializzate meridionali, se non riuscivano ad annullare, certo limitavano di molto il vantaggio della sericoltura e della zootecnia settentrionale. Ciò mi indusse a concludere che il divario agricolo Nord-Sud intorno al 1861 non era generalizzato e profondo come le visioni dualiste più radicali attestavano ( La visione più fortemente negativa dello stato di arretratezza del Mezzogiorno al momento dell’unità è nella raccolta di scritti di L. Cafagna,
Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 1989).
E questo valeva anche per le attività secondarie.
Nel Mezzogiorno l’entità dei valori produttivi, della quota di popolazione e degli interessi economici coinvolti nelle attività secondarie era venuta infatti crescendo nella prima metà dell’Ottocento non molto meno di quanto era avvenuto nel resto della penisola. Qua e là anche nel Mezzogiorno erano sorte manifatture, per lo più tessili e alimentari, ma anche siderurgiche, meccaniche e cartarie, con discreta organizzazione finanziaria e dotazione di macchinari, accanto a un certo numero di antichi nuclei produttivi di ceramica e utensili vari, la maggior parte dei quali conservava però organizzazione e dimensioni di tipo artigianale. Sul finire del Settecento tali iniziative erano state frutto quasi esclusivo della sovvenzione pubblica, poi erano state alimentate dalla domanda attivata dalle guerre, dal blocco continentale e dalle politiche economiche francesi durante il periodo napoleonico. Infine negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento erano state realizzate da imprenditori stranieri affiancati anche da imprenditori meridionali ora più maturi che nel decennio francese (S. De Majo, L’industria protetta. Lanifici e cotonifici in Campania nell’Ottocento, Napoli, Athena, 1989).
Tuttavia al momento dell’Unità i nuclei industriali esistenti nel Mezzogiorno, ma anche nel resto d’Italia, costituivano unvero sistema industriale auto-propulsivo, paragonabile a quanto era stato realizzato in Inghilterra e nelle aree industrializzate del Continente europeo ( G. Mori, Industrie senza industrializzazione. La penisola italiana dalla fine della dominazione francese all’Unità nazionale (1815­1861), in Studi Storici», 30, 3 (1989), pp. 603­665; L’Ottocento economico italiano, a cura di S. Zaninelli, Bologna, 1993).
Essi erano rimasti immersi nelle fitte maglie della rete dei lavoranti a domicilio, che in parte produceva per sé e per la propria famiglia gli indumenti personali, in parte lavorava su commissione di mercanti imprenditori che distribuivano la materia prima e ritiravano il prodotto finito. La pluriattività della manodopera rurale era ancora elevata al Nord come al Sud della penisola. Il processo di separazione delle attività industriali da quelle agricole e i livelli di specializzazione produttiva erano ancora molto arretrati ovunque. Gli operai nel senso classico del termine erano pochi. I dati sui censimenti da questo punto di vista ingannano perché nella voce «addetti all’industria» essi conteggiano senza alcuna distinzione tutti gli addetti alle attività secondarie, quindi lavoratori salariati a tempo pieno e parziale, artigiani e manovali di ogni genere, senza linee di demarcazione precise e stabili rispetto ai lavoratori stagionali. Molto più vicina al vero la relazione dell’inchiesta sulle attività industriali nel 1874, che faceva ascendere a poco meno di 400.000 il totale degli addetti all’industria italiana in senso stretto e il grosso di essi lavorava nel Nord.
In definitiva il notevole e apprezzabilissimo sforzo di numerose indagini effettuate anche a livello aziendale, se da un lato ha cancellato anche per l’industria lo stereotipo di un assoluto immobilismo preunitario, dall’altro non ha potuto mutare il significato inequivocabile di un confronto tra gli apparati industriali dell’Italia e quelli dei paesi industrializzati dell’epoca. Nel 1861 il rapporto tra la produzione siderurgica inglese e quella italiana era divenuto di circa 120 a 1 dopo che alla fine del Settecento era solo di 3 a 1. In quella cotoniera il rapporto era di 67 a 1.
All’indomani dell’Unità la composizione dei consumi energetici italiani era ancora quasi interamente basata sulla legna da ardere e sulla forza idrica, mentre quella dei paesi nord e centro-europei era ormai spostata prevalentemente sul carbone. Il costo di una tonnellata di carbone al centro della Sicilia era pari a otto volte quello a bocca di miniera in Inghilterra. Alla luce di questo confronto su scala europea il divario interno Nord-Sud nell’apparato industriale italiano perdeva del tutto consistenza in un insieme di poco differenziata arretratezza: non quindi per un particolare sviluppo industriale del Mezzogiorno preunitario vagheggiato dalla letteratura neoborbonica, quanto per le modeste dimensioni anche dello sviluppo delle strutture produttive dell’Italia settentrionale ( G. Pescosolido, Alle origini del divario economico, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a cura di L. D’Antone, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 13­36; G. Pescosolido, Unità nazionale cit., pp. 143­6).
In definitiva il divario Nord-Sud non era al momento dall’Unità così accentuato e generalizzato come la letteratura dualista affermava, era invece sensibilmente diversificato a seconda dei vari indicatori dello sviluppo economico e civile, e i fattori che ponevano il Sud in una condizione di inferiorità netta rispetto al Nord e in particolare rispetto a Piemonte, Liguria, Lombardia non erano riscontrabili nel prodotto interno lordo né agricolo, né industriale, ma erano invece ravvisabili nel marcato dislivello dei sistemi creditizi, delle infrastrutture, del capitale fisso sociale e dello sviluppo civile in genere (Ivi, pp. 66 ss. Per un tentativo di sottrarre il giudizio sul sistema creditizio meridionale ad un meccanico confronto con altri modelli e a una analisi centrata sul rapporto interno tra banca e sistema economico meridionale si veda L. De Matteo, Banca, credito ed economia nel Mezzogiorno continentale nell’Ottocento, in Storia d’Italia, Annali, La Banca, 23, Torino, 2008, pp. 256­295: un approccio sicuramente produttivo per conoscere meglio le forme di credito funzionali ad una economia imperniata su un modello di sviluppo agricolo molto legato all’autoconsumo. Cosa che comunque conferma il discorso sui limiti della connotazione in senso extra­agricolo dell’economia meridionale).
Dagli anni Quaranta dell’Ottocento era divenuto ormai non più equivocabile che la modernizzazione dei trasporti terrestri era la via maestra per creare mercati e la premessa indispensabile a una qualsiasi forma di industrializzazione. Tuttavia l’Italia centro-meridionale nel 1861 aveva un sistema di viabilità interna che per andare da Civitavecchia ad Ancona e da Bari a Napoli ancora rendeva preferibile fare il periplo della penisola via mare. La spinta alla costruzione di vie di comunicazione terrestre evidenziata da numerosi studi anche nel Sud della penisola italiana, pur positiva, era stata però non solo più debole di quella estera, ma per di più tutta interna ai diversi ambiti regionali, senza significativi collegamenti interstatuali e longitudinali. Desta sempre stupore il numero dei comuni non raggiunti da strade carrozzabili alla vigilia dell’unità: circa 280 su 330 in Sicilia, circa 1600 su 1800 nel Mezzogiorno continentale.
L’aspetto più preoccupante di tutta la problematica relativa alle vie di comunicazione terrestri del Mezzogiorno stava comunque nell’inferiorità accumulata nell’ambito delle costruzioni ferroviarie. I tentativi di ridimensionare il ruolo delle ferrovie nello sviluppo economico italiano mi sono parsi sempre scarsamente persuasivi e la gravità del fatto che il Mezzogiorno nel 1861 avesse solo il 5% della rete ferroviaria nazionale resta estrema e ulteriormente accentuata dal fatto che quel 5% era concentrato tutto in Campania mentre le restanti regioni del Regno delle Due Sicilie ne erano completamente prive.
Sono questi i parametri che inducono a ritenere il divario Nord-Sud al momento dell’unità di una consistenza superiore a quella denunciata dalla differenza nel reddito pro-capite, che alcune stime più recenti valutano addirittura vicine allo zero (SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud. 1861­2011, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 447 ss., V. Daniele, P. Malanima, Il divario Nord­Sud in Italia 1861­2011, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, G. Pescosolido, Discussione, in Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, giornata di studi tenutasi il 30 maggio 2011 presso la Camera dei Deputati, «Quaderni Svimez», numero speciale (31), Roma, marzo 2012, pp. 105­114).
Sicuramente molto contenuto in termini sia di produzione che di produttività agricola e industriale rispetto al Nord, lo sviluppo economico del Mezzogiorno non era comunque andato oltre il limite di una prima episodica e frammentaria modernizzazione. Esso non solo non aveva messo in discussione il modello di sviluppo agricolturista, ma, ed era la cosa più importante, non aveva neppure creato i presupposti per farlo nell’ambito del sistema creditizio, di quello infrastrutturale e dello sviluppo civile in genere, con l’eccezione di uno sviluppo quantitativo, ma non qualitativo, della marina mercantile ( G. Pescosolido, Unità nazionale cit., pp. 93­101).
E se era vero che neppure nel Nord il modello agricolo-commerciale era stato in una qualche misura messo in discussione, era altrettanto vero che in Lombardia, e soprattutto in Liguria e Piemonte, le premesse per farlo erano state create in materia di infrastrutture, e in particolare di rete ferroviaria, ma anche di strutture creditizie e di livelli di alfabetizzazione. Sarà stato un caso, ma la prima base industriale italiana che si formò a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, prese piede nelle tre regioni che già nel 1861 erano maggiormente dotate di ferrovie – Piemonte, Liguria, Lombardia -, che erano poi le stesse che sempre nel 1861 avevano solo il 50-54% di analfabeti, contro l’87% del Mezzogiorno continentale, l’89% della Sicilia, il 78% dell’Emilia-Romagna, il 74% della Toscana, l’83-84% delle Marche e dell’Umbria. Il che offre un parametro di giudizio fondamentale sull’opera della dinastia borbonica, sulle quote di responsabilità ad essa spettanti nelle origini della questione meridionale e sulle problematiche che il Mezzogiorno avrebbe dovuto poi affrontare all’interno di una cornice politico-istituzionale che puntava deci- samente ad inserirsi nell’area economica più progredita d’Europa e del mondo (Id., La costruzione cit., pp. 421­3. Sempre valido il realistico ed equilibrato quadro delle deficienze e delle difficoltà dell’economia meridionale alla vigilia dell’unificazione tracciato da R. Villari, Problemi dell’economia napoletana alla vigilia dell’unificazione, in Id., Mezzo­ giorno e contadini nell’età moderna, Roma­Bari, Laterza, 1977, pp. 185­229).
Nell’ambito dello stato unitario l’economia e la società meridionale furono sottoposte a sollecitazioni enormemente più violente che in passato. Nell’immediato esse provocarono un malessere che si aggiunse a quello già preesistente nelle campagne a causa della povertà di fondo e delle tensioni sociali indotte dai processi di riorganizzazione capitalistica avviate sin dal periodo francese. Il brigantaggio, ridotto semplicisticamente da una incredibile letteratura populistico-divulgativa a quasi cavalleresca ribellione contro la brutalità e l’oppressione di un esercito conquistatore, fu, come abbiamo già detto, la prima e più drammatica manifestazione di quell’insieme di problemi che negli anni Settanta dell’Ottocento i primi meridionalisti definirono “questione meridionale”. Questione anche politica per la minaccia di restaurazione borbonica di cui per diversi anni fu portatore, il brigantaggio fu soprattutto questione sociale sfociata in guerra civile di meridionali contro altri meridionali, di cafoni contro galantuomini, che obbligò di fatto il potere costituito a una repressione la cui posta in gioco era la sopravvivenza stessa dell’unità nazionale. E se della sollevazione violenta lo stato italiano ebbe ragione nel giro di un decennio, non riuscì mai definitivamente ad avere ragione degli altri aspetti della questione meridionale, che furono legati al problematico inserimento dell’economia e della società meridionale nello stato unitario e nel meccanismo di sviluppo capitalistico nazionale: problemi che nascevano dalla necessità di risolvere quelli ereditati dallo stato borbonico e di costruire una nuova economia e una nuova società chiu- dendo definitivamente la porta a qualunque anacronistico ritorno al passato.

Ad annessione politica conclusa, già dal gennaio 1861 si ebbero le proteste e le resistenze generate dall’applicazione dall’oggi al domani alle regioni meridionali della tariffa liberista piemontese. Non fu un caso che l’unica voce contraria in Parlamento alla introduzione immediata e indiscriminata di quella tariffa fosse quella del meridionale Giuseppe Polsinelli (Mi limito a rinviare a L. De Matteo, Governo, credito e industria laniera nel Mezzogiorno. Da Murat alla crisi postunitaria, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1984 e L. De Rosa, La Rivoluzione industriale e il Mezzogiorno, Roma­Bari, 1974, Id., Iniziativa e capitale straniero nell’industria metalmeccanica del Mezzogiorno 1840­1904, Napoli, Giannini, 1968).
Proteste vigorose si ebbero anche per le dimensioni senza precedenti del carico fiscale che fu rovesciato sul Mezzogiorno, mentre le problematiche della corruzione delle amministrazioni pubbliche meridionali e delle condizioni di vita quasi inumane dei contadini andarono ad alimentare la parte più cospicua della letteratura meridionalistica. A distanza di quasi 150 anni, stando ai problemi più strettamente economici e ai relativi riflessi sociali, va confermato che indubbiamente nel 1861 l’industria del Mezzogiorno fu colpita più duramente di quella del Nord dalla concorrenza franco-inglese e che in alcuni settori fu chiaramente svantaggiata dalle scelte effettuate in materia di commesse statali.Va però anche ricordato che la storiografia recente ha ridimensionato la portata dell’impatto negativo della politica liberista sull’industria meridionale, sia per la modestia stessa dell’apparato industriale meridionale, sia perché la parte più vitale di esso sopravvisse. Non c’è dubbio tuttavia che iniziò allora quella progressiva divaricazione tra un Sud a vocazione sempre più accentuatamente agricolo-commerciale e un Nord in cui vi furono forze che non abbandonarono mai le speranze di pervenire a un cambiamento della politica economica statale a favore delle attività non agricole (G. Pescosolido, La costruzione cit., pp. 428­430, L. De Matteo, Noi della meridionale Italia. Imprese e imprenditori del Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Napoli, ESI, 2002).
La strategia dei gruppi industriali superstiti nel Sud si ridusse progressivamente alla mera difesa di singoli gruppi societari o semplici aziende (G. Pescosolido, Unità nazionale cit., pp.93­101).
All’appuntamento con la nuova congiuntura che si aprì nella storia economica e sociale italiana con gli anni Ottanta dell’Ottocento, il Mezzogiorno arrivò con una pattuglia di imprenditori che, per quanto capace di conseguire alcuni apprezzabili risultati a livello di singole aziende, non era abbastanza forte economicamente, né abbastanza coesa e determinata ideologicamente, per avere un peso politico e strategico equivalente a quello dell’imprenditoria settentrionale ( Non si tratta, quindi, di accogliere le tesi di una sorta di diversità antropologica degli imprenditori meridionali teorizzata nel lavoro di J.A.Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815­1860, Roma­Bari, Laterza, 1979. Queste furono tempestivamente respinte da R. Romeo, I Sombart del Sud, «Il Giornale», 29 marzo 1979, poi in Idem, Scritti storici. 1951­1987, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 353­ 355 e da G. Civile, Economia e società nel Mezzogiorno tra la Restaurazione e l’Unità, «Società e Storia», 9 (1980), pp. 705­713. Per una acuta ricostruzione del dibattito sulla problematica dell’imprenditore meridionale nell’ Ottocento si veda L. De Matteo, Economy under pressure. Un paradigma interpretativo dell’economia del Mezzogiorno nel XIX secolo, «Storia economica», XIII, 2010, 1­2, pp. 227­248, Id., Imprenditori a Napoli nell’Ottocento, «Storia economica», IX, 2006, 2­3, pp. 305­337).
E fu così che infine rimase soprattutto nelle mani di imprenditori del Nord l’iniziativa della battaglia per il cambiamento della politica doganale e di tutta la politica economica dello Stato in tema di attività industriali e di modello di sviluppo.
Tuttavia per comprendere tutte le ragioni dell’atteggiamento dell’imprenditoria meridionale va tenuto presente non solo la posizione di favore che alcune scelte di politica economica conferirono ad imprese settentrionali (Si ricordi che le industrie meridionali non ebbero commesse dall’esercito italiano e che la concessione di licenze per la navigazione a vapore escluse le tre compagnie napoletane (Compagnia di Navigazione a vapore delle Due Sicilie, la Calabro­Sicula e la Raspadino); Cfr.
G. Pescosolido, Unità nazionale cit., pp. 181­183), ma anche il fatto che la politica liberista assicurò all’agricoltura meridionale in tutti i suoi settori una crescita senza precedenti delle esportazioni e conseguentemente della produzione, che compensò a livello sia di reddito che di occupazione almeno fino al 1887 le perdite subite sul fronte delle industrie e anche su quello della rete dei trasporti marittimi. In tale crescita è da ricercare il forte radicamento nella cultura meridionale e meridionalistica – anche quella che più si preoccupava delle condizioni di arretratezza e di miseria del Mezzogiorno – della convinzione che l’avvenire economico e sociale del Sud risiedesse in uno sviluppo di tipo prevalentemente agricolo-commerciale (G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli, Guida, 1978, ora in versione aggiornata in Id., Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Manduria­Bari­Roma, Piero Lacaita Editore, 2005).
Solo Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti, quest’ultimo peraltro dopo una prima fase di adesione al liberismo, si sottrasse a quella suggestione. Alla crescita dell’agricoltura nazionale in quel periodo alcune regioni meridionali, con la Sicilia in testa, parteciparono come segmento forte, di primo piano. Se la produzione cerealicola migliorò di più nel Nord, sicuramente le colture specializzate vitivinicole, orticole, agrumarie segnarono un aumento senza precedenti in un contesto in cui l’80% di tale produzione proveniva dalle regioni meridionali (G. Pescosolido, La costruzione cit., p. 430­432, Id., L’economia siciliana nell’unificazione italiana, in «Mediterranea. Ricerche storiche», 2010, 19, pp. 229).
Nel corso degli anni Ottanta, mentre nel Nord si aveva un primo deciso avvio dell’industrializzazione, nel Mezzogiorno le colture specializzate destinate ai mercati esteri ebbero un’ulteriore straordinaria espansione, per il vino mai più ripetuta in seguito. Fu grazie a questi risultati che il divario nel reddito pro-capite tra Nord e Sud tra il 1861 e il 1887 non aumentò, nonostante l’avvio dell’industrializzazione settentrionale, fornendo apparentemente buone ragioni a chi, come gli industriali della lana di Arpino dismettevano le loro industrie per acquistare terreni dell’Asse ecclesiastico (C. Cimmino, Capitalismo e classe operaia nel Mezzogiorno nell’800 postunitario: i lanifici della Valle del Liri, di S. Elia Fiumerapido e dell’area matesina, in Id. (a cura di), Economia e società nella Valle del Liri nel sec. XIX. L’industria laniera, Atti del Convegno di Arpino, 3­ 5 ottobre 1981, numero speciale della «Rivista storica di Terra di Lavoro», 1982­1986, 13­19, pp. 111­217).
Alla maggiore pressione fiscale rispetto all’età borbonica, corrispose d’altronde un impegno dello stato unitario nel processo di modernizzazione assolutamente superiore. Il Mezzogiorno nel 1887 risultava aver rimosso una parte considerevole dei fattori del ritardo che accusava nel 1861. Il caso più eclatante era nella dotazione di ferrovie, strade, servizi civili, che era nettamente migliorata rispetto al 1861. Nel 1886 le grandi isole, che ne erano del tutto prive nel 1861, avevano 893 km di binari. Il Mezzogiorno continentale che ne aveva 184 nel 1861, nel 1886 ne aveva 2.698, il che significava che il Sud nel suo insieme era passato dal 7,3 al 33,2% del totale della rete ferroviaria nazionale. Nel 1861 l’Italia aveva 8,8 km di ferrovie per ogni 1.000 kmq, la Sicilia zero e il Mezzogiorno continentale 2,4. Nel 1886 l’Italia aveva 42 km di ferrovie per 1.000 kmq, la Sicilia ne aveva 34,7 e il Mezzogiorno continentale ne aveva 35,2. I progressi in termini non solo assoluti, ma anche relativi, in uno dei maggiori indicatori di arretratezza del Sud al momento dell’Unità erano evidenti ( Svimez, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861­1961, cit, p. 477).
Fu per queste ragioni che, nonostante il brigantaggio, la renitenza alla leva, la crescita della protesta per il carico fiscale, il Mezzogiorno e lo stesso pensiero meridionalista, pur protestando fino a denunciare l’esistenza di due Italie, non sostennero mai che convenisse staccarsi dallo stato italiano e tanto meno, chiuso il brigantaggio, pensarono a una restaurazione borbonica; reclamarono cambiamenti energici della politica economica governativa nella convinzione che comunque solo all’interno dello Stato unitario il Mezzogiorno avrebbe potuto avere un futuro migliore. D’altro canto neppure il Nord pensava allora minimamente di staccarsi dallo Stato unitario ben consapevole del fatto che il Sud, grazie ai grandi investimenti effettuati in infrastrutture aveva assunto nel sistema economico nazionale il ruolo di un mercato che all’industria settentrionale non conveniva certo perdere, un mercato rafforzato nelle sue possibilità di acquisto di manufatti settentrionali dai proventi delle esportazioni di prodotti agricoli specializzati e a partire dalla metà degli anni Ottanta dalle rimesse degli emigrati. E solo quando ebbe la disponibilità esclusiva del mercato meridionale, garantita dalla tariffa protezionista del 1887, l’industria dell’Italia settentrionale iniziò il recupero rispetto a quelle delle aree europee più avanzate, divenendo uno dei paesi più sviluppati del mondo, sia pure con una questione meridionale ancora aperta e che non si potrebbe certo risolvere tornando a una condizione politico istituzionale di tipo preunitario, che non sarebbe senza gravi danni neppure per il Nord, e la cui debolezza al Nord come al Sud, si spera sia stata sufficientemente illustrata in queste pagine.