Processi contro il brigantaggio

Processi contro il brigantaggio
Il brigantaggio che si diffonde nell’Italia meridionale, continentale ed insulare, è un fenomeno che si sviluppa a più riprese, e con connotati organizzativi sempre più massicci, tra la fine del ‘700 e il primo decennio dopo l’unità d’Italia. Fu l’espressione della rivolta anarcoide del mondo contadino del Sud. La sua intensità dipendeva dal grado di malcontento della popolazione rurale: divenne acuto in anni di crisi economica, in occasione di forti tensioni sociali, o anche di sconvolgimenti politico-amministrativi; tramontò parallelamente alla dissoluzione della civiltà contadina e al consolidamento delle compagini statali. Oltre a vera forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione (delinquenti ansiosi di bottino), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare.
Alla fine del Settecento è importante ricordare il brigante Angelo Duca, detto “Angiolillo”, che si fece fuorilegge nel 1780 e operò nella Basilicata settentrionale. Nella sua storia troviamo molto del brigante giustiziere, con il carattere di fuorilegge ma non di delinquente agli occhi del popolo. Fu catturato nel 1784 e impiccato senza processo, per ordine reale. Nel 1799, dopo che le armate rivoluzionarie francesi invasero il Regno Borbonico meridionale, numerosi banditi dell’epoca si aggregarono ai combattenti antigiacobini, capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo per la riconquista del Regno di Napoli, divenuto Repubblica Napoletana, da parte della corona borbonica. Alcuni dei capi briganti tra cui si ricorda Michele Pezza (detto “Fra Diavolo”) furono promossi al grado di colonnello dell’armata regia e insigniti di onorificenze. La strategia della mobilitazione di parte degli strati più poveri della popolazione sotto la guida militare di briganti messa in atto in questi anni, sarebbe stata seguita dai Borboni anche tra il 1806-1815 e dopo il 1860, sempre in concomitanza dell’esilio dei reali. Durante il decennio francese, vennero attuate dure repressioni contro i briganti, soprattutto in Basilicata e Calabria, regioni in cui si concentrò maggiormente la reazione legittimista alla presenza francese. Nel 1806, i generali francesi Andrea Massena e Jean Maximilien Lamarque, durante la repressione delle rivolte saccheggiarono le città lucane di Lagonegro, Viggiano, Maratea e Lauria, dove numerosi rivoltosi vennero impaccati e fucilati. Durante il regno di Gioacchino Murat, nel secondo periodo napoleonico, il brigantaggio antifrancese rimase sempre attivo e tra le bande più temute del periodo vi era quella di Domenico Rizzo noto come “Taccone” che arrivò a proclamarsi “Re di Calabria e Basilicata”. In seguito alla seconda restaurazione borbonica il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti conferendo speciali poteri ai vertici dell’esercito tra cui il generale inglese R. Church. Nei territori del Sud continentale venivano istituite quattro corti marziali, Basilicata e Puglia meridionale furono affidate al maresciallo Roth. In tutti i comuni borbonici venivano pubblicate delle liste di banditi, dette “Liste di fuor bando”, contenenti i nomi dei ricercati per brigantaggio, che potevano essere uccisi da chiunque, ricevendo un premio in denaro.
Nel periodo immediatamente postunitario il brigantaggio nell’ex regno napoletano assunse proporzioni eccezionali, tanto che quello degli anni 1860-1865 è conosciuto come il “grande brigantaggio”. L’ostilità al nuovo regime, motivata da ragioni sia politiche sia religiose, e la delusione per il mancato concretizzarsi delle speranze che avevano accompagnato la rivoluzione unitaria finirono per fondersi e costituirono uno degli elementi di aggregazione delle bande. Il malcontento era generato da un improvviso peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della provincia meridionale che si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime fiscale per loro insostenibile con la privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri. Nel Mezzogiorno la gran massa del clero, rimasto senza proprietà, non ha difficoltà a schierarsi a fianco di chi, per motivi diversi ma convergenti, combatteva, con rudimentali mezzi militari, l’alterigia dei nuovi padroni. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. A ciò si aggiunse l’istituzione del servizio militare obbligatorio di massa che precedentemente col governo borbonico era obbligatorio, ma soggetto a sorteggio per il suo svolgersi, ed era evitabile col riscatto. Infine, la formazione del Regno d’Italia era sentita da gran parte della popolazione con forti sentimenti religiosi come una minaccia alla propria fede cattolica e alle proprie tradizioni. Dal vicino Stato pontificio, in cui si erano rifugiati i reali borbonici, arrivarono aiuti e costanti incitamenti (fino al 1867) alla lotta armata senza quartiere contro uno Stato che aveva espropriato i beni dei conventi e minacciava la stessa sopravvivenza del potere temporale del Papa. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri, ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni che promisero la quotazione delle terre demaniali. Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottarono anche ex garibaldini, ex soldati borbonici, malviventi e latitanti di vecchia data e numerose donne, audaci e spietate come gli uomini. La scintilla della reazione e del brigantaggio si accese nelle provincie di Basilicata, tra le più povere e mal collegate del Meridione, ma che avevano i più compatti e numerosi nuclei rivoluzionari. I briganti, quindi, non furono “criminali comuni”, ma un esercito di ribelli che, all’infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Nelle campagne questi potevano contare sulla simpatia di pastori e braccianti, e sulla connivenza di quasi tutti i rimanenti per il terrore esercitato. Fittissima poi la reste di manutengoli e proprietari costretti a tollerare per non avere danni maggiori. Nel 1861 si ebbero 80 paesi invasi e saccheggiati. Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni più ampie, durò oltre quattro anni: la Guardia Nazionale italiana fu massicciamente impegnata nella repressione, ma resasi responsabile di diversi soprusi e violenze sulla popolazione. Due tra i più famosi comandanti militari della repressione furono Enrico Cialdini, modenese, ed Emilio Pallavicini, genovese. Le più famose bande di briganti erano quelle della Basilicata e delle province vicine, capitanate da Carmine Crocco, Giuseppe Caruso e Giuseppe Nicola Summa.
Carmine Crocco alias Donatelli fu il capo leggendario del brigantaggio lucano postunitario conosciuto come “Generale dei briganti”, “Napoleone dei briganti” oppure “Generalissimo”. Nacque a Rionero in Vulture, il 5 giugno del 1830 da Francesco Crocco, pastore presso una nobile famiglia venosina e da Maria Gerarda Santomauro, massaia.
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Atto di nascita di Carmine Crocco. (ASPZ, Stato Civile).
Ebbe un’adolescenza difficile e ci fu un episodio che segnò tutta la sua vita. Ancora bambino, nel 1836, la madre subì un calcio al ventre che la costrinse ad abortire. In seguito cadde in depressione e, divenuta pazza, fu rinchiusa in manicomio dove morì. L’aggressore era un signorotto locale che, ingiustamente, accusò anche il marito (Francesco Crocco) di tentato omicidio provocandone l’arresto. Carmine Crocco dovette assumersi il compito di mantenere la famiglia e andò a lavorare come pastore in Puglia e poi come contadino presso una masseria di Rionero.
Nel 1848 si ritrovò arruolato nell’esercito di Ferdinando II, con il grado di caporale. L’esperienza militare durò circa quattro anni e acquisì notevoli capacità belliche. Nel 1852, disertò in seguito all’uccisione di un commilitone. Iniziò ad avere i primi contatti con altri fuorilegge, costituendo una banda armata che visse di rapine e furti.

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Fascicolo relativo al procedimento penale contro Carmine Crocco.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 428, fasc. 13: Calitri, 1852. Procedimento penale contro Carmine Crocco, imputato di associazione di malfattori, ribellione in numero maggiore di dieci, attacchi e resistenza con violenza contro la forza pubblica con uccisione di sei individui, il dì 7 aprile 1852, in agro di Calitri).
Fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre del 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere, ma il 13 dicembre del 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole.
Nella speranza di un’amnistia per i suoi reati, aderì ai moti liberali del 1860 e si unì all’esercito garibaldino seguendo Garibaldi fino al suo ingresso a Napoli. Non ottenendo lo sconto della pena, come promesso, Cocco tentò la fuga ma venne sospeso a Cerignola e nuovamente incarcerato.

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Fascicolo del procedimento penale contro Carmine Crocco.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 198, fasc. 12: Venosa, 1860. Attacco e resistenza contro la forza pubblica, mancati omicidi e furto commessi da comitiva armata. Imputati: Carmine Crocco, Vito Bochicchio, Vincenzo di Maio o Dumati ed altro autore ignoto).
Intanto alcuni membri dei comitati filo borbonici, intenzionati a ripristinare il vecchio regime, sfruttando la rabbia dei ceti popolari afflitti dalla miseria e dal malcontento perché dal cambiamento politico non ottenne alcun beneficio. Venne fatto evadere Crocco dal carcere che decide di passare alla causa di Francesco II.

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Fascicolo dell’evasione di Carmine Crocco dalle prigioni di Cerignola.
(ASPZ, ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 230, fasc. 9: Cerignola, 1861. Incartamento relativo all’evasione di Carmine Crocco, avvenuta dalle prigioni di Cerignola (Provincia di Licera) la notte fra il 3 ed il 4 febbraio 1861).
Crocco assunse il comando di circa duemila uomini, per la maggior parte persone nullatenenti, oltre che da ex militari del regno borbonico e banditi comuni, tra cui spiccavano temuti luogotenenti come Nicola Giuseppe Summa detto “Ninco Nanco”, Giuseppe Caruso, Teodoro Gioseffi detto “Caporal Teodoro”, Schiavone Giuseppe, Agostino e Vito Sacchitiello, Pasquale Cavalcante, Michele De Biase e Giovanni “Coppa” Fortunato. Insieme sconvolsero e occuparono diverse zone del meridione, adottando la tattica della guerriglia.
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Fascicolo del procedimento penale contro Carmine Crocco e Caruso Giuseppe.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 230, fasc. 5: Lavello e Melfi, 1861. Procedimento contro Carmine Crocco e Caruso Giuseppe, imutati di associazione di malfattori, grassazione, omicidi, incendi ed altri crimini). Fascicolo relativo al procedimento penale contro Carmine Crocco e i suoi seguaci.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 230, fasc. 6: Lavello, 1861. Attentato diretto a cambiare e distruggere la forma del Governo con saccheggi e rapine il 14 ed il 15 aprile 1861 nel Comune di Lavello, a carico di Carmine Crocco Donatelli di Rionero e i suoi seguaci).
La banda costituì un serio pericolo per il giovane stato unitario. Dichiarando decaduta l’autorità sabauda, Crocco istituiva nei paesi conquistati una giunta provvisoria e ordinava che fossero esposti nuovamente gli stemmi e i fregi di Francesco II. Nella maggior parte dei casi egli e le sue bande venivano accolti positivamente e supportati dal ceto popolare. Nell’aprile del 1861 con la sua banda, a cavallo, conseguì importanti successi occupando la zona del Vulture (Venosa, Melfi) e conquistando Lavello, Lagopesole, Grassano, Guardia Perticara, Salandra, Craco, Aliano, Balvano, Ricigliano e Castelgrande e il 10 novembre ottenne una vittoria su un gruppo di bersaglieri e Guardie Nazionali durante la battaglia di Acinello. Naturalmente non propone, nè è in grado di farlo, un programma di riforma agraria che colpisca i rapporti di proprietà secolari nelle campagne del Sud. La sua azione è brigantesca, si limita a saccheggiare e rapinare per distribuire qualcosa, ma lasciando intatto il sistema di vita e di sfruttamento dei contadini. Fu protagonista insieme al generale carlista Josè Borjès, inviato dai circoli borbonici per porre su basi organizzative e più efficienti le risorse militari del brigantaggio, per una poderosa offensiva in Basilicata, invano protesa, nell’autunno del 1861, alla conquista di Potenza.

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Fascicolo relativo al procedimento penale contro Carmine Crocco Josè Borjès, Giuseppe Nicola Summa (Ninco Nanco) e diversi individui che appogghiarono la loro rivolta.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 250, fasc. 2: Pietragalla, 1861. Attentato diretto a cambiare e distruggere la forma del Governo, con incendio di case abitate, saccheggio ed omicidio nelle persone di Teudosio, Angiola e Maria Saveria Pafundi, Gaetano Forenza, Domenico Carissimo, Canio Cancellara, Michele Muscio e Pasquale Pietrapertosa di Pietragalla, avvenuto il 16 e il 17 novembre in detto Comune, a carico di: Giuseppe Borjès, spagnolo di Catalogna, Carmine Crocco alias Donatelli di Rionero, Giuseppe Nicola Summa alias Ninco Nanco di Avigliano, Giuseppantonio Carone, fu Francesco, Michele Pafundi di Carmine, Carmine Pafundi fu Teodosio di Pietragalla e molti altri di detto Comune).
Crocco, intanto, diffidava di uno straniero inviato nella sua terra a sottrargli la guida militare dei suoi uomini e non volle cedergli il comando delle operazioni e il loro rapporti si deteriorarono. Abbandonato da Crocco, Borjes cercò di raggiungere Roma per informare Francesco II della situazione, desiderando organizzare un esercito di volontari per ripetere l’operazione. Lo spagnolo venne catturato da un reparto di bersaglieri vicino al confino pontificio e fucilato l’8 dicembre 1861 a Tagliacozzo assieme ai suoi pochi uomini rimastigli.
Terminata la collaborazione con Borjes, ritornò ad azioni di mero banditismo e si trovò a collaborare in diverse occasioni con altri capobriganti come Angelantonio Masini e sergente Romano, non essendoci più sostegno politico e militare da parte di Francesco II. Parallelamente al graduale venir meno della possibilità di una restaurazione e influenza borbonica, a partire dal 1863, i briganti distinguevano sempre meno i propri obiettivi e colpivano anche la popolazione povera.
Nel frattempo, il generale Fontana, i capitani Borgognini e Corona organizzarono negoziati con i briganti, perché con l’entrata in vigore della legge Pica c’era la possibilità di avere degli sconti di pena. Crocco, Caruso e Ninco Nanco, a seguito di diverse sconfitte durante le quali furono fucilati molti briganti, si presentarono di loro spontanea volontà e Crocco assicurò di condurre i suoi 250 uomini, chiedendo per essi un salvacondotto. L’accordo saltò essendo Crocco sfiduciato in seguito alle tante promesse che gli erano state fatte nel corso della sua vita. Intanto Caruso, il suo migliore alleato, entrò in attrito con lui, si allontanò dalla banda e si arrese al generale Fontana il 14 settembre 1863 a Rionero, svelando alle autorità i piani e i nascondigli della sua organizzazione. I briganti furono catturati e freddati sul posto e Pallavicini fece arrestare e in molti casi uccidere i parenti dei briganti e anche tutti i sospettati di manutengolismo. Nell’estate del 1864 della banda di Crocco non restava più niente. La repressione aveva alle spalle anche un movimento di opinione pubblica piemontese particolarmente inferocito nei confronti del movimento meridionale, circolavano infatti opuscoli e giornali satirici che invitavano a reprimere i briganti del sud con la violenza. Con il rinnegamento di Caruso, Crocco fu costretto a tenersi nascosto e con alcuni suoi uomini giunse nello Stato Pontificio il 24 agosto 1864 per incontrare a Roma Papa Pio IX, cercando da lui asilo. Il brigante fu però catturato il giorno seguente dalla gendarmeria del papa a Viroli e venne incarcerato a Roma. Il 25 aprile 1867 venne destinato a Marsiglia per essere esiliato ad Algeri. Dopo un breve periodo di detenzione a Parigi fu rispedito nello Stato Pontificio a Paliano e, divenuto prigioniero dello Stato italiano con la presa di Roma (1870) venne portato ad Avellino e poi a Potenza, dove fu processato presso la Gran Corte Criminale.
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Volume relativo alla causa contro Carmine Crocco presso la Gran Corte Criminale.

(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 429, fasc. 10: Potenza, 1872. Volume per la causa a carico di Carmine Crocco, contenente decreti di citazione ai testimoni, documenti per la mancanza di molti di essi e certificati di penalità a carico di taluni).
Dopo tre mesi di dibattimento, la corte d’Assise lo condannò a morte l’11 settembre 1872. La pena, con decreto reale del 13 settembre 1874, fu commutata da un decreto da parte di Emanuele II ai lavori forzati e Crocco venne assegnato al bagno penale di Santo Stefano e poi al carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, dove si spense il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni, sopravvivendo a gran parte dei briganti del suo tempo.
– Giuseppe Nicola Summa conosciuto come Ninco Nanco, nacque ad Avigliano nel 1833. Cresciuto in una famiglia violenta, imparò già da adolescente l’arte della guerriglia. Fu più volte malmenato e dopo aver ucciso uno dei suoi aggressori fu condannato a dieci anni di carcere, dal quale evase nel 1860. Cercò di arruolarsi nell’esercito di Garibaldi, ma fu rifiutato; presentò domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale ma l’esito fu lo stesso. La sua vita cambiò quando il 7 gennaio 1861 incontrò la banda di Carmine Crocco e si unì ad essa divenendo il “più valido luogotenete di Crocco” e partecipando alle sue scorrerie. Nel febbraio del 1862 ottenne un territorio su cui aveva un’illimitata libertà d’azione con la sua banda di quarantotto uomini. L’8 febbraio 1864 la banda fu decimata verso Avigliano e il 13 marzo, presso Lagopesole, Ninco Nanco e i suoi compagni furono catturati dalla Guardia Nazionale capitanata da Benedetto Corbo, vecchio protettore di Ninco Nanco. Appenna catturato, Ninco Nanco fu subito freddato dal caporale della Guardia Nazionale, Nicola Coviello, ufficialmente per vendicarsi della morte del cognato, ma molto probabilmente fatto eliminare dallo stesso Corbo per evitare che il brigante potesse svelare i suoi protettori. Il giorno successivo il suo cadavere veniva trasporato a Potenza, esposto al pubblico lubidrio per qualche giorno e i compagni della sua banda confluirono nella banda Ingiongiolo di Oppido Lucano.

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Atto di morte di Nicola Giuseppe Summa alias Ninco Nanco.
(ASPZ, Stato Civile).
Dopo il 1863, l’ondata brigantesca continuò, con periodici soprassalti, privo di qualunque carattere legittimistico e cominciò a rivolgersi anche contro lo Stato Pontificio. Delle vecchie bande rimasero pochi e sparsi briganti spauriti e senza capi. Nel 1865 si ridussero a pochi casi di delinquenza che furono debellati con i mezzi ordinari. Si ricordano la banda Cappuccino (capitanata da Paolovano Giuseppe e Giovanni D’Acquaro), Banda capitanata da Paolo ed Angelo Serravalle, Banda di Egidio Florio, Banda Cianciarulo, Banda capitanata da Giuseppe Negro, Banda Marino, Banda Malonno, Banda Schiavarelli (capitanata da Vito Iannella), Banda Ingiongiolo (capitanata da Gerardo De Felice), Banda di Francolino Pasquale, Banda Egidione (Egidio Pugliese), Banda capitanata da Antonio Cotugno, Banda di Giuseppe Miglionico e Banda Masini.

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Fascicolo relativo al procedimento penale contro il brigante Angelantonio Masini e la sua banda.
(ASPZ, Atti e Processi di valore storico, b. 340, fasc. 6: Brienza, 1863. Procedimento contro Masini Angelantonio fu Nicola, di anni 27, di Marsicovetere, brigante, e Curto Francesco, fu Giovannantonio, di anni 21, contadino di Sasso di Castalda, imputati di omicidio volontario in persona di Cerullo Giuseppe, commesso in associazione di malfattori, il dì 12 ottobre 1863, in tenuta di Brienza).
Nel 1869 furono catturati i guerriglieri delle ultime grandi bande con cavalleria e a gennaio 1870 il governo italiano soppresse le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio che fu debellato con sacrificio di migliaia di uomini da ambo le parti.


http://archiviodistatopotenza.beniculturali.it/aspz/page/1/301/1/2017/Processi_contro_il_brigantaggio