Quando a morire per mare erano i nostri emigranti

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Quando a morire per mare erano i nostri emigranti

Molti annegano, e per questa povera gente, il sogno di vivere una vita migliore resta una triste chimera

Le grandi masse migratorie dall’Africa verso l’Europa e poi verso le Americhe hanno per secoli caratterizzato la storia dell’Umanità. E’ inutile nasconderlo, siamo tutti emigranti. E’ impossibile bloccare con la precaria politica dell’economia o con la stupida xenofobia, milioni di disperati che dall’Africa, per fuggire alle guerre, alla miseria e alla disperazione attraversano il mare in barconi fatiscenti, rischiando la vita con la speranza di un domani migliore in Europa. Molti annegano, e per questa povera gente, il sogno di vivere una vita migliore resta una triste chimera. Vorrei ricordare a quelli che hanno la memoria corta, che tra i milioni di emigranti italiani, che nell’800 e poi nel ‘900 si sono trasferiti in Nord America, Sud America, Australia e Canada, nella ricerca di un lavoro, moltissimi erano settentrionali.

Tra i naufragi accaduti agli italiani che si trasferivano in America, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, vanno ricordati quelli drammatici relativi all’affondamento delle navi passeggeri, bastimenti e piroscafi che trasportavano i nostri connazionali oltreoceano, che costarono la vita a migliaia di emigranti italiani. Nel 1880 affondò il piroscafo “Ortigia”; nel 1891 naufragò “l’Utopia”; nel 1898 il “Bourgogne”; nel 1906 il “Sirio”; nel 1927 il “Principessa Mafalda”.

La responsabilità delle tragedie in mare delle navi che trasportavano gli emigranti italiani furono causate in alcuni casi dalla trascuratezza degli armatori e dalla mancanza di controllo da parte delle autorità competenti addette a visionare queste navi passeggere e da trasporto commerciale.
Il 24 agosto 1880 il piroscafo italiano Ortigia affondò al largo della costa argentina dopo aver speronato accidentalmente una nave mercantile, provocando la morte di 149 emigranti.

Nel 1884 la nave italiana Brazzo che aveva imbarcato 1333 poveri emigranti, stipati a bordo come animali da macello, fu causa durante la traversata nell’oceano, dello scoppio del colera che provocò 20 morti. Per questo motivo, la nave fu respinta a colpi di cannonate prima di entrare nel porto di Montevideo in Uruguay. Nel 1888 sulla nave italiana Carlo Raggio durante la lunga traversata con 1851 nostri emigranti a bordo, 18 persone morirono di fame. Sulla stessa nave nel 1894 morirono per asfissia 27 emigranti e si ammalarono più di 300.

Sulla nave Parà nel 1889 si contarono 34 morti di morbillo. La sera del 17 marzo 1891, con il mare in burrasca e ridotta visibilità, davanti al porto di Gibilterra il bastimento inglese Utopia con a bordo 813 emigranti quasi tutti italiani, sbagliò manovra e andò a impattare con la poppa sul rostro della corazzata britannica Anson, che era alla fonda. L’incidente provocò una grossa falla all’Utopia che in pochi minuti colò a picco portando con se in fondo al mare, 576 poveri emigranti. La nave era partita da Trieste e aveva fatto tappa a Napoli, dove aveva imbarcato gli italiani che dovevano espatriare. La maggior parte delle vittime proveniva dalla Campania, Abruzzo e Calabria.

Nel 1893 sul Remo morirono per colera e difterite 96 emigranti italiani. Nel 1894 sull’Andrea Doria su 1317 emigranti, 159 perirono a bordo per malattie varie. Nello stesso anno, sul Vincenzo Florio si contarono 20 morti per malattie varie. Il 4 luglio 1898 un piroscafo francese, il Bourgogne, dove erano imbarcati numerosissimi emigranti italiani, dopo una collisione, al largo della Nuova Scozia, con il veliero inglese Cromartyshire, affondò provocando la morte di 549 di nostri connazionali.

Il giornale dell’epoca di Parigi “Petit Journal” pubblicò in prima pagina le orribili scene dei corpi delle persone annegate e poi spinte dalle onde sulla spiaggia. Sul piroscafo Città di Torino nel novembre 1905, su 600 emigranti imbarcati 45 morirono per malattie varie.

Il 4 agosto 1906 sulla spiaggia di Cartagena sulla costa orientale della Spagna, nella sciagura del vapore Sirio fu incredibilmente trovato vivo un lattante in fasce. Gli abitanti di quella città, gridarono al miracolo, perché solo il buon Dio avrebbe potuto salvare quella piccola creatura. I corpi annegati di molti migranti italiani, restituiti dalle onde, furono allineati sulla spiaggia. I morti secondo il Lloyd, che voleva difendere gli armatori furono 292, ma una valutazione più attenta dei naufraghi, stimava da quattrocento a cinquecento persone annegate.

Il vapore affondato, che era partito da Genova due giorni prima, ed era diretto a Gibilterra, da dove doveva intraprendere il viaggio nell’Atlantico per il Brasile, non era provvisto di doppie eliche né di paratie stagne. Tra i passeggeri sopravvissuti del Sirio, un certo Felice Serafini. Questi prima di partire era passato dal fotografo Recalchi di Arzignano in provincia di Vicenza, e gli aveva lasciato una foto a ricordo con tutta la sua numerosa famiglia. La mattina dopo del naufragio, Serafini, mentre girava angosciato tra i sopravvissuti trovò due dei suoi figlioli, mentre la moglie che era anche incinta, e gli altri sei figli erano annegati, inghiottiti dal mare.

Il 25 ottobre 1927, la nave ammiraglia della flotta commerciale italiana Principessa Mafalda nel suo ultimo viaggio in rotta per l‘Argentina (al suo ritorno doveva essere smantellata), al largo delle coste del Brasile, perse l’asse dell’elica sinistra, che provocò uno squarcio nello scafo di poppa e dopo cinque ore l’affondamento della nave. Nel disastro annegarono 314 emigranti italiani, tra questi, liguri, piemontesi e veneti, molti dei quali furono divorati dagli squali che infestavano quelle acque. Un gran numero di naufraghi furono salvati dalle scialuppe di salvataggio della stessa nave e dai soccorsi effettuati da varie navi, che accorsero in aiuto dopo il primo S.O.S. lanciato dalla Mafalda.

La nave che aveva dei seri problemi di tenuta in mare, durante il viaggio, si fermò per riparazioni ai motori, almeno otto volte. L’esperto comandante del Mafalda, Simone Gulì, siciliano, nonostante le avvisaglie, proseguì il viaggio e si avventurò nell’oceano.

La signora Flora Forciniti, che con la madre e due fratelli doveva
raggiungere il padre e i fratelli a Buenos Aires, dopo più di cinquant’anni, riferì al “Clarin” che la nave Principessa Mafalda navigava paurosamente inclinata, provocando problemi di equilibrio ai passeggeri e agli oggetti di bordo. Mussolini cercò di minimizzare la tragedia, esaltando l’eroismo del comandante della nave, ma per la stampa argentina e brasiliana, gli emigranti italiani che non videro realizzato il loro sogno di raggiungere Buenos Aires per lavoro furono 657.

Va altresì ricordato, che sul Mafalda c’era un forziere di monete d’oro del valore di 250.000 lire dell’epoca, quale dono del governo italiano a quello argentino per ringraziarlo dell’accoglienza dei numerosi emigranti italiani. Il carico, tuttora, giace a duemila metri di profondità nella stiva del relitto della nave. Nel 1940 il piroscafo inglese Arandola Star fu silurato dai tedeschi e affondato vicino le coste del Brasile. Morirono nella tragedia 446 emigranti italiani.

Va evidenziato che i nostri emigranti (per la maggior parte meridionali)
che si sono trasferiti oltreoceano dalla fine dell’800 fino agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, erano semplici braccianti, artigiani, contadini e manuali, per lo più analfabeti. Questi che partivano, con valigie di cartone legate con spago, e con pochi indumenti, affrontavano un viaggio rischioso e pericoloso per l’epoca, verso il sogno americano, nella speranza di un’esistenza migliore per se stessi e le proprie famiglie.
Ai nostri figli faremmo bene a far conoscere la terribile realtà di quella che è stata l’emigrazione italiana. In particolare quando i nostri connazionali venivano schiavizzati e utilizzati come bassa forza nella manodopera nelle industrie americane, nelle piantagioni del brasile e dell’argentina, spesso truffati e mal pagati da sfruttatori di turno.
Far sapere ai nostri figli, il terribile destino di molte italiane cedute a bordelli e i bambini venduti a pedofili di turno.

Basta vedere alcune foto d’epoca degli emigranti e, ci si rende conto come erano trattati i nostri connazionali sulle navi, stipati come animali da macello, dove il fetore delle feci, del vomito e le esalazioni rendevano l’aria nelle stive irrespirabile.

In ogni traversata si contavano a bordo delle navi date le precarie condizioni di igiene numerosi morti per colera, asfissia, fame, tubercolosi, morbillo e difterite.

L’insegnamento che ci viene dall’esperienza dei nostri connazionali, dovrebbe farci comprendere meglio le ragioni che ogni giorno spingono questi disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste, rischiando la vita su barconi fatiscenti e gommoni, nella speranza di un domani migliore. Noi italiani fuggivamo dalla povertà, questi extracomunitari fuggono dai loro paesi per sottrarsi, oltre che dalla miseria, da guerre e oppressioni. Italiani, brava gente !. Era il titolo di un bellissimo film del 1965 diretto dal regista Giuseppe De Santis. Si, credo che lo meritano questo appellativo, in particolare quelle popolazioni meridionali, che da anni sono impegnate insieme alle forze navali italiane a salvare ed assistere i poveri extracomunitari che arrivano ogni giorno dalle coste Libia, sfruttati, malmenati e schiavizzati da scafisti delinquenti e senza scrupoli.

(A cura di Franco Rinaldi, cultore di storia e tradizioni popolari di Manfredonia