I borbonici a Fenestrelle

FENESTRELLEtuttoLibri Storie SABATO 7 AGOSTO 2004 LA STAMPA LUOGHI COMUNI Giorgio Boatti (gboatti@venus.it)

I borbonici a Fenestrelle
«I vinti del Risorgimento» raccontati da Gigi Di Fiore La «Civiltà Cattolica», ostile all’Unificazione, ne riassunse con sdegno la sorte: «Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stenti tra le ghiacciaie…»

 

Nella fortezza piemontese deportati fra 1860 e 1861 i soldati fatti prigionieri dalle armate sarde.

 

 
IL FORTE

SOTTO gli spalti del forte militare di Fenestrelle, a milleduecento metri di altezza, praticamente all’inizio della val Chisone, di questi tempi e finché non cala l’inverno, si provvede a intrattenere gradevolmente i turisti che arrivano a visitare l’imponente fortezza innalzata nel 1727 dai Savoia per fermare i francesi. In questo agosto, per esempio, sulla piazza d’armi di una delle costruzioni più imponenti, il Forte San Carlo, è possibile ascoltare un concerto degli Inti Illimani, o assistere alla messa in scena di testi pieni di fantasia e di libertà (www.assembleateatro.com) Però la libertà – dentro queste costruzioni immense innalzate in oltre cento anni di inenarrabili fatiche – un tempo non era affatto di casa. Tre forti, sette ridotte, ventotto risalti, oltre un milione di metri quadrati, ponti levatoi e scale che scendono e salgono sui contrafforti con migliaia di gradini: Edmondo De Amicis percepì Fenestrelle per quello che era, vale a dire: «Una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli o per contenere col terrore milioni di ribelli». Invasioni non ne fermò mai (da questi spalti non si è mai sparato un colpo di cannone) ma, in compenso, di ribelli e disgraziati ne ha domati parecchi. Magari non a milioni, come dice De Amicis, ma certamente a migliaia. Ad esempio non è mai stato esattamente conosciuto il numero di quei disgraziati soldati borbonici che, caduti prigionieri delle armate sarde calate in Meridione, finirono deportati al Nord tra la fine del 1860 e i primi mesi del 1861. Come spiega Gigi Di Fiore, nel suo libro I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, «il primo consistente nucleo di semplici soldati napoletani prigionieri, inviati nei campi di detenzione in Settentrione, proviene da Capua. Si tratta di 10.500 uomini, che si aggiungono ai 2.177 presi sul Volturno, e ai 700, più 50 ufficiali, catturati da Cialdini al Macerone». Altri poi si sommano, soprattutto perché lo stato maggiore piemontese, con l’accendersi del brigantaggio, mira a togliere di torno gli ex-soldati avversari: così da impedire che questi – per convinzione o per disperazione confluiscano nelle formazioni irregolari. In quel 1861 in cui viene proclamato il nuovo Regno d’Italia lo status dei militari sconfitti è quanto mai aleatorio. E non solo perché, all’epoca, si è ancora ben lontani dalla convenzione, concernente i diritti dei prigionieri di guerra, sottoscritta a Ginevra nel 1929. Pesa, soprattutto, il paradosso che li vede cadere prigionieri delle armate di quel Vittorio Emanuele II che, dopo aver invaso i loro territori senza dichiarare alcuna guerra a Francesco II di Borbone, sovrano delle Due Sicilie ora si proclama loro re, come legittimo monarca di tutto il Regno d’Italia. Non solo: questo nuovo re e i suoi generali a parole dicono di essere venuti a liberarli dal dispotismo borbonico ma, nei fatti, con brutalità estrema, provvedono a catapultarli in regioni sconosciute, lontani dalle loro città, dalle loro case. Gli «sbandati», vale a dire coloro che recalcitranti ad adempiere il servizio militare nel nuovo esercito unificato si erano dati alla macchia e sono stati catturati, vengono deportati a Milano, dentro il Castello Sforzesco. O racchiusi nel duro campo militare di San Maurizio Canavese. Gli altri sono imprigionati nelle fortezze militari di Alessandria, di Bologna, di Genova, di Bergamo. Ma il luogo che tutti i prigionieri temono di più è la fortezza di Fenestrelle e per le ragioni che la La Civiltà Cattolica, voce fortemente ostile all’unificazione, riassume con sdegno: «Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano… Quei meschinelli coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicile, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stenti tra le ghiacciaie…». Ed è proprio nelle galere di Fenestrelle che i soldati napoletani il 22 agosto 1861, davanti alla terrorizzante prospettiva di dover trascorrere tra quelle mura la gelida stagione incombente, organizzano una vasta ribellione che viene scoperta solo pochissime ore prima del suo deflagrare. Ne seguono durissime repressioni e reiterati tentativi di convincere i riottosi a farsi incorporare nel nuovo esercito anche se ì risultati paiono assai scarsi. In effetti, nonostante la proclamazione del Regno che unisce tutti gli italiani sotto lo stesso re, assai poco sembra cambiato rispetto a quanto, diversi mesi prima, nel novembre del 1860, il generale La Marmora, reduce da un’ispezione tra i borbonici imprigionati nel Castello Sforzesco di Milano, scrive a Cavour: «I prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Di 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio..:Ieri:a taluni che con arroganza pretendevano il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco II, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati e ora per la Patria comune, e per il Re eletto, si rifiutano di servire, che erano un branco di carogne, che avremmo trovato il modo di metterli alla ragione». E Fenestrelle, come si è visto, è uno di questi modi. Cavour – che aveva ben altra intelligenza delle cose rispetto al generale La Marmora – ricevuta questa relazione preme sul luogotenente del re in Meridione, Farini, affinché si cambi rotta: «Il trattare tanta parte del popolo come prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni di Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’Esercito nazionale è impossibile e inopportuno». Non poteva pensarla diversamente l’uomo che, di li a pochi mesi, prima di morire, dirà che l’Italia era fatta. Ma gli italiani, come popolo unito, e genti capaci di intendersi le une con le altre, erano ancora da fare.

DIAVOLI IN PARADISO Si è sempre a Oriente, o a Meridione, di qualcuno; non solo geograficamente ma anche nella dislocazione di gerarchie culturali più o meno esplicite, sempre frutto di ragioni radicate nel permanere del vantaggio di qualcuno e di svantaggio di qualche altro. L’talia degli staterelli mosaico era il Sud dell’Europa, il lato ombroso e pittoresco, arcaico e primitivo che incuriosiva e attraeva – per contrasto – Il mondo dinamico dei Paesi del Nord in via di industrializzazione. E’ col farsi dell’unità d’Italia che – agli occhi dell’Europa, e degli stessi italiani – paradossalmente l’immagine del Paese di spacca in due. Il Settentrione si fabbrica il suo Sud, un Mezzogiorno rozzamente rappresentato e sempre più severamente giudicato. Nelson Moe ricostruisce, con raffinati strumenti di analisi culturale e storica, la fabbrica dell’immagine del Sud nell’importante saggio, denso di stimoli rilevantissimi. Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno ( Edizioni l’ancora del mediterraneo, Napoli, pp. 376,6 25). Un libro rilevante per chi vuole disancorarsi da stantii luoghi comuni sulla «questione meridionale».

TERRE PROMESSE Elena Loewenthal Ma quanta fretta Dio mise a Noè DIFFICILE immaginare quel vecchio barbuto che siamo abituati a trovare, nei panni di un fulgido neonato che appena aprì gb occhi inondò di luce tutta la casa. Eppure, Noè ebbe in dono quel raro privilegio d’effondere chiarore intorno a sé, come una luna vivace: presagio di un destino illustre che lo attendeva lungo il cammino della storia sacra. Un po’ meno difficile, soprattutto in questa stagione dì vacanze, d’evasione e paesaggi di spiaggia, immaginare come fosse il mondo in quei giorni, anzi di quell’anno in cui Dio sommerse d’acqua la terra, per colpa di una generazione perversa. Narra la tradizione ebraica che il diluvio fu l’incontro smanioso delle acque di sopra con quelle di sotto, ansiose di ricongiungersi, così come accadeva prima che la terra creata spezzasse la loro unione d’amore puro. Le acque maschie sopra il firmamento, le acque femmine sgor¬ ganti dalla terra. Il mondo divenne rapidamente il postumo di questo amplesso cosmico: una distesa d’acqua uniforme, interminabile. Dentro l’arca, animab e cose erano sballottati come lenticchie in un tegame. Specie diverse brigavano fra loro, minacciavano di mangiarsi a vicenda. Coppie consobdate non reggevano quell’intimità coatta. Fors’anche per questo, pare, Noè scese dall’arca, quando tutto era ormai finito, solo dopo che Dìo gli ebbe solennemente promesso di non mandare mai più un altro diluvio in terra. Uno, davvero, gli era bastato. Povero Noè, è uno fra gli eroi più commoventi, più fragili di tutta la Bibbia. Dapprima scontroso osservatore di un umano consorzio che non gli piace affatto, poi instancabile artigiano, e domatore paziente, e inesperto capitano vascello. E stanco vecchio cui basta un bicchiere di vino per calare nel pozzo di un sonno ubriaco, troppo profondo. Vita di Noè/Nòah Il salvagente traduzione e cura dì Erri De Luca Feltrinelli pp. 63, e 7 A Noè Erri De Luca dedica ancora un capitolo del suo cammino di traduzione biblica, precisamente Genesi 6,5 9,29. Auna certa qual enigmaticità della sua traduzione, che è quasi un traslitterare . più che un volgere, l’ebraico, fa da sfondo – anzi da soletta un ricco apparato di note esplicative. Questa sua lettura esige insomma una certa elasticità visiva, un perenne andar su e giù dalla pagina, per comprendere: l’impressione è che ad ogni suo cimento l’apparato si dilati, invadendo vieppiù la pagina a scapito della misura di testo. Quest’ultimo, emerge dal diluvio più scabro che mai, anche quando descrive minuziosamente la pianta dell’Arca, i suoi materiali e il lavoro di Noè con legno, catrame, misure. Ma è certo una pagina fra le più struggenti, di tutta questa antica storia: racconto di una fuga e di una fine, cui quest’uo¬ mo guarda con una malinconia che non può permettersi di indugiare. Ha tanta fretta di finire – e cominciare – perché è Dio che gli mette fretta. Sa di avere in mano il destino di un mondo forse un briciolo meno imperfetto di quello che sta per lasciarsi alle spalle,* però ancora del tutto ignoto. Noè ha tanto coraggio, oltre che immensa pazienza e rara manualità. Per chi voglia farsi un’idea più «contestualizzata» di questa storia, Piero Stefani ha pubblicato di recente per Bruno Mondadori (pp. 314, e 11,50) un utile e discorsivo manuale, dal titolo Le radici bibliche della cultura occidentale. Tornando invece al nostro Noè, il libriccino di Erri De Luca si chiude con l’inusitata voce della donna di lui, e con la sua domestica versione della storia. In fondo, davvero, c’era anche lei dentro quell’arca. elena. loewenthal@lastampa. it Legion d’Onore al piccione eroe involontario di Verdun LA lettura chiede impegno. È un rettangolinò di due centimetri per dieci vergato a lapis copiativo. La grafia concitata. «Stiamo ancora resistendo. Ma [..iLLEGGIBILElgli aiuti sono urgenti e indispensabili. Comunicate con noi col lampeggiatore Morse da Souville, che per ora non risponde alle nostre chiamate. Questo è il mio ultimo piccione». Con il bigliettino fermato alla zampetta u piccione prende il volo il 4 giugno 1916 dal forte di Vaux, un baluardo della difesa francese nei pressi di Verdun, n messaggio reca la firma del maggiore Sylvain-Eugène Raynal, un tenace soldato nato nel 1867 a Bordeaux. Già gravemente ferito in diverse battaglie, è costretto a reggersi con un bastone per camminare. La menomazione lo esonererebbe, ma lui ha insistito per ritornare al fronte. Il 24 maggio Raynal aveva raggiunto il nuovo comando. Ricorderà con angoscia la prima impressione che ebbe: i soldati erano ammassati «in tal numero che era estremamente difficile muoversi, e impiegai moltissimo tempo per raggiungere il mio posto di comando. Se vi fosse stato un attacco tutti gli occupanti sarebbero morti prima che avessero potuto difendersi». Il forte di Vaux, il più piccolo dell’intero sistema di Verdun, è una specie di rifugio superaffollato per reduci dai sanguinosi scontri dei dintorni. Oltre la guarnigione regolare, il forte è zeppo di portaferiti dispersi, di soldati sbandati senza più contatti con i loro reggimenti. Nel caos delle carneficine hanno trovato ricovero a Vaux. Quando i tedeschi sferrano l’attacco al forte, oltre ai 250 uomini di stanza, Raynal si trova a organizzare 6001 uomini delle più svariate provenienze, la maggior parte feriti. Ha inoltre a disposizione quattro piccioni viaggiatori. Raynal scruta col binocolo i tedeschi avanzare. Si sta preparando l’ennesima mi¬ schia dell’infernale e implacabile battaglia di Verdun, in corso ininterrottamente da tre mesi e mezzo. Verdun è il luogo funestamente simbolico della guerra tra francesi e tedeschi, è l’apologia del massacro. Per i.francesi vi si «gioca» rhonneur de la France. Un sovrumano impulso impone loro di mantenere le posizioni. I tedeschi vincolano la conquista della cittadella al destino della nazione. A Verdun si divinano esemplarmente foiba e stupidità. I turpi copulano con l’insensatezza degli eroi, mentre gli irriducibili orgogli nazionali producono collezioni di morti. I Galli e i Germani stanno scatenando l’oceano d’odio accumulato in secoli di rivalità. Più che un sinistro punto d’onore, è lo scontro simbolico per una supremazia millenaria. La guerra nutre se stessa con disperata barbarie, al di là della stessa volontà degli uomini: «finché l’ultimo tedesco e l’ultimo francese non fossero usciti esausti dalle trincee camminando sulle grucce per finirsi col coltello, coi denti o con le unghie». L’odio è la mistica dei combattenti che ascendono ad alimentare l’insensato olocausto. Quando l’onda dei corpi impazziti travolge il forte di Vaux l’epica della distruzione raggiunge livelli da guerre stellari. Si combatte su colline di caduti e la Morte è stanca di lavorare. Dei tanti restano in venticinque, ossessionati dal sangue, avvolti dalle fiamme. Raynal spera nelle truppe di soccórso. Gli resta un’estrema possibilità. L’ultimo piccione. Un pacifico pennuto, ignaro di tanta foiba umana. L’unico involontario eroe di Verdun. Semiasfissiato dai gas, dopo vari tentativi, prende il volo. Sorvola i campi combusti, il marezzare diitmorti. Reca il messag- j i gio e, come Fidippide a Maratona, all’arrivo cade fubninatOA no? GU fu conferita la Légion dhonneur, alla memoria. Impagliato, si può vedere ancora oggi m una vetrina a Les Invalides, a Parigi. Alistar Home Il prezzo della gloria Rizzoli, 2003 CLASSICI IN 0 RETE Silvia Ronchey LA GUERRA CIVILE Giulio Cesare come «maestro» di Bush? «E se George W. Bush si mettesse a scrivere la storia-verità della sua guerra santa contro Saddam Hussein e Bin Laden, cosi come Cesare, più di duemila anni prima, aveva fatto “commentando” la guerra a Pompeo? Bush, come Cesare, dimostrerebbe che fu costretto ad armarsi per difendere le libertà repubblicane», scrive. Roberto Andreotti nella brillante prefazione alla Guerra civile di Gaio Giulio Cesare (Einaudi, trad. di Antonio La Penna, testo latino a fronte, introduzione storica di Adriano Pennacini, pp. 487,6 13). La storiografia moderna su Cesare è dominata dai “pessimisti repubblicani” razionalmente avversi al mito del primo “dittatore democratico”, per usare la definizione di Luciano Canfora: gli illuministi critici, i liberali scettici, i marxisti indignati, da Ronald Syme a Bertold Brecht. Al lettore di oggi stabilire se è vero che, secondo la frase di Goethe, «siamo diventati troppo umani per non dover sentire ripugnanza ai trionfi di Cesare». IL LINK: Gaius lulius Caesai’s Commentari/de be/Zo civili. http:llwww.angelfire.comlwi2lrome49bcl LE SETTE MOGLI DI BARBABLÙ Anatole France risuscita Gilles de Rais «Barbablù aveva un po’ di baffi e la mosca, le guance sembravano blu ma, non ostante tutto, l’aspetto di quel buon signore non era alterato e non impauriva per questo». Ne Le sette mogli di Barbablù (Donzelli, trad. di Paola Verdecchia, pp. 152, C 18), l’implacable penna di Anatole France risuscita, per assolverlo, il protagonista di una delle fiabe più note e più nere della corte di Francia. L’ultima, beffarda ipòstasi del leggendario Gilles de Rais è un signorotto abbiente quanto sprovveduto, vittima di avventuriere coquettes quanto avide. L’ultima, infedele moglie gli sarà fatale: per impadronirsi della sua eredità, riuscirà a farlo uccidere a tradimento. Lo scettico Anatole France, in questo volterriano, irridente omaggio alla storia patria, riduce il mito gotico-romantico del’sanguinario – compagno d’armi di Giovanna d’Arco a prosaica, materialistica storia borghese. IL LINK: Anatole France. http://www.academie-francaise.fr/ /mmorte/s/base/academ/c/ens/f/c/ie.aspPparan^^Si QUESTIONI NATURALI Il tranquillo Seneca tra fulmini e terremoti Diceva Seneca: strepiti pure tutto fuori di me, purché non ci sia strepito dentro di me. Nessuno meglio di lui, nel mondo romano, seppe trasmettere la conoscenza dell’anima dell’uomo. Nelle Questioni naturali, opera della vecchiaia pubblicata nella BUR con testo latino a fronte, traduzione e introduzione di Rossana Mugellesi (pp. 592, e 14), Seneca volle raccogliere anche quella dell’anima del mondo. Il fuoco, i temporali, la grandine, il fulmine, l’acqua, la neve, i terremoti, il vento, le comete, le nubi sono non meno di noi parti di un tutto. Occorre ringraziare la natura se ci concede di vedere questo. E occorre abbattere gli orizzonti umani, annullare i confini che l’ignoranza degli uomini innalza, tra specie e specie come tra popolo e popolo, e «che suscitano – scrive Seneca – solo il riso». IL LINK: Ludo Anneo Seneca. http://www.latinovivo.com/schedeletteratura/Seneca.htm