1848 a Napoli

I fatti del maggio 1848 a Napoli

Intervento a cura di Ubaldo Sterlicchio.
La politica del Regno d’Italia, da quella militare a quella commerciale, da quell’agricola a quella scolastica, dal 1860-61 in poi, non ebbe che un solo obiettivo: menomare il Mezzogiorno e soprattutto Napoli. In materia di istruzione, i maggiori colpi li subì l’Università di Napoli. Nel 1870, Luigi Settembrini ne ricevette la carica di Rettore e, naturalmente, ad ogni nuova disposizione di regolamento o nuova istruzione, mirante come al solito a “colpire” l’Università partenopea sotto parvenza generale, i giovani si recavano da lui a lamentarsene. La sua risposta era costante: «Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di questo!». – «Professore, come c’entra quello lì?» – «Sì c’entra; se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente, e noi facemmo peggio».

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Ma Luigi Settembrini non fu l’unico ad sostenere che la più grande colpa, non solo di Ferdinando II, bensì di tutti i re Borbone, era stata quella di aver cristianamente perdonato i propri nemici, confidando altresì – quantunque molto ingenuamente! – nel ravvedimento e nella gratitudine da parte di costoro. Infatti, lo storico Giuseppe Buttà affermò che: «Il Reame di Napoli non cadde per armi garibaldine o piemontesi, ma per arti settarie aiutate dalla fredda vendetta del nefasto Napoleone III. I Borboni di Napoli caddero non per quello che ad essi s’incolpa, cioè il malgoverno e la tirannide; ma caddero perché non punirono i traditori, e non seppero premiare, e secondare gli sforzi degli uomini devoti e fedeli alla dinastia. I settarii vendettero Ferdinando IV di Borbone a Bonaparte, perdonati e carezzati nel 1815, prepararono la rivoluzione militare del 1820. I disertori e traditori riuniti a Monteforte dettarono la legge al Sovrano. Al 1821 invece di essere puniti per tutto quello che aveano fatto l’anno precedente, furono perdonati: e Ferdinando II al 1830 li chiamò all’esercito ed al potere. Parte di essi prepararono la rivoluzione del 1848, non riuscita, furono perdonati. Proseguirono a congiurare per preparare l’altra rivoluzione del 1860, che loro riuscì maravigliosamente, perché aiutati da governi esteri, e principalmente dal crimine coronato [vale a dire: i Savoia, n.d.r.]».
Ebbene, nel 1848, allorquando i sedicenti “liberali”, una sparuta minoranza di persone le quali, piuttosto che ottenere la Costituzione, intendevano solo rovesciare la monarchia ed instaurare la repubblica, Ferdinando II, che rappresentava l’obiettivo “numero uno” da colpire ed abbattere, rispose more solito, con equilibrio, saggezza e spirito cristiano.
Dal 29 gennaio 1848 in poi, il Re era stato costretto a fare concessioni dopo concessioni ed aveva dato ai liberali piena libertà di agire; quale uso ne era stato fatto? «Grazie ai loro infiniti sbagli, l’opinione pubblica era in gran parte mutata a suo vantaggio. Una parte sempre più numerosa della popolazione si augurava che egli restaurasse la Monarchia assoluta. Per essere un autocrate, con l’innato convincimento di operare in nome del diritto divino, Ferdinando aveva dato prova di lodevole moderazione di fronte al pericolo della guerra civile. Era assurdo pretendere, come pretendevano i suoi avversari, che il Re e la camarilla dei cortigiani conservatori avessero provocato l’insurrezione con il deliberato scopo di affogare la Costituzione nel sangue e richiamare le truppe dal nord».
Senz’altro Ferdinando II non andò esente da errori nei rapporti con questa esigua minoranza di liberali, ma anche costoro non furono da meno. «Il lunedì 15 maggio un gruppo di deputati, con a capo i mazziniani Giovanni La Cecilia e Pietro Mileto, chiese la modifica della Costituzione, l’abolizione della Camera dei Pari e si rifiutò di giurare fedeltà al Re. Tali richieste furono approvate, nonostante molti deputati avessero abbandonato l’aula, e nonostante i numerosi tentativi di mediazione fatti dal re Ferdinando, che chiedeva il rispetto della Costituzione solennemente giurata. Si sparse la voce, del tutto infondata, che le truppe regie di stanza in città, in attesa che arrivassero i rinforzi dalle province, stessero già marciando sul Parlamento, per cui i deputati decisero di scendere in strada e passare subito alla costruzione di barricate».
Sui tristi avvenimenti del 15 maggio 1848, sentiamo cosa ci dice Giuseppe Campolieti, nella biografia che egli scrisse di Ferdinando II: «…ma l’incaglio maggiore era la mala volontà degli eletti del popolo. Avevano ben altro in mente che trovare un accordo col re. I più scalmanati, in quella bolgia che doveva rappresentare il Parlamento, erano il Lanza e il La Cecilia. […] Nel tardo pomeriggio del 14 e sul far della notte la situazione si era molto aggravata; Ferdinando stava davvero sopra la graticola, o meglio assediato da due fuochi; perché se da un lato era allarmato dai tumulti della piazza e dall’edificazione delle barricate in quasi tutto il centro città (cosa che richiedeva intervento immediato), d’altro canto sperava ancora che la moderazione, la ragionevolezza inducessero i deputati più riflessivi – che erano la maggioranza – a desistere e a far desistere i più facinorosi da atti di violenza. […] Sta di fatto che il re spedì il Piccolelli [un colonnello borbonico, n.d.r.] a Monteoliveto [sede del cinquecentesco Palazzo Gravina, ove aveva avuto inizio la sessione parlamentare, subito arenatasi sulla c.d. «questione del giuramento del re», n.d.r.], concedendo che si rinunciasse pure al giuramento [di fedeltà al re da parte dei deputati, n.d.r.]: purché il Parlamento si decidesse ad aprire la sessione dei lavori e la Guardia nazionale provvedesse a demolire le barricate, chiara premessa alla guerra civile. Ma passavano le ore e dalla bolgia parlamentare del vaniloquio, dei bizantinismi, del tutti contro tutti, non arrivavano risposte o cenni d’intesa».
Persino il liberale Niccola Nisco esternò dure critiche sul comportamento di costoro: «Si passò allora dall’agitazione alle barricate. Terribile momento di cui ora scrivendo, dopo trentacinque anni, con tanto spavento mi ricordo da farmi tremare le vene e i polsi, e che dovrebbe essere ricordato da ogni principe che ami il suo popolo, onde valuti che di questo male è cagione di lasciare le redini dello Stato nelle mani di coloro che hanno a principale obiettivo del loro procedere il soddisfare i desideri dei rumoreggianti! Una schiera di perenni incontentabili, presi dal delirio di rivolta a ogni costo, provocava alla guerra civile, s’imponeva a una grande città, trascinando nell’ebbrezza alcune Guardie Nazionali, rovesciavano carrozze, strapazzavano le insegne di legno delle botteghe, slocavano i pavimenti delle strade, rompevano imposte e cancelli per costruire barricate».
«Quelle barricate» rievocò il generale Guglielmo Pepe «furono i primi preparativi per il funerale della libertà». Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti si resero quindi responsabili del precipitare degli eventi, tanto che nemmeno lo stesso Settembrini riuscì a frenarli. Lo storico inglese Harold Acton osserva che: «Vari e contraddittori sono i resoconti di quella memorabile giornata del 15 maggio 1848. Per la maggior parte gli storici liberali rimproverano al Re lo spargimento di sangue e lo incolpano di premeditata perfidia. […] tuttavia anche dai loro racconti risulta evidente che una minoranza decisa a tutto, con l’appoggio dei confederati provenienti dalle province, aveva usurpato i poteri del Governo. Dalla Camera dei Deputati un’ondata di isterismo era dilagata nelle vie, e il Re, che era ricorso a ogni mezzo tranne la forza per evitare un disastro, fu costretto finalmente ad agire. […] Erano passate appena le undici quando si cominciò a sparare. Due colpi echeggiarono presso il palazzo reale: una guardia nazionale cadde uccisa, un’altra ferita. […] Ma la causa della libertà era degenerata nella licenza e nell’anarchia. I ministri e i deputati avevano rivelato la loro incapacità a governare. Il fatto che la rivolta fosse scoppiata poco dopo la partenza per il nord di 17.000 soldati scelti fra i migliori, poteva essere ascritto al puro caso?».
Nonostante tutto quello che stava accadendo, Ferdinando non perse mai la calma e la lucidità e, ad un ufficiale che andò a domandargli istruzioni, disse di fronte a centinaia di persone: «risparmiate il popolo! fate prigionieri! non uccidete! fate prigionieri…». Poi mentre l’ufficiale si preparava ad andarsene con gli ordini, lo richiamò ancora indietro, per ripetergli: «Siate calmo. Se vi lasciate travolgere dalle passioni, ci sarà un massacro, ed è quello che voglio evitare ad ogni costo. Fate prigionieri, ma non uccidete! Nelle strade c’è molta gente che prima di domani si sarà pentita del suo errore…».
Tra le due parti, secondo la stima di un comandante svizzero, vi furono quasi 2.000 morti, mentre, secondo Carlo Alianello, i fatti del 15 maggio ebbero per risultato «più di cinquecento morti, intieri quartieri distrutti, una nazione tratta fuori dal suo asse e sbalestrata, incerta, dubbiosa, facile preda per un prossimo avvenire».
Fu pertanto a causa della irresponsabilità di un’infima schiera di facinorosi (e non per colpa esclusiva di Ferdinando II), prevalente sugli elementi moderati, che l’intellighentia napoletana si lasciò sfuggire di mano l’opportunità storica, se non addirittura “epocale”, di trasformare il Regno delle Due Sicilie in una grande Monarchia Costituzionale.
«Indubbiamente l’animo di Ferdinando II era mutato in quel tempo ed a mutarlo contribuirono gli avvenimenti svoltisi dal 15 maggio in poi e lo scempio che si fece di lui, in Italia e fuori, del suo nome e della sua onorabilità. Fu ritenuto responsabile della costruzione delle barricate e del conflitto, lo si gridò colpevole degli eccessi più nefandi, dei saccheggi e della uccisione di vittime innocenti e nulla valse a difenderlo e a fargli riguadagnare la stima perduta. […] Nessuna meraviglia se il re, dopo tutti questi fatti, dopo aver usato clemenza con tutti, dopo aver dichiarato di voler osservare la costituzione anche dopo la vittoria sui ribelli, tornasse all’antico e si mostrasse intollerante e anche severo. Bisogna fare un grande sforzo di ricerca per trovare delle voci obiettive e sincere sul conto di Ferdinando II e sui fatti del 1848».
Abbiamo già visto che Luigi Settembrini ebbe dei rigurgiti di sincerità in tempi lontani dagli avvenimenti. Vittorio Imbriani ci lasciò queste parole sincere che vanno doverosamente citate: «Non chiamo rei veri coloro che materialmente uccidono, bruciano e saccheggiano, bensì quelli che hanno reso inevitabile il conflitto. I veri colpevoli dei guai di Napoli furono gli sciagurati come i La Cecilia o gli sciocchi che eressero le barricate e che non avevano nemmanco provveduto o pensato non dico di assicurarsi la vittoria, ma solo a procacciarsi una lontana possibilità di vittoria. Il quindici maggio non fu neppure una dissennatezza eroica. Siamo giusti, nessun governo costituito può tollerare insurrezioni armate, anzi ha il dovere di reprimerle. Dell’eccesso nella repressione immediata la gran parte della responsabilità morale ricade sugli insorti. Non è da condannare Ferdinando II per il 15 maggio!». Queste sono le affermazioni di una persona intellettualmente onesta!
Ed, in perfetta coerenza con la linea di condotta adottata in virtù dell’Ordinanza del 18 novembre 1833, il re Borbone concesse la grazia a tutti i sette liberali che, con la sentenza del 7 ottobre 1852, erano stati condannati a morte per i fatti del 15 maggio 1848.
Infatti con questa Ordinanza, lo stesso re aveva prescritto ai Procuratori Generali del Regno di segnalare al Ministro della Giustizia, con rapporto circostanziato, i pronunziati delle Corti a pene capitali, affinché il sovrano fosse messo in condizioni di provvedere – motu proprio – per l’eventuale grazia o commutazione di pena.
Ciononostante, gli inquisiti, rifugiatisi in terra straniera, si vendicarono mettendo sempre più in cattiva luce la figura del re e creando ad arte la leggenda nera sulle (inesistenti) responsabilità di Ferdinando II per i tristi fatti del 15 maggio 1848 a Napoli. In particolare, continuarono a tramare contro la loro Patria, fornendo un notevole contributo per la caduta del Regno delle Due Sicilie.

Telese Terme, febbraio 2013.

Ubaldo Sterlicchio
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Note bibliografiche:

1) Domenico Razzano, “La biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II”, Tipografia dell’Italia Marinara (via Roma 289, Napoli, 1914), riedito da Ripostes, Battipaglia – SA – 2010, pag. 24.
2) Giuseppe Buttà, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta – memorie della rivoluzione 1860-1861”, Trabant, 2007, pagg. 391-392.
3) Harold Hacton, “Gli ultimi Borboni di Napoli”, Giunti, Firenze, 1997, pag. 281.
4) Mariano Bocchini, Niccola Nisco, un liberale tra le contraddizioni del Risorgimento italiano”, Vereia, Benevento, 2010, pag. 44.
5) Giuseppe Campolieti, “Il re Bomba”, Mondadori, Milano, 2001, pagg. 309-310.
6) Niccola Nisco, “Ferdinando II e il suo regno”, Morano, Napoli, 1888, pagg. 209-210.
7) Harold Acton, op. cit., pag. 271-272.
8) Ibidem, pag. 274.
9) Charles MacFarlane, “A Glance at Revolutionized Italy”, Londra, 1849; in Harld Acton, op. cit., pag. 275.
10) Giuseppe Campolieti, op. cit., pag. 323.
11) Carlo Alianello, “La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano, 1982, pag. 58.
12) Roberto Maria Selvaggi, “Ferdinando II di Borbone. Storia di un sovrano napoletano. Trent’anni di regno tra progresso e reazione”, Newton, Roma, 1996, pag. 48.
13) Ibidem.
(Nella foto, Giuramento della Costituzione, Napoli, 1848, presso il Comune di Bologna)
http://cronologia.leonardo.it/document/doc0929.htm