Intervista del novembre 1924 a S.M. Maria Sofia di Borbone

Intervista del novembre 1924 a S.M. Maria Sofia di Borbone
Martedì 26 Marzo 2013 08:56 Roberto della Rocca

CASERTA – Nel novembre del 1924 il giornalista del “Corriere della Sera” Giovanni Ansaldo si recò a Monaco per intervistare Maria Sofia di Baviera, l’ultima regina di Napoli. Il marito, quel Francesco II di Borbone, al quale con un gravissimo atto di pirateria era stato sottratto tanti anni prima un legittimo regno, era ormai da tempo passato a miglior vita e Maria Sofia viveva gli ultimi scampoli della sua lunga e travagliata esistenza (era nata nel 1841), in un vecchio ma imponente palazzo adagiato sulla Ludwigstrasse, ospite di un nipote, figlio del duca Carlo Teodoro di Baviera.
Il giovane giornalista si trovò di fronte una vecchia signora (aveva già 83 anni) che, però, malgrado le tante vicissitudini, niente aveva perso della sua regalità e del suo innato charme. Maria Sofia era ancora lucidissima e ricordava perfettamente il suo fin troppo breve ma felice periodo napoletano quando per tutti era “la regina”. Nel corso dell’intervista non vengono risparmiati giudizi taglienti riguardo ai Savoia che a quel tempo, è bene ricordare, erano ancora saldamente seduti sul trono d’Italia. Ad un certo punto Maria Sofia diventa persino profetica quando esclama: “Il modo in cui loro hanno trattato noi è di brutto augurio. Dio non voglia che un giorno, anch’essi, non abbiano da difendere, dall’esilio, i loro patrimoni personali”.
Profezia, ahimé, veritiera solo in parte. I Savoia, infatti, nel momento della fuga, furono molto più astuti e previdenti provvedendo in anticipo a spostare nei capienti forzieri svizzeri il loro inestimabile tesoro. Quel tesoro che era stato largamente rimpinguato grazie alle ruberie e ai furti perpetrati a Napoli e nel meridione tutto. Il giornalista resta rapito dalla determinazione e dall’energia della vecchia regina che di lì a qualche mese renderà l’anima a Dio, tanto che non riesce più ad articolare domande. Alla fine, in maniera alquanto impacciata e goffa, si congeda dalla regina e si reca in albergo a scrivere il suo pezzo.
Quell’incontro, però, rimarrà impresso a lungo nella sua mente e nel suo cuore. Anche perché incontrare una persona di così elevato spessore e di così forte tempra, non era di certo cosa usuale. Maria Sofia, infatti, fino all’ultimo istante della sua vita, era rimasta e si sentiva regina. La regina di un Regno che era stato grande e che, proprio sull’esempio mirabile di cotanta donna, vorrebbe ardentemente tornare ad esserlo.

INTERVISTA ALLA REGINA MARIA SOFIA DI GIOVANNI ANSALDO, APPARSA SUL CORRIERE DELLA SERA NEL NOVEMBRE 1924
(Ansaldo omise una parte – da “Voi lo vedete, sono povera.” a “i loro patrimoni personali…” – che pubblicò sul “Tempo” il 12 febbraio 1950)
Maria Sofia di Baviera, regina di Napoli, vedova di Francesco II di Borbone. Non solo vive ancora, ma regna. Duchessa di Castro per il volgo dei maitres d’hotel e dei fattorini, imperatrice dell’anima per me.
Amo in lei la bellezza e la dignità della tragedia.
I re ci saranno sempre, trionferanno delle teorie e delle rivoluzioni, perché la tragedia è necessaria, ed essi soli ne sono i personaggi.
I poveri uomini hanno bisogno di esseri viventi, affrancati per nascita dalle miserie della promiscuitá sentimentale e da certe convenzioni verso l’uguaglianza, da certi livellamenti del dolore, da certi ménagements della rispettabilità.
Giorni fa, Maria Sofia, rovistava in certe vecchie casse, da anni non aperte.
Ne trasse fuori due poveri acquerelli, due vedutine del Vesuvio, dolcemente velate da un languore di esilio, che aveva tremato nella mano del dilettante. Il suo fido Barcellona, che le era accanto, le trovò belle.
“Ti pare?” replicó la regina, socchiudendo gli occhi e guardando in prospettiva i due acquerelli. “Ti pare? Le dipinse il mio re. No, il mio re, tu lo vedi, non fu imbecille… Come dicono.”
E rise. La vecchia regina di ottantatré anni ride ancora, dolcemente o con un secco convulso, e un `onda di sangue le monta ancora giovanilmente dal cuore alle tempie, fino alla radice dei capelli bianchi ; ride ancor oggi come nella casa paterna di Possenhofen, nella reggia di Napoli, nelle casematte di Gaeta, ai tempi dei suoi diciott’anni.
I grandi sdegnosi sono propensi al riso: è, in essi, una attitudine di di difesa contro la vita. Diversamente da sua sorella Elisabetta d’Austria, Maria Sofia cercò la felicità. Lo dice: “Noi, le cinque figlie del duca Max, ci chiamavano da giovani die Wittelsbacher Schwestern, le sorelle Wittelsbach. Portavamo tutte e cinque le treccie nere, ricondotte a giro appena al di sopra delle orecchie e sulla fronte, al modo delle contadine dello Oberbayern.
Poi tutte pigliammo il volo: Elisabetta diventò imperatrice d’Austria, Elena diventò principessa di Thurn und Taxis, Matilde sposò Luigi conte di Trani, Carlotta il duca di Alençon: ma di tutte e cinque, io era quella più predisposta dalla natura a godermi la vita” Il suo disegno è stato dunque una lenta e faticosa conquista, la sua indifferenza è una corona ben più gloriosa di quella monarchia normanna.
Le angustie di questi ultimi anni, le peripezie di una vecchiaia appena agiata, non le hanno tolto il suo riso, che ancor oggi vela il suo viso di porpora, la porpora della sua intima e vincitrice regalità, che le avventure del mondo e degli uomini non possono offendere. Maria Sofia vive a Monaco. Ospite del nipote, il figlio del duca Carlo Teodoro.
Il vecchio palazzo costruito dal duca Max sulla Ludwigstrasse accoglie, nell’ala sinistra, la sede della Deutsche Bank; nell’ala destra, la regina di Napoli. Accomodamenti inevitabili.
I giovani principi Wittelsbach, le nuove generazioni, si sono fabbricate altre dimore, a Bad Kreut, a Berchtesgaden, a Tegernsee: essi si portano dietro la servitù valida: hanno lasciato alla vecchia regina due servitori che indossavano con estremo decoro la livrea dei Wittelsbach, bianco-azzurra, e che introducono con dignità nell’anticamera nuda, con poche poltrone in raso giallo, ma senza – se Dio vuole – tutto il bric a brac degli appartamenti privati del poveri e banali re con regno.
Due vecchi servitori pensionati, due cameriere, il segretario: ecco la corte di Maria Sofia. II segretario è un catanese, il Signor Barcellona: da più di vent`anni al servizio della regina. E racconta, con devozione ingenua e onesta di impiegato.
Il conte de La Tour, il barone Carbonelli, il conte di San Martino, gli ultimi gentiluomini che circondarono la vecchia Maria Sofia prima della guerra, tutti morti.
“Io solo li sostituisco” fa il signor Barcellona con una infinita discrezione.
“Il patrimonio di Sua Maestà era tutto investito in fondi austriaci. Voi capite Ie conseguenze. La regina possedeva anche una bella villa sul boulevard Maillot, a Parigi. Fu lì che, anzi, ci sorprese la guerra. Oh, tutte le avventure per rispedire in Germania la servitù tedesca!… La regina ha la cittadinanza italiana, è italiana. La Pubblica Sicurezza francese fu allora molto gentile, per il passaporto. Io dissi: Ma capite bene, signori: non vorrete che una vecchia regina venga personalmente al commissariato! Capirono, e mandarono un delegato. Poi capitò il moratorium degli interessi: eravamo già qui a Monaco. Ma i Wittelsbach aiutavano ancora la regina: c’era sul trono il principe reggente. Leopoldo, quello stesso che la condusse all’altare, per procura di Franceschiello. Molti italiani, molti, visitò la regina nei campi di prigionieri. La regina parla correntemente italiano, appena qualche termine francese, ma di rado: e quelli se ne meravigliavano.
E lei spiegava così: “Sono una signora, che conosce bene Napoli”. Oppure: “Sono una signora, che imparò da giovane a parlare italiano”.
Poi diceva: “Povera gente! Si stupiscono di trovarmi cosi simile a loro, perché domando se hanno avuta tutta la loro razione di broda!”. Regalò ai campi di prigionieri tutti i suoi libri italiani.
Ai tempi della “repubblica dei consigli”, la regina era alloggiata al Kaiserhof, sullo Stachus. Gli spartachisti si difendevano dalle barricate erette proprio di fronte all’hotel, sulla Karlsplatz.
II proprietarlo diceva: “Ma Maestá, io declino tutte le responsabilità”.
La regina rideva, e diceva: “Mio caro, assolutamente no. Io non scenderò in cantina. Voglio vedere se almeno i rivoluzionari di oggi tirano meglio di quelli dei tempi miei”. E osservò sempre dal suo appartamento tutte le fasi della lotta.
Il generale Epp, che comandava le truppe del governo, le piacque molto perché montava bene a cavallo. Poi partimmo per Parigi, boulevard Maillot, dove passammo due anni: dall’ottobre `20 all’ottobre `22. Ora, la bella casa di boulevard Maillot è venduta. Si congedarono gli ultimi tre servitori italiani. Quest’inverno la regina avrebbe voluto anche svernare a Parigi: abbiamo scritto a qualche buon albergo, non dei primi: ma che prezzi! Cento franchi al giorno. La regina, voi capirete, deve fissare almeno tre o quattro camere. Per quest’anno bisognerá rinunciarvi. Come per i giornali.
Un tempo, noi ricevevamo una ventina di giornali, parecchi, anche giornali italiani: ma come si fa, adesso, con questa valuta? La regina riceve ancora qualche giornale italiano, ma così sapete… cosi, quando c`è qualche cosa di interessante…
Il segretario non vuol pronunciare le parole proprie: “di seconda mano”. Ha ragione. I re non possono accettare nulla di seconda mano: né il trono, né il giornale. Io rifletto: quanto sarebbe bello e nobile se i più grandi giornali italiani inviassero una copia in omaggio a una vecchia Signora di ottantadue anni, che fu… Ma sì. Neanche da pensarci. Saremmo accusati di borbonismo latente.
“È così con la posta. Quanta posta, un tempo, signore! La regina faceva molta beneficenza, pagava delle piccole pensioni. Una la vuol pagare anche adesso, al vecchio Giovanni Tagliaferri, di Caserta, che fu con lei a Gaeta: è quello che si ricorda ancora adesso più cose di quando la regina era giovane, e guidava sei cavalli, con salda mano, per i viali di Capodimonte. Ma anche la posta, a poco a poco… Fu molto triste quando dovette sospendere il sussidio all’ospizio dei piccoli vetrai italiani, alla Plaine Saint-Denis, vicino a Parigi.
Fu suor Maria d’Ajutolo che ora è morta anche lei, che l’aveva portata a vedere cos’era la miseria di quella gente. Suor Maria d’Ajutolo era una donna energica, che quando parlava degli orrori della Plaine Saint-Denis, o di qualche altro affare del genere, piantava gli occhi in faccia alla regina, e diceva: “C’è da vergognarsi, Maestà “.
E la regina replicava fermamente convinta: “Si, c’è da vergognarsi, suor Maria”. Quando le dissi che ormai non si poteva più fare quella spesa del sussidio, la regina era seduta di là al suo tavolo da lavoro, e ripeté due o tre volte, guardando così, nel vuoto: “C’è da vergognarsi, Maestà “. Poi aggiunse: “Nessuno mi parlò mai cosi bene come suor Maria “.
Ne aveva infatti una stima grande. Adesso, la regina scrive più a poca gente. In Italia ha ancora qualche amico dei tempi lontani: come la duchessa Della Regina, che è anche contessa di Macchia, di Napoili. Per il 4 di ottobre, che è il compleanno della regina, e per il nome di Maria, la duchessa manda sempre a chiedere che cosa la regina gradirebbe di più. E sapete, cosa indico sempre, io? Una cassettina di maccheroni, con un po’ di cacio e di conserva, tanto almeno da poter fare un po’ di pasta asciutta.
E la duchessa manda sempre tutto puntualmente. La duchessa è vecchierella pure lei, conobbe la regina a Caserta, non la rivide mai più, da quei giorni. Ma fa il pacco ancora lei, io conosco la calligrafia. Bisogna scrivere sull’indirizzo: “Liebesgaben “.
Allora alla frontiera non aprono il pacco, la dogana tedesca non apre i pacchi di strenne.” “Liebesgaben”, “dono d’amore”. Voi siete una grande anima, duchessa “vecchierella”. Voi scrivete con mano tremante la parola straniera, la parola misteriosa, la parola che deve aprire le frontiere lontane all’omaggio per la regina della vostra gioventù. “Liebesgaben”, “dono d’amore…”
“La regina, quando riceve i pacchi della duchessa, con su scritto Liebesgaben, è tutta contenta. Manda a chiamare un vecchio napoletano, qui di Monaco (a Parigi, c’erano i Tagliaferri, zio e nipole) e si fa fare delle buonissime paste asciutte, che fa assaggiare a quanta più gente può. L’ultima volta, invitò a pranzo il Nunzio pontificio, monsignor Pacelli: ma un pranzo così in confidenza, si capisce: il Nunzio è molto intelligente e conosce le condizioni della regina. Del resto, poche visite. il Kronprinz Rupprecht, che viene ad essere nipote d’acquisto della regina, quando viene a Monaco da Berchtesgaden è sempre impegnato in cerimonie ufficiali di leghe militari, o altro: fa un salto qui a palazzo, ma pochi minuti.
La regina ebbe anche, tempo fa, la visita di una principessa italiana, che ora è entrata nella nostra Casa: la principessa Bona. Viene ad essere sua pronipote d’acquisto, perche il principe Corrado suo marito è figlio d’una figlia dell’imperatrice Elisabetta.”
Il signor Barcellona si orienta nelle parentele wittelsbachiane- asburghesi con la sicurezza di un pipistrello in una caverna. “E poi, pochi altri amici. Tutte le sere alle cinque, viene la sorella della regina, la duchessa di Trani. Matilde che abita all `hotel Vierjahreszeiten, sulla Maximilianstrasse. A prendere il the. Allora io faccio un po’ di lettura del giornali, perché la duchessa di Trani, per quanto meno vecchia della regina, non può leggere facilmente, senza occhiali, come la regina.
La duchessa di Trani ha ottant’anni. La regina dice che i loro discorsi sono tetri come quel verso di Schiller nella ballata di Rodolfo di Asburgo: “Als dächt’er vergangener Zeiten” (come se pensasse a tempi passati) ma lo dice senza rimpianti. Poi io riaccompagno sempre Ia duchessa di Trani all’hotel, che è piuttosto distante, e per lo scuro potrebbe succederle qualche disgrazia.”

Rodolfo di Asburgo, quando i tempi passati lo riafferrano, e lo fanno piangere, siede al banchetto palatino, in mezzo alla sua corte, e può nascondere le lacrime “nel manto dalle purpuree pieghe”. Maria Sofia non ha che la porpora del suo viso, che la protegge dalle ingiurie del volgo, dalle curiosità e dalle compassioni, meglio del manto imperiale “des Mantels purpurnen Falten”.

In piedi accanto al suo tavolo da lavoro, dritta come il fusto di un giovane pino, la regina riceve. Sotto la frangia dei capelli bianchi, e l’arco grande e perfetto delle sopracciglia, gli occhi guardano il nuovo venuto, e insieme guardano lontano: Si sente di essere in margine a quella vita superba; ospiti, episodio. La bocca sottile si dà, sì, pena e per essere buona e benevola, ma non può sorridere col facile e banale incoraggiamento degli charmeurs.
La regina che resiste così tenacemente alla morte ha nel viso qualche cosa di quei bambini, per i quali si ha paura che muoiano presto: questo timore, questa ritrosia dinnanzi alla vita è uguale oggi sul suo viso, come nel ritratto che di lei diciassettenne Piloty dipinse, prima che andasse sposa. Per questo suo ansioso e disdegnoso viso, Maria Sofia è salva dalla oscena vecchiaia, è contemporanea di tutte le generazioni sopravvenule: è la donna senza età dell’antico poema ellenico, che colpita dalla sciagura della sua casa, tuttavia non disperando della giustizia degli dei, lieta e orgogliosa della propria bellezza che non può essere tolta ai poveri uomini, loda i disegni del fato.
Il tono con cui essa chiede al visitatore il nome, i maggiori, la patria, è schiettamente omerico. La regina crede nella bontà del sangue e nella importanza di una ascendenza almeno pulita. Essa chiede anche gli anni, e dice i suoi, senza alcuna vanesia senile. “Ho ottantatré anni. Uno di più dell’onorevole Giolitti. Sono molto vecchia.”
La regina tace. Io cerco furiosamente nel mio cervello le domande da farle, le questioni, gli argomenti. Niente. Quella sua ultima frase mi fa l’effetto di una saracinesca, calata di colpo su una vetrina dove io volevo piluccare colla mia curiosità. “Sono molto vecchia.”: sottinteso: “Le parole tue sien conte”. Alzo la testa: la regina è immobile. Non riesco a vedere e a pensare altro che i due oggetti posati sul tavolo: un lavoro di tricot bianco, e un giornale. Finisco per chiedere alla regina quali giornali legga.
“Vi dirò. Io stessa leggo tutti i giorni Les Journal des Débats e Le Figaro. La mia politica estera la dirige un po’ il signor Gauvain, che io considero il primo articolista politico di Europa, il più informato, indipendente e sistematico. Il Figaro lo leggo per la parte mondana. E l’unico giornale del mondo che dia bene i matrimoni, le morti, le villeggiature del mio parentado e delle mie relazioni, e in genere della buona società: una cosa molto più impontante di quanto voi credete. Poi il Figaro è l’unico di cui mi fido per le recensioni letterarie. Io compro i libri di cui dice bene, gli altri li trascuro senz’altro.”
“E di giornali tedeschi?.”
“Così, le Münchener, per quello che succede in città. Ma Monaco è triste, sapete. Questi monachesi hanno perduto la testa.” La regina abbassa la voce, e ripete più volte: “perduto la testa.” “Il Signor von Kahn è un uomo assai devoto alla monarchia: ma non ha testa, no, no.” La regina accenna ancora di no, col capo, con indulgenza, con compatimento. “Io conosco come sono gli uomini devoti, ma senza testa.”
Quando la regina sa che ho visitato anche la Ruhr, mi domanda se è vero che truppe francesi commettano tante atrocità. Io nispondo ciò che so.
“Ma io lo pensai sempre! Non può essere che i francesi si mettano a fare di proposito ciò che raccontano questi giornali” dice la regina sfogliando un numeno del Münchener. “Sono contenta che voi mi diate delle informazioni moderate e imparziali. Questa storia delle atrocità francesi nella Ruhr è come quell’altra delle atrocitâ tedesche nel Belgio. Tutto uguale, tutto così uguale, signore! E la “vergogna nera”? Anche lì si sara esagerato. Purtroppo chissà quante ragazze bianche, tedesche come francesi, vorranno andare col negro! Ma certo, è cosi…”
Una pausa, piena di povera umanità. La regina socchiude gli occhi come per non vedere quanto sono menzogneri e lubrici gli uomini. “Mon cher monsieur, le monde c’est fou. Non c’è modo di guarirlo. Ogni generazione ripete gli errori delle generazioni precedenti, prendendoli per clamorose novità.”
La regina è informatissima delle cose italiane. Della Casa regnante, soprattutto: pone domande ermetiche, sigillate, di cui solo un iniziato alla vita di corte potrebbe afferrare il senso riposto. Si compiace che il principe Umberto sia un giovane: “È una gran fortuna, per un re, essere bello e prestante: se no, finisce pen restare… per restare, come dicono i francesi, aigri. La regina Elisabetta del Belgio (madre di Maria José) è mia nipote: è una figlia del duca Carlo Teodoro. Ed anche la mia preferita, penché la più vivace, la più audace, quella che da bambina somigliava di più a noi, le sorelle Wittelsbach, quando bambine eravamo anche noi, nella casa di mio padre, in Possenhofen”.
Una grande stima per l’imperatrice Zita di Asburgo. “Vedete quanto è fine: è stata l’unico personaggio regale che non abbia scnitto le sue memonie. Gli editori americani gliele avrebbero pagate anche a lei. Ma una regina che scrive le sue memorie… L `impenatrice lo ha capito.”
“Le memorie sul mio conto, voi dite? Oh, quante ne incominciai a leggere! Ma romanzi, tutti romanzi che gettavo via indispettita..” Niente aquiletta bavara. “Io ero una sana e allegra ragazza. Ma torniamo all’imperatrice Zita. Ha due disgrazie: il nome, che è brutto, e quel viaggio in aeroplano in Ungheria: quelle aventure!… Ma suo figlio tornerà sul trono.”
Arco, Deauville, Tegernsee, la casa degli Orléans a Twickenhan, la villa di Neuilly sur Seine: sfondo su cui passano rapidamente bare di re in esilio, nozze di principi giovani, cavalcate solitarie di lei, la rievocatrice.
“Ditemi. Ho veduto sull’Illustration una fotografia, in cui alcune monache salutano il re d’Italia e Mussolini con il braccio disteso alla romana. E esatto questo? O è un trucco?” “Credo che sia esatto,.Maestà.”
“È vero che l’onorevole Mussolini cerca di avere ottimi rapporti col Papa?”
“Credo che sia vero.”
“Ma è naturale, è naturale…”
Non insisto. Ho paura dei ricordi della sua gioventù e dei suoi anni di regno…
“Voi lo vedete, sono povera. Ed abito qul per concessione di un mio nipote; ché altrimenti dovrei abitare in un quartierino di sobborgo Schwibing o a Sendling. Monsieur Barcellona mi serve per devozione, non certo per il salario che gli posso pagare. Non ho neanche i mezzi per abbonarmi a qualche rivista italiana e per comprarmi le ultime novità di Treves, come mi era sempre piaciuto fare. I Savoia non sono stati chic con noi Borboni.
Che don Giovanni Rossi ch’era impiegato della Casa Reale nostra, e che aveva la custodia del borderò di quattro milioni di ducati, proprietà privatissima di mio marito, sia andato subito a presentarlo al Garibaldi, appena costui entrò in Napoli, per farsene merito, non mi meraviglia; che il Garibaldi lo abbia subito confiscato, insieme ai borderò degli altri principi borbonici, neppure questo mi fa meraviglia; i rivoluzionari hanno sempre fatto così con i re caduti. Ma che i Savoia, dopo che ebbero annesso il regno di Napoli, non abbiano sentito il bisogno di usare un po’ di riguardo ai Borboni, che erano stati re legittimissimi, come loro, questo è ciò che ancora oggi, dopo tanti anni, mi fa meraviglia. Vittorio Emanuele lo sapeva pure che quei quattro milioni di ducati venivano dalla dote della madre di Francesco II, venivano dalla eredità di Maria Cristina di Savoia, erano il frutto della vendita dei beni allodiali del primo ramo dei Savoia, in Piemonte, e di palazzo Salviati, a Roma.
E sapeva bene che la villa di Caposele, a Mola, non aveva nulla da fare coi beni della corona, coi palazzi reali di Portici e di Capodimonte per esempio; ma era stata proprietà personalissima di re Ferdinando e da questi lasciata al re Francesco, mio consorte, in testamento, proprio in testamento, come bene libero. Ma non fece nessuna distinzione neppure lui, come il Garibaldi. Fu un re che si comportò con noi come un rivoluzionario, e ciò non è bene. La repubblica francese fu molto più signora con gli Orleans di quanto sia stato il regno d’Italia con noi… E ora voi mi dite che i figli del re d’Italia sono sani e belli e che si godono la vita. Io ne sono felice e auguro loro ogni bene. Ma il modo in cui loro hanno trattato noi è di brutto augurio. Dio non voglia che un giorno, anch `essi, non abbiano da difendere, dall’esilio, i loro patrimoni personali…”
Ma la regina vi pensa, con dolcezza. Parla dei suoi servitori italiani, i tre ultimi che ebbe: sa con precisione i nomi, cosa fanno, dove sono. “Erano tre meridionali che mi restarono devoti all’infuori di ogni convenienza personale, finché non fui io che li mandai via, perché… erano giovani, venuti al mio servizio per raccomandazione di qualche vecchia amica, dovevano farsi una famiglia, non era più possibile che perdessero il tempo attorno a una vecchia signora.
Si possono fare molte ferrovie, molte strade, molte scuole in quei paesi: gli uomini non si cambiano, sapete. Resteranno sempre attaccati per devozione personale al padrone che saprà convincerli: i più bravi soldati di tutta la penisola, insieme ai montanari alpini. Avevo Gaetano. Gaetano Restivo, siciliano di Ficarazzo, in provincia di Palermo: adesso è laggiù al suo paese, mi ha mandato tempo fa una cassettina di arance. L’ultimo tributo che mi arriva…
Poi Luigi Tagliaferri, di Caserta, nipote di un altro Tagliaferri, che fu con me a Gaeta. Poi Gaetano Marsala, abruzzese di Pescocostanzo, che ora fa il calzolaio a Parigi. Questo Marsala è un’anima semplice, e mi parlava sempre della corona angioina che si conserva nella collegiata del suo paese. Pareva che contasse delle favole, quando raccontava della corona angioina: che da quanto capii dev’essere in qualche sacrestia della Chiesa, e il Marsala da bambino, deve averla ammirata a lungo, quando si preparava per servir messa. Per lui, c’era attorno alla corona di Pescocostanzo veramente un regno perduto, pieno di tutti gli splendori… assai più che per me. Un siciliano, uno di Terra di Lavoro, un abruzzese: avevo proprio attorno a me tutte le province del Regno.
La voce si abbassa stanca, cade. Nel punto che muore, sento che la regina mi accomiata, mi lascia di nuovo in margine alla sua ricca vita, in cui mi illusi, a qualche accento, di poter guardare con occhi chiari. Di questa sua vita, non mi ha lasciato intravvedere nulla: solo degli scorci, delle prospettive sul suo pensiero: dei giudizi, se volete: ma della vita profonda, nulla. Nella sua tragedia, non ci sono mai stati confidenti, e i monologhi sono aboliti.
Quando sono sulla soglia, la regina comprende la mia disillusione sciocca, e ne ha una pietà ironica. Alta in mezzo alla sala, essa mi richiama con un cenno. Forse, ora, mi appare per un istante la vera, la barbara Maria Sofia di Wittelsbach, fatta per essere guidatrice di cavalli, compagna di conquistatori, madre di re? Ma la solita voce smarrita mormora: “Voi siete giovane, signore: vedrete ancora vecchie regine, tante cose, tante cose…”
Mentre tentavo ii mio primo inchino cortigiano, Maria Sofia accennava ancora, tristemente, col capo, alle avventure del mondo; che essa non vedrà più. Ma forse osservava. anche la mia goffaggine plebea nell’ossequio alla Maestá, e l’impiccio in cui ero per uscire dalla stanza, senza voltare le spalle, come ho letto nei libri che si pratica coi re: e compiangeva questi miseri tempi, in cui non si insegna neppune l’inchino dinnanzi alle regine.

Roberto della Rocca