La conoscenza del passato è ottima scuola dell’avvenire

INSERIRE TESTO Rivista_europeaRicerca effettuata dal Prof.Renato Rinaldi dalla “RIVISTA EUROPEA” ANNO IV PARTE TERZA -MILANO 1841-
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I. IL REGNO DELLE DUE SICILIE
Annali civili del regno delle due Sicilie. — Napoli dalla tipografia del R. Ministero degli affari interni nel R. Albergo de’ poveri. — Un fascicolo ogni bimestre.
Rivista europea, agosto e sett. 1841. Anno IV, parte III.
Quell’adagio dell’oracolo greco CONOSCI TE STESSO, a nessuno importerebbe raccomandare maggiormente che all’Italia nostra.
La conoscenza del passato è ottima scuola dell’avvenire, è un risparmio delle troppe care lezioni dell’esperienza, è l’unico modo di schivare sia il desolato abbandono di chi non vede che fatalità e disperanza sia il precipitare di chi, persuaso che l’umanità procede, la vorrebbe cacciare a furia, e giungere alla meta senza scorrere la strada.
La conoscenza poi de’presenti, oltre che difonde l’amorevolezza e toglie le basse gelosie, svelle i superbi pregiudizii, e scema quelle nimicizie da terra e terra , che nel tempo, risolvendosi colle spade,portarono movimento e civiltà ed esempio a’forestieri; ora agitandosi in basso dispregio, cagionano malevolenze e rancore e
diffidenza di sè e d’altrui.

Fan 30 e più anni che il Foscolo esclamava alla gioventù :
“Visitate questa sacra terra”; ma viaggiare alcuni non vogliono, molti non possono, e non sempre per ragioni d’economia; e intanto profondano le radici queste siepi di spine che impedidcono ai fratelli di tendersi la mano.
I giornali son per certo uno de’ migliori mezzi per difondere la reciproca cognizione; e il giustissimo lamento che suona contro la loro degradazione, viene dal giacer abbandonati in gran parte ai ciarlatani della letteratura, a gente abietta che vi cerca sfogo di abiette passioni, e che, diseredati dalla natura della capacità di far qualche cosa, o dalla propria inerzia resi inetti allo studio, buttansi alla facile opera del censurare, alla vigliacca di impacciare chi fa, alla satanica di calunniare chi non vuol lordarsi del fango in cui e per cui essi sono nati. Ma forse percbè serve all’assassino, sarà condannata la spada che, in mano del prode, redime o difende la patria indipendenza ?
È dunque a dolere che non abbia la nostra Italia un giomale di riconosciuta, cioè meritata autorità, al quale lavorino i migliori d’ogni parte della penisola, e indichi i passi che si fanno nelle varie provincie fra cui essa è sbranata;e non lasci che più abbiamo ad arrossire allorchè udiamo dalla ospitale Francia (e un’altra delle mille ingiustizie de’lamenti del dotto volgo il dispregio che dicono far la Francia di ciò che non è lei. Si conti quanti Italiani sono ascritti all’istituto o come membri o come corrispondenti; si veggano altri de’nostri ogni anno insigniti della leglon d’onore: altri chiamali alle cattedre, e poi, se non siam conosciuti fuori, imputiamo a noi stessi che non poniamo nelle nostre scritture quel non so che, che ci vuole per farle degne d’essere conosciute.) o dalla dotta Germania esaltarsi patrioti nostri, di cui, non che le opere, noi ignoravamo il nome.
In questo desiderio, voglionsi almeno lodare i tentativi che qui e qua si fanno di giornali non serventi a basso guadagno o a più basse passioni , ma a porgere idea giusta delle condizioni d’un paese: giaccbè ( se la frase non sa troppo di clinica ), solo dalla diagnosi potrem dedurre la prognosi: sol dopo chiarite le condizioni presenti potremo misurare il merito nostro sopra i passati e verso gli avvenire. Erta montagna è questa perfezione sociale; e la cima sua, chi sa se sia coocesso mai alla stirpe nostra raggiungerla ? Ma tutti i buoni vi s’affaticano intorno, gli uni ancora anelanti alle falde, altri avviati pei buoni sentieri , alcuni fortunatamente sorti già a bella altezza nell’aere puro e sereno. Voi applaudite a questi , ma forse trovaronsi spianato il calle, e risparmiata metà della via da’predecessori; mentre doppia gloria meriterebbe, percbè doppia fatica sostenne, chi dai bassi fondi arrivò almeno ad accertare la via, su cui i posteri cammineranno.

E questo riguardo vorrebbesi ben raccomandare sia ai dispensieri della gloria, sia a quelli che anelano a novità, e non sanno che prima dote dei novatori è la pazienza , e conoscere le opportunità, e fabbricar su quelle; unico patto perchè gli edifizii non vadano a fascio. Scostandosi dalla storia e dalla pazienza, terribile lezione ci fu data or fa 50 anni; ne abbiam fatto senno?
Ma di liete speranze deve certo confortarsi chi esamini il regno di Napoli. Le vicende che resero miserabile l’Italia in quello sciagurato secolo che pedantescamente continuiamo a chiamare d’oro, lo sbalzarono dalla prosperità ov’era salito ai tempi che Federigo II vi alattava le muse italiane, e Roberto e Giovanna vi invitavano Petrarca, Boccaccio, Giotto, Masaccio. Caduto nell’infelice condizione di provincia, nè acquistando la pace col perdere la libertà, venne campo di guerre micidiali; poi strazio d’ingordi ministri, poi trastullo d’una politica sceverata dalla morale e dalle convenienze dei popoli; finchè da guerre, agitate per tutt’altri interessi che i pubblici, riposò sotto il dominio dei Borboni. Fu un rivivere in ogni cosa ; distrutta la tirannide dei vicerè, svelti gli avanzi della feudalità, i baroni dalle rocche selvaggie e minacciose, ove atterrivano tremando, richiamati alle pacifiche gioie della civile mansuetudine;l’amministrazione migliorata, ravviata la giustizia, incoraggite le arti, protette le lettere, alzati edifizii.
“Se sotto gli Svevi ebbe nome Napoli per le sue seterie, e se al tempo degli Angioini, Aquila fu rinomata e ricca pei suoi lanificii … quelle antiche arti per mille cagioni erano andate in ruina, e quasi ogni manifattura o lavoro ci veniva dagli stranieri. Non sono settant’anni che il celebre nostro abate Galiani commetteva a Parigi della cotonina per farne camicie da notte pel verno, ed il paese della seta e del cotone domandava a’forestieri i tessuti e le opere di quelle materie, che, grezze ed a vil prezzo, con essi permutava. Se l’immortale Carlo Borbone mostrò la generosità e la magnificenza di un principe, indicò almeno quello che era per fare in favore delle arti nel real albergo dei poveri e nella reggia di Caserta. Ferdinando, suo figliuolo, alle virtù paterne volle difatto riunire quella di favoreggiare le arti e l’industria. Ad esso dobbiamo una fabbrica di porcellana, un grandioso setificio in San Leucio, e la protezione onde sorse la società Corallaria, ed i lavori di tanti pubblici stabilimenti di arti. Venne re Francesco; e con quale discernimento non giudicava egli i lavori, e con quanto studio nei brevi anni del suo regno non istudiossi perchè ogni arte progredisse? Alle sue cure dobbiamo le migliorate seterie, le bambagine tessute, i pannilani immegliati, i merinos introdotti. Ma questi non furono che avviamenti e principii delle alte basi sulle quali Ferdinando II vide per sua opera sorgere in pochi anni il colosso dell’industria presente. Si moltiplicarono le fabbriche, s’ingrandirono i lavori: in ogni manifattura si contarono a più centinaia i lavoratori; si videro fonderie di ferro, cartiere, zucchero di barbabietole; le seterie di San Leucio, quelle del signor Matera, i panni di Sava, di Polsinelli, di Zino, le bambagine di Egg, di Scafati, dell’Irno; i cuoi, i guanti non solo bastarono al nostro bisogno , ma ne vendemmo a’ forestieri ; anzi vedemmo i nostri artisti presentare ingegnose macchine come se volessero mostrarsi rivali degli esteri inventori, o almeno parteciparne la gloria.
” Converremo facilmente che ogni favore che vogliasi generosamente profondere nelle arti della mano, non sia altro che favorirle e proteggerle, ma non già un impulso che potentemente le spinga ad avanzare e progredire. L’efficace e valida forza che in fatto incoraggiarle egli è iL lucro e l’interesse, potentissima molla del cuore umano. Or ogni utilità che ci sia dato sperare da quelle arti nasce dalla folla de’compratori e dalle frequenti vendite che consumano le produzioni. Laonde se avviene che i nostri lavori empiano i magazzini ed ivi rimangansi, vani riescono ed inutili i nostri belli prodotti; ed essi, invece di accrescere il capitale, andranno anzi diminuendolo ogni giorno, e così ci costringeranno infine ad abbandonar quelle arti dalle quali speravasi e lucro e ricchezza. Or se lo spaccio e la vendita sono Ia anima della industria, vediamo se nella nostra posizione e nelle presenti nostre condizioni possiamo lusingarci di una facile e perenne vendita dei nostri lavori e manifatture.

“Spiegata una carta dell’Italia, vedremo che il regno di Napoli stassi come un capo che largamente avanzasi ne’mari Adriatico, Jonio e Tirreno, che formano parte del Mediterraneo; che da un lato attaccasi al rimanente d’Europa, e ne forma come un ramo distaccato che avanzasi ad oriente ed a mezzogioroo. Il mare dunque ne cinge quasi per ogni dove, e dopo questo non largo mare incontrasi l’Albania, I’illirico, la Grevia, il lido dell’Asia e le coste dell’Africa, Schiavoni, Turchi, Beduini. Siamo dunque a’confini del mondo incivilito, e dopo noi vengono popoli o incolti o barbari che sicuramente non vorranno de’nostri squisiti lavori , contenti di glossolani e vili, e che dal solo basso prezzo lasciansi allettare. In tal situazione a chi venderemo le nostre manifatture ? E potremo sperare che quelle nazioni che son già potenti nelle arti vorranno comprar da noi ciò che vendono a tutto il mondo? L’ impero della moda, che tutti riconoscono starsi in Francia, farà sicuramente avere a vile que’lavori che non hanno i bolli francesi. Che se l’Inghilterra nelle manifatture bilancia la Francia, lo dee alle sue macchine ed alla potente sua marina che va per tutto il globo in cerca di avventori che comprino le sue merci. Vorrem dire simili a queste le nostre condizioni ? Potremo nudrir lusinga di spedire a Parigi, a Londra le nostre manifatture?
“Supplire a’nostri bisogni, francarci di comprare dagli esteri; tale debb’essere lo scopo delle arti nostre. Indi è che le grandiose e magnifiche fabbriche male a noi si convengano; anzi veramente più vantaggiose ci saranno le modeste ed economiche. Che se pure alcune grandiose ne vorremo, non potrem consigliarne altre che quelle della seta e del cotone, percbè noi siamo riecchi di tali generi, ed invece di estrarli greggi, potremo farne di bei lavori che per il basso prezzo delle materie prime sostenendo la concorrenza colle forestiere, a noi saran per recare utilità e vantaggio. S’ingrandiscano esse sole dunque e le altre tengansi a livello delle necessità nostre, nulla sperando dagli esteri. La copia del nostro olio potrebbe consigliare ancora d’ingrandire le saponerie; siccome l’uso di uccidere gli agnelli e i capretti, di estender l’arte de’ guanti e delle corde di minugia che già vendiamo a’forestieri. Dunque moderazione, giudizio, convenienza deggiono esser le guide e le norme delle nostre manifatture, se vorremo per esse acquistare ricchezze.
” La catena degli Appennini facendo il dorso della parte continentale del regno e scorrendone tutta la superficie, ne svaria il clima e fornisce di moderati fiumi e di copiose sorgenti tutto l’esteso suo territorio, rendendolo da per ogni dove ferace e coltivato; a tanti vantaggi si aggiungono ancora i vulcani , che con le loro ceneri e lave ne hanno tanto svariata la geologica costituzione. Questa fu quella terra che era popolata di dodici milioni di felici abitanti, che, straziata poi da civili guerre e da quella che sostenne per settanta anni contro i Romani, nella quale armò sino a 300,000 combattenti, pure iasciò memoria dell’aurum samniticum. Nondimeno essa non conosceva che il più meschino commercio, e le manifatture erano opere domestiche per l’uso delle famiglie. Le donzelle filavano, le madri tessevano e gli uomini impiegavansi nelle arti più laboriose e nella pastorizia. Ma queste provincie riunite all’impero di Roma, dopo aver tanto contribuito al suo ingrandimento, caddero con esso, e le devastazioni de’ Barbari, le guerre intestine le ridussero al misero stato in cui si videro nel IX e X secolo. Che se numerosi monaci non avessero salvata l’ombra della vecchia agricoltura, tutto sarebbe perito nella miseria e nella desolazione.Imperocchè que’ barbari amavano anzi vivere di rapina che di lavori; e se pure alcuno voleva coltivare qualche angolo di terreno, ne veniva distratto e svogliato, perchè i frutti non erano premio del sudore, ma preda dell’ardire e della violenza. Tutto si rimase incolto e deserto, e quel popolo di dodici milioni, appena si vide contare due milioni di miserabili, oltre a pochi usurpatori che ponevano ogni giustizia nella punta della spada. Gli Svevi succeduti ai Normanni avrebbero voluto riparare a tanti disastri, ma le guerre ed altre gravi cure ne li distrassero.
Gli Angioini, dati al bel tempo, poco curarono queste cose, e le sedizioni, i tumulti non ne diedero loro l’agio. Seguirono gli Aragonesi, e questi vedendo il regno ridotto a miseria, vollero almeno incoraggiare la pastorizia per trar vantaggio dall’erbe che ne coprivano le terre, ed ecco sorto il sistema del Tavoliere e degli Stucchi, delle Doganelle, che a que’tempi recò qualche bene, ma che oggi , impedendo la coltivazione, si è riconosciuto nocivo ed ha meritato utili riforme. Seguirono i vicerè , e per più di due secoli non fecero che ammiserirci , toglierci ogni principio di prosperità , negarci ogni miglioramento. Dopo costoro cominciarono le nostre coltivazioni a risorgere, e le vediamo con rapidi passi avanzarsi. La verità però ne costringe a confessare che, a paragone delle manifatture, trovavasi molto al disotto la coltivazione de’nostri campi. Nè vorremo maravigliarcene. La vita rustica , i lavori faticosi della campagna , le cure agrarie, gli stenti della vita de’ pastori non hanno certo quegli allettamenti che ci chiamano ad abitar le città : gli agi , le distrazioni, i piaceri delle numerose società fanno aborrire quel viver solitario e stentato; vediamo qoindi a folla i nostri villici abbandonar le campagne per correre alle arti, a’ mestieri, ed anche alla servitù domestica; e quindi in­ superbire del novello stato come più nobile e dignitoso, e credersi così da più del contadino che rimanesi avvilito e disprezzato. E questo stato di avvilimento e disprezzo in cui vediamo starsi l’uomo di contado è un male gravissimo, anzi il maggior torto che possa farsi alla buona agricoltura ed alle sue produzioni.
“Pure, non ostante tutto ciò, lieti osserviamo quanto in pochi anni siasi la nostra agricoltura migliorata. Già scorgiamo sorgere novelli boschi,moltiplicarsi l’ olivo ed il gelso, introdotta la grossa coltivazione della robbia e del guado, la barbabietola, la medica, la scilla, estese a vasti campi; ma pur confesseremo ciò non accadere nell’universale del regno. Alcuni luoghi e rari mostrano tal progresso; ma nella gran parte o poco ne seorgi o nessuno”.
“Quella terra che ora abitiamo fu quella stessa che abitarono i Sabini, gli Etruscbi, i Sanniti, i Lucani, i Campani; fu quella dove pochi coloni Fenici, Egiziani e Greci s’innalzarono a potenti e numerose nazioni. Tutte le loro arti erano solo una diligente agricoltura ed una saggia domestica economia: il commercio ristrettissimo e fra vicini; loro mezzi di trasporto, le schiene degli animali, o picciole e malcostrutte barchette incapaci di ogni altra navigazione ali’infuori di quella lungo le coste, quasi non si attentassero che a tener con un piede la terra e coll’altro il mare. La natura avendo ad essi negato copia di preziosi metalli, pure col cambio delle derrate seppero aquistare tanti onde giovarsene non solo a’loro usi, ma per vanità ed ornamento. Questa cosa medesima accade anche oggi nel nostro incivilimento, nelle nostre dissipazioni, nel nostro lusso; noi non abbiamo miniere, non tributi, non conquiste; d’onde dunque que’metalli si ammassano ne’nostri banchi, nelle case
de’cittadini, nelle mani di ciascuno? Tutte le dobbiamo all’agricoltura ed alla pastorizia …
,, Se tanto la protezione e gl’incoraggiamenti migliorarono le nostre arti e manifatture, facciamo lo stesso per l’agricoltura, chè a miglior ragione e con utilità maggiore il faremo, e pronte ne saranno e non lievi le conseguenze e piene ancora di alte speranze avvenire. Le nostre società economiche pongano studio particolare ne’miglioramenti agrari più acconci a ciascuna provincia, e non con le sterili dottrine, ma dando l’esempio e l’istruzione a’loro conciUadini. Nelle esposizioni an­ nuali che celebransi in ogni capoluogo non altro si mostrino che prodoUi di coltivazione e di pastorizia, e non altri che questi sieno premiati e lodati. Le stesse società s’incarichino di acquistare le sementi più utili, ed i loro orti addivengano semenzai e vivai di belle pianticelle. Sono questi i mezzi provinciali. Lasciamo al governo in ogni anno dispensare premi maggiori e dare incoraggiamenti ed onorificenze al miglior agricoltore, all’ottimo pastore. In fine si onori in qualche maniera la professione del contadino, ed il pubblico disprezzo non insulti alle sue miserie ed alla sua ignoranza ,,.

Queste parole noi toglieinmo da un Giornale, quale appunto si bramerebbe ad adempiere il voto che noi facevamo dal bel principio; voglio dire gli Annali Civili del Regno delle due Sicilie. Il ministro Niccola Santangelo(se ne taciano le lodi in parole, ove stanno quelle dei fatti) proponeva al re suo ” la pubblicazione d’un’opera periodica, destinata a raccogliere i fasti del suo regno e a divulgarli col linguaggio ingenuo della verità, il solo che si addice al giovane monarca, dal quale le Sicilie oggi ricevono nuovo lustro e vigor nuovo di vita “. E la necessità di tale pubblicazione l’illuminato ministro deduceva appunto dall’essere spesso ignorate le cose nostre, non solo per quel superbo fastidio delle cose domestiche di che già Cicerone appuntava i Romani, ma spesso perché i governi non si danno cura di farle conoscere; quasi la pubblicità non sia il miglior modo di cattivarsi l’opinione, e con questa il credito e l’amore, primo fondamento ai regni. ” I più dei vostri sudditi (diceva egli al suo monarca) quasi stranieri nella terra natale, ignorano le ricchezze che essi posseggono, e più ancora i benefizii de’quali fu con noi larga la provvidenza, soprattutto da che, venuto alla conquista del regno l’immortale Carlo III, fummo tolti dalla dura condizione di provincia; la quale ignoranza ci rende stolti ammiratori delle altre genti, ci fa poco affettosi del nostro paese, oggetto delle maraviglie e della perpetua invidia di tutte le nazioni di Europa, e snerva io noi la virtù, figlia del forte sentire, che inspirava a’nostri padri l’energia della propria dignità, avvivava il loro coraggio, e coll’amore e colla divozione al monarca rinnovava a Bitonto ed a Velletri i prodigi dell’antico valore.

” La nostra ignavia è ora giunta al segno che spesso noi siamo istrutti delle nostre cose da autori stranieri, a’quali non si può dar colpa di essere per noi assai parziali, ed a’quali nulla cale d’inspirare ne’cuori de’vostri sudditi quel nobile sentimento che pone ogni sua gloria nella fede e nella gratitudine al monarca.
” E valga per tutto un solo esempio. La storia delle nostre belle manifatture, con insigne vergogna, fu per la prima volta, non ha guari, pubblicata in Napoli da uno scrittore francese. Forse senza quel libro molti ignorerebbero ancora i progressi dell’industria io questa terra che insegnò all’Europa moderna l’arte preziosa di tirare la seta, che tesse oggi drappi non men pregevoli di quelli di Francia, e che progredisce in ogni specie di arti con occulto movimento simile a quello onde la benefica natura riproduce in ogni anno le meraviglie della creazione. ” Da per tutto apronsi nuove strade al commercio, si costruiscono nobilissimi edifizii pubblici, sorgono ponti maravigliosi:ma per inconcepibile oscitanza, le opere comandate dalla vostra sapienza e dalla vostra provvideoza rimangono appena note fra brevi confini, o vengono solamente ricordate in libri che sono fra le mani di pochi.
“Ingegni chiarissimi in ogni parte dell’umano sapere traggono oggi fra noi vita ingloriosa, perchè non sorge voce amorevole che renda conto delle loro scritture, e li conforti a durare nell’erto e faticoso cammino delle scienze.
“Intanto noi siamo creduti quasi direi i barbari dell’Europa: i giomali della licenza insultano il nostro nome: i meno audaci serbano a nostro riguardo il contegno della moderazione: e di qua e di là de’monti con infame pirateria si mettono a ruba ed a sacco i nostri pensieri, le nostre scoperte, i nostri utili trovati. Non ha guaii, un agronomo della Francia pubblicava come sua novella invenzione l’uso antichissimo nel regno di serbare i frunenti (Allude ai silos, vantati per novità, mentre nel regno son antichissime le fosse per conservazione dei grani. Intorno a queste è un bel discorso del barone Durini negli Annali. A Foggia, centro della coltivazlone di tutta Puglia nelle fosse: (che debbono essere in strati d’alluvione o di marna argillosa quarzifera) son unite in un luogo solo e commesse ad una fratria di fossaioli, che ripongono e levano il grano e lo guarentiscono) e tanta impudema era innalzata al cielo dalla turba sempre plaudente dei giornalisti !”
A rimedio di questi sconci proponeva dunque il savio ministro un’opera periodica, che mentre promoveva l’istruzione de’regnicoli, fosse un archivio contemporaneo dei fasti del paese e di chi lo regge; fasti per certo di ben altra gloria che sono le vittorie e le conquiste.
Re Ferdinando, che in giovane età recava sul trono de’suoi padri un amore così vivo, così sincero, così efficace del meglio de’sudditi; che al primo venire al trono prometteva medicar le piaghe delle Sicilie, concedeva larga amnistia, e dichiarava voler i sudditi tutti conseguire impieghi civili e militari, qualunque partito avessero mai seguitato, egli approvava l’istituzione, donde il ministro sapeva dedurre un’altra utilità, facendone un decoroso modo di premio e d’eccitamento ai begli ingegni napoletani, coll’eleggerli a collaboratori, assegnando uno stipendio abbastanza fruttuoso, senza servilmente costringerne la fatica. Ha dunque quest’opera in buona parte un carattere ufficiale, consono a quello del Giornale di statistica della Sicilia, di cui altre volte ci accadde qui far menzione (Rlcoglitore, anno 1837 P.II, p. 196). La prima parte è formata di documenti, forniti con liberalità dagli ufficii e dai ministeri, massime da quel degli affari interni, della cui segreteria fa parte l’ufficio, del giornale in discorso. Le varie accademie vi trasmettono il sunto dei loro atti. È a sapere che in ciascuna provincia di quel regno è istituita una società economica (salvo Napoli e Palenno che hanno in quella vece un istituto d’incoraggiamento – conosciamo sei volumi di atti), composta di 18 socii nominati dal re e 12 nelle provincie di là dal Faro, oltre un numero indeterminato di onorarii e corrispondenti; destinati a promuovere la pubblica industria, corrispondendo con una commissione che esiste, in ciascun comune. Ognuno vede come gli atti di queste società sieno buon testimonio della condizione economica di ciascuna provincia, ed ottimi materiali pel giomale.
Le mostre annuali delle manifatture e dei lavori d’arti belle dan nuovo tema a segnalare i progressi delle arti utili e delle ingenue. Le relazioni che il ministero fa al re sui lavori pubblici, o sulla popoluione, sulle dogane, sulle miniere, sulla marineria, qui vengono ad ora ad ora riprodotte.

In ciascuna provincia poi suole tenersi un consiglio generale, ove l’intendente, o chi ne sostiene le veci, espone ai congregati lo stato del paese, entrate e spese, miglioramenti ottenuti o da cercarsi, la leva militare, i mercati, lo stato della mendicità, degli oepedali, de’monti frumentarii, delle scuole, dell’agricoltura , delle strade, dei boschi; domande fatte al governo, miniere aperte, industrie introdotte: e insieme si affatica all’opera di svellere i pregiudizii e insegnare le buone pratiche d’industria, d’economia, di igiene (1).
Ecco in ciò un’altra fonte di notizie.

(1) Niccola Nicolini, l’illustre autore del Comento al codice penale, di cui io ho parlato testè negli Annali di statistica, rispondendo all’Intendente della provincia di Abruzzo citeriore, come presidente nel consiglio generale, ne lodava lo zelo,”non quellò che,sotto la maschera di zelo, è piuttosto smania, Ipocrisia, vanità, effetti spregevoli di ambizione e d’orgoglio; ma quello che spontaneo, e di sè conscio e sicuro, porta costantemente l’impronta della pura sua ragione, e meglio direbbesi tenerezza di amico, amor di fratello, sollecitudine di padre.

“E questo è il carattere dello zelo che conviene all’indole propria del nostri concittadini; questo è quello cui l’unione de’consigli-generali di provincia è intesa a mantener vivo e fecondare dov’è; e dove non è, isplrarlo. Nè altro è il fine del conto morale che dovete esigere da’nostri amministratori; nè altro è il sentimento che dee dirigere l’esposizione che farete de’voti della provincia alla maestà del monarca …
“Noi dunque qui siamo come in un consiglio di famiglia. Non di vane astrattezze nè di lunghe e fantastiche speranze ci pasceremo fra noi; ma i bisogni del pastore, quelli dell’agricoltore, quelli del commerciante, del proprietario, dell’artista, dell’uom di lettere, dell’idiota i bisogni in somma del popolo entreremo a discutere; e più con ingenua ed amichevole franchezza, che per emulazioni ambiziose o con apparati Ideologici di scienza. Cuore e buon volere, e nulla disforme dalla provincia e dall’indole de’nostri concittadini, voglion costoro da noi;e ctò solo sarà l’anima, ciò solo la norma delle nostre discussioni.
“Intanto, o colleghi, se lo spirito d’ordine è un elemento ingenito del carattere morale de’vostri committenti, questo solo può render facili tutti i nostri lavori. Essi van distinti per legge in due classi; l’una di uffizi in tutto amministrativi, l’altra di semplici rappresentanti al governo.
“Sotto il primo aspetto, vera magistratura è la nostra …Ma sotto il secondo, qual vasto campo ci si offre al pensiero ! Come il nostro amor proprio debb’esserne lusingato ! Il comiglio, dlce la legge, dà il suo parere sullo Italo della provincia e dell’amministrazione pubblica, particolarmente sulla condotta e sulla opinione generale dei pubblici funzionari e propone i mezzi che crederà più conducenti a renderlo miglior:parole gravi, che ci indicano quattro grandi rami d’indagini profonde e di provvedimenti utilissimi.

“Vengono in primo luogo gli oggetti di necessità, d’utile, di comodo; quelli dle debbono riguardarsi come essenziali e rimari, perchè aenza di quelli niuno popolo mal potrebbe dirsi civile. Tal’è l’agricoltura, la pastorizla, il commercio: prime fonti di vita, non che di proprietà individuale e pubblica. Dobbiam dunque Indagare quali Incoraggiamenti possan essi ricevere; dove dissodarsi il terreno, dove rimboscarlo, dove difenderlo da torrenti, dove renderlo irriguo, quali coltivazlonl debban essere più protette, quali surrogate ad antiche per la loro soprabbondanza avvilite; come migliorar gli armenti, le greggi ed i pascoli; quali manifatture debbano essere introdotte, quali protette; qoall strade interne riparate, quali continuate ed aperte.

In secondo luogo convien rivolgerci agli oggetti di umanità, di ornamento, di decoro, a quelli cioè che indicano la perfezione delle istituzioni, e rivelano al di fuori la bontà dell’architettura Interna dell’edificio civile. Alla prima classe appartengono lo spedale delle prigioni, gli ospizi, gli orfanotrofi, i luoghi tutti di beneficenza, asilo ultimo della povertà, e spesso della virtù sventurata ; istituzioni ignote alla virtù feroce degli antichi, e che si debbono tutte alla influenza benefica della nostra sacrosanta religioe, che gli aspri dritti di dura padronanza ed i pregiudizi municipali di cittadinanze particolari rivolse benigna in uffizi pietosi di umanità universale.

Ma Il soddisfacimento delle necessità prime, l’utile, il comodo, il decoro non possono mal pienamente ottenersi senza educazione, nè senza rettificar con le lettere la maniera generale di vedere e sentire. Degno dunque lo terzo luogo è di voi, degno del capo illustre di tutta l’amministrazione civile del regno, rivolgerci alla Istruzione pubblica, prendere in cura il collegio, animare principalmente le scuole primarie, aprir quelle delle fanciulle; e considerare che la pace e la quiete, frutto benefico delle cure di un re magnanimo, hanno solo delle buone arti bisogno; e che cara, quanto ingenua, è la bontà nativa di un popolo; ma se questa non è coltivata nè rinforzata da diligente ed uniforme instituzione, ritien sempre un non so che di rustico e di selvaggio, facile a diventare egoista, più facile a farsi Idolo d’un pregiudizio intollerante e spesso sensitivo a segno, ch’ella in fine, degenere dalla sua origine, cade ne’vizi contrari, e giunge a tramutarsi in ferità e in odi funesti. L’elenco de’colpevoli, de’misfatti e de’delitti avvenuti in questa provincia, comechè brevissimo in confronto delle altre, offre la proporzione di 98 a 2 tra gli analfabeti ed i scribenti.
” Viene In quarto luogo la direzione degli effetti ultimi di ogni retta amministrazione, i quali ne sono il frutto e ne formano il compimento e la perfezione. Perfezione sì fatta produce in fine quel sentimento unanime di tranquillo benessere, il quale riunisce tutti come la famiglia intorno al sovrano, tutti far andar spontanei alla osservanza delle leggi. Di questi effetti il segno esterno, e quasi la espressione, è nella ricchezza pubblica e nella popolazione. Quindi, perchè Il buon frutto corrisponda pienamente alla buona coltura, dovete rivolgervi alle cause dell’accrescimento o scadimento della ricchezza pubblica e della popolazione, onde migliorare in modo tutte le parti della vita civile, che si possa mostrar la provincia degna de’nostri antichi e dell’ottimo principe che ne governa. Nè dobbiamo omettere d’indagar le cagioni o personali o locali della esecuzione più o meno esatta, più o meno rapida che le leggi ricevono: termometro infallibile della loro bontà relativa, e dell’attività, dell’integrità, dell’idoneità de’magistrati. Questo è il genere di censura che dobbiamo esercitare. Cosi potrà il governo proporzionare al bisogno la prudenza della vigilanza, la forza della repressione, la magnanimità della protezione, onde prevenir gli abusi ufficiali, regolare il costume pubblico, senza di cui a nulla valgon le leggi ”

Aggiungetevi le relazioni degli spedali; aggiungete i progressi ordinarii delle arti, dell’industria; le tavole delle osservazioni meteorologiche, la condizione della pubblica istruzione, le nascite, morti e matrimonii. Qui ritrovi esatto ragguaglio delle forze di terra e di mare; qui dei legni mercantili, qui delle produzioni delle miniere; talvolta una voce esperta ed amorevole esce ad indicarti gli uffizii e i doveri dei sindaci, quali principali magistrali del comune e quali amministratori delle rendite di esso.
Invitato a collaborarvi ogni cittadino, ne son i lavori sottoposti ad una commissione, che sceglie i degni di pubblicità; e il migliore articolo propone per un premio al Re, il quale ha così un altro mezzo onde conoscere i letterati più meritevoli d’esser assunti a giovare il pubblico negli impieghi.
Perchè la cosa non diventasse meramente municipale,nè, crescesse quello spirito di superbo isolamento che troppo noque al sentimento italiano,promisero i collaboratori tener informati delle opere di maggior grido, e delle scoperte e miglioramenti che nel resto d’Italia e d’Europa si facciano, ottimo spediente ad incitar l’emulazione nazionale.
È d’antica fama rinomata la Società Borbonica, distribuita in tre accademie; la Ercolanese, quella delle scienze, quella di belle arti; e tutte contribuiscono messe abbondante agli Annali Civili, massime le relazioni annuali, che son capolavori, quali possono aspettarsi dalla penna d’un Mooticelli,d’un Avellino, d’un Flaùti.

Quivi anche si registrano man mano le scoperte che si van facendo a Pompei, a Capua la vecchia, a Pozzuoli, in fine per tutto ; giacchè per tutto si può dire che il Regno sia una miniera di antichità, donde gli eroditi vennero ad apprendere, ben meglio che dai libri, la civiltà, e massime la vita interna dei popoli che ci precedettero su questa cara patria.
E qui è bello, sull’onda degli Annali stessi, ricordare il prezioso trovato di rapire al fuoco i rotoli di papiro, scavati ad Ercolano. Quando quella città, per meravigliosi accidenti ehe tutti sanno, venne scoperta, trovaronsi molli cilindri, che dapprima furono gettati come carbone; dappoi si seoprì essere papiri avvol­ tolati. Rise dunque la speranza di recuperare altre parti della eredità intelettuale degli antichi; ma ohimè! il fuoco gli avea carbonizzati; nè le fatiche de’chimici, o le diligenze dell’insigne Mazocchi giunsero a svolgerli, non che a leggerli. Se non che a forza di studio v’arrivò Antonio Piaggi delle scuole pie. Prepara egli una tavola di legno che somiglia al panchino di un legatore di libri in cui sia posto un volume da legarsi, insieme co’ suoi legacci. È appoggiata ad un piede con vite per alzarlo ed abbassarlo a piacere, e su questo piede è un’asse lunga, mobile, dalle cui estremità sorgono due bastoncini rotondi con viti, per poter con essi alzare ed abbassare un’altra asse sovrastante. In mezzo all’asse inferiore, discoste l’una dall’altra quasi un palmo, erano collocate perpendicolarmente due spranghette d’acciaio che di sopra hanno una mezza luna pure di acciajo e mobile, dalla cui parte concava si pone il papiro; e per maggior precauzione quelle mezze lune sono fasciate di bambagia. Queste spranghette possono avvitarsi più alto e più basso sotto all’asse, secondo piace allo svolgitore. Inoltre il rotolo è sospeso a due nastri larghi un dito, i quali, raccomandati all’asse superiore, passano per varie aperture lunghe praticate nell’asse, ad ognuna delle quali è due bischeri eome quelli dei violini, che servono ad alzare ed abbassare il rotolo, acciò questo si possa volgere e girare dilicatamente da tutte parti senza toccarlo. Tra un’apertura e l’altra dell’asse sono altri piccoli bischeri per far girare de’fili di seta. Quando un rotolo è sospeso per essere svolto, se non se n’è trovata l’estremità esteriore, si comincia a bagnare un picciolo spazio della grandezza di un cece, con un pennello morbido intinto in una colla di pesce purificata, che ha la proprietà d’intenerire e distaccare.
Indi allo spazio bagnato della parte esteriore del papiro non scritto, poicbè lo scritto è nell’interno, s’incolla una sottilissima pellicola diafana, della grandezza dello spazio bagnato, o anche vari pezzetti di essa, il che aiuta a distaccare il pezzo del bagnato papiro dal foglio che gli sta sotto, e lascia trasparir benissimo le tracce de’sottoposti caratteri.
Queste pellicole sono di porco o di pecora, e propriamente quelle di cui valgonsi i battiloro; e sebbene sottili, pure a foderare i papiri si sfogliano ancora e si tagliano io picciolissimi pezreUi. Così a poco a poco si va bagnando e foderando il papiro, e quando si è fatto ciò pe1′ la largbezza di un dito su tutta la lunghezza del rotolo, allora con la sles.,a colla si attaccano alla parte fode­ rata i predeUi fili di seta , che poi per via de’ bischeri si tirano I’un dopo I’ altro dolcemente. La striscia di papiro foderato, aiutata eziandio da una punta d’ago, si distacca pian piano dal rotolo, e resta sollevata per mezzo di questi fili. I quali tengono il papire distaccato sempre in posizione perpendicolare, e quando se n’è staccato tanto, che divenga necessario dargli maggior sostegno che i fili, allora la parte spiccata si fa passare per una delle aperture dell’asse superiore, ed a poco a poco, via, via misura che il lavoro avanza, si fa girare, sottoponendovi della bambagia intorno ad un bastone o cilindro mobile, che sta sopra l’asse superiore, sicchè svolto interamente il rotolo, si trova tutto il papiro avvolto al cilindro. Restano però sempre necessarii i fili di seta, che servono a separare la parte di fresco incollata dal foglio di sotto. Quindi con diligenza si toglie il papiro dal cilindro, si distende, e si copia: operazione cosi penosa, che in quattro o cinque ore di lavoro non si viene a capo di foderare o distaccare più di un dito di larghezza di papiro dalla lunghezza del rotolo, e per farne un pezzo largo un palmo si vuole un mese intero.
Per meglio formarsi un’idea di questo lavoro, conviene indicarne le difficoltà, le quali stanno e nella natura della carta e nelle vicende sofferte. In molti luoghi , guardata contro il lume, ella rassomiglia ad un cencio liscio, e questo deriva dall’umidità e principalmente da torrenti di pioggia che, Ercolano, quando fu sepolta la inondarono e la riempirono di cenere. Quell’acqua penetrò ne’papiri ed in molti rimase, e coll’andare del tempo non solo li carbonizzò, ma ne fece marcire i fogli o li corrose. Se questo danno si potesse conoscere prima dello svolgimento, svolgerebbonsi que’soli papiri che avessero sofferto meno. I fogli sono talmente sottili, che quando in uno vi è un buco, il foglio seguente sembra non formare con quello che un foglio solo, e nello stesso tempo riempie ed appiana il buco. Nasce da ciò che, quando si bagna con la colla il luogo forato, essendo questo ben di raro visibile, si stacchi dal foglio di sotto tutto il pezzo bagnato dalla colla e prenda tutto il luogo del buco. Questo produce necessariamente confusione, e nel foglio di sotto, dove lo spazio probabilmente era intero, si forma una lacuna. Non meno pericoloso è il lavoro alle commessure de’pezzi di papiro incollati un su l’altro; poichè quando la commessura vien separata mediante la colla, può facilmente accadere che questa filtri di mezzo alle commessure fino al foglio seguente, e ne attacchi un pezzo al foglio superiore su cui si lavora, e lo disgiunga dal foglio cui appartiene. Vedete se sia possibile il far presto.
Una delle più malagevoli operazioni è pure il fissare una linea lungo il carbonizzato papiro, donde fatta un’incisione,cominciare lo svolgimento. Questo si fa tenendo conto delle parti più o meno consistenti; che se per mala ventura quel taglio giungesse a danneggiare la scrittura, allora la scissa pagina debbesi incollare, in guisa che combaci perfettamente, o lasci almeno abbastanza vedere come camminino i tratti alfabetici. Spesso ancora trovasi o qualche pezzetto così fragile da svanire all’istante, o qualche picciolissima lacuna, ed in tal caso è duopo somma destrezza nell’incollar le pellicole per modo, che non si appiglino al sottoposto foglio. E nell’incollamento istesso grande esser debbe il giudizio ed il sapere dello svolgitore per accorgersi dove convenga più o meno di colla usare; il che vale soprattutto quando i diversi strati del papiro s’incontrano agglutinati già anticamente per comporre il foglio; si che somma sciagura sarebbe se, invece di staccare un foglio dall’altro, restassero divise le parti che un foglio medesimo compongono. Pure talvolta tutte queste operazioni escono indarno, quando il papiro al menomo tocco cada in polvere, o quando sia del tutto impietrito. Al descritto congegno, e a certi suffumigi introdotti dal Lapira siam debitori di scoperte letterarie ed archeologiche.
Diversi tentativi fece far Napoleone da Davy e dall’orientalista Sickler; ma uscirono a vuoto, e si tornò sul metodo antico. Che se a dir vero non uscirono finora opere capitali, che gran fatto crescessero le cognizioni intorno al sapere od allo incivilimento antico, ingiusto sarebbe il disperare ( L’opera ch’io credo più importaote è Il “Libro di Filodemo per conghietturare in qual modo vivano gli dei secondo Zenone” edito per le cure del dottissimo monsignore Scolli , prefetto alla biblioteca borbonica).
Altrettanto non fu sinora degli studii attorno all’etrusco e alle vetuste lingue italiche? non siam ancora al buio di ciò che riguarda i geroglifici egizi, malgrado i tre o quattro sistemi di spiegazione proposti?
E giovi sperare che a Pompei abbiasi pure a disotterrare una biblioteca pubblica, o qualche bottega di libraio, la quale basterà bene a compensare le insistenti fatiche e la continua spesa che si fa attorno al resuscitare quella città da 18 secoli di sepoltura (Veramente la scoperta del musaico più magnifico dell’antichità e del bellissimo vaso di vetro storiato, bastano a ristorar di qualunque fatica, e crescono lode all’architetto Bianchi, sotto la cui direzione furono trovati.)
E già compensati furono i danari spesi per isgombrare il maraviglioso anfiteatro di Capua, degno riscontro al Coliseo di Roma, e che anzi colpisce di maggior meraviglia perchè trovasi in una città provinciale, non nella metropoli del mondo, e che fornì agli archeologi nuovi argomenti a conoscere, meglio che non si potesse dal romano, la distribuzione degli anfiteatri antichi, massime rispetto agli ipogei, mancanti nel Flavio. Altrettanto potremmo dire dell’anfiteatro di Pozzuoli che si viene discoprendo (Questo tempio fu scoperto quando già entrava in onore l’archeologia: eppure, invece di conservarlo gelosamente come si farehbe ora, venne dilapidato per ornarne edifizi nuovi, e massime la reggia di caserta, ove Vanvitelli fu ben lieto di recare le bellissime colonne alabastrine che oggi adornano il teatro di legno.),e del vicino tempio di Serapide, indagine curiosa per gli antiquarii, ed ancor più pei naturalisti, che non convengono del come dar ragione dell’esistenza delle conchiglie marittime che forarono le colonne ad altezza tanto superiore al mare (Il mio illustre amico Carlo Babbage, un de’ più grandi matemaUtici del mondo, recò un’opinione nuova intorno a quello strano fenomeno. Vedi “abstract of a paper entitled Observations on the temple of Serapis al Pozzuoll, with remarks on certain causes which may produce geolical cycles of great extend, by Charles Babbage, esq”).
Ma nuovo genere di ricerche e scoperte in questi ultimi anni sooo i vasi, che vollero dire etruschi, poi campani, poi italo­greci,o siculi. Le prime scoperte del principe di Canino fecero stupir il mondo; e le deduzioni ch’egli s’affrettò a trame non contentarono se non la turba degli eruditi di seconda mano, che ne fecero fondamento di aerei edifizii intorno alle origini italiche e alla primitiva civiltà della patria nostra. Ecco intanto nuovi ipogei fornirne ben tosto altri, e non più in Etruria (Un Ipogeo appena dischiuso ho veduto a Perugia, intorno al quale ha scritto Il Vermiglioli.); e le forme simili e non eguali, e le nuove storie, e le mitologie nuove, recar l’uomo a tempi anteriori alla greca civiltà, e dar un significato di più solida espressione al nome di Magna Grecia. I tesori di Canino andarono dispersi (La più parte ne fu recata al museo britannico ); ma si arricchì invece straordinariamente il Museo Borbonico, il più dovizioso certo del mondo; e alcuni vasi della collezione di Canino qui posti per confronto , cedono la mano ai nolani ed agli altri scoperti nel regno. Una lautissima raccolta se n’era fatta da un privato ; ed una corte straniera era riuscita ad accaparrarsela a grosso prezzo; quando il ministro accorse, e volle che questo nuovo crescesre il tesoro del museo pubblico, il quale or vanta certo i vasi più grandi epiù belli del mondo, come già aveva la maggiore, se non la migliore quantità, di statue, e specialmente di bronzi. È quel ministro stesso (D. Niccola Santangelo) a cui è dovuta la creazione degli Annali, e che nella propria casa raccoglie e quadri d’immenso pregio ( basti accennare un disegno originale del Giudizio di Michelangelo), e una stupenda serie di vasi, olle , lampade , coppe, non seconda che alla borbonica; ciò poi che è unico, una
collezione di medaglie italiote, che sarà un immenso arricchimento non all’Italia solo, ma alla universale erudizione, quand’ esso ne vorrà pubblicare la descrizione.
Noi andiam via via recitando quel che alla memoria e alla penna ci corre; ma chi di queste e d’assai più cose volesse avere contezza piena e precisa, ricorra agli Annali Civili,documento ormai indispensabile alla storia di quel regno. Ivi si troveranno distese informazioni sull’origine e sui procedimenti degli scavi di Erco­ lano e Pompei, e degli altri che seguirono; ivi le preziose disquisizioni del cavalier Tenore, intorno a vegetali o nuovi o non più descritti dell’orto botanico cui con tanta lode presiede:ivi una relazione sui tremuoti di Calabria del 1838 ricorda quell’estesa che dagli antichi fu fatta, e che il Botta travasò nella sua storia d’Italia. E vi fa bella compagnia la dottrinale e pittoresca contezza sulle eruzioni del Vesuvio, fattura del signor F. Y. (Gli articoli sono anonimi, o segnati di iniziali, che fuor del regno, e talora nel regno stesso, sono un problema e spesso un indovinello. Articoli semiufficiali vorrebbero avere anche la garanzia d’un nome riverito e fededegno. Chi sappia che Il B. Q. è l’insigne archeologo Quaranta, quanta fede non aquista al modo suo di vedere i monumenti antichi e alle spiegazioni che ne dà? Nolabilissimo è il suo Viaggio archeologico nella parte meridionale d’Italia, inserito in questi medesimi Annali).