Monica Mazzitelli – “Di morire libera”

ho aspettato anni perché una scrittrice si allontanasse dal clichè della rappresentazione mielosa di Michelina! ho avuto pazienza perchè sapevo che ci avrebbe pensato Monica! E, se non lei, chi altre?

Valentino Romano



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michelina de cesare (1)

Non sono quella della foto in posa
Non cercatemi nelle foto scattate con il vestito paesano, con il fucile in mano e il revolver, io non sono quella. Io sono quella della foto morta ammazzata, con lo zigomo sporco della terra su cui mi hanno trascinata, con le pallottole sparate sulla schiena che non vedete, quella a cui hanno sputato in faccia, a cui hanno sfilato i pantaloni, larghi in vita per far posto alla mia pancia per la terza volta gravida; quella a cui hanno strappato di dosso la camicia fradicia di pioggia e che hanno messa in piazza. Nuda per tutti, uomini e donne, bambini.
Sono quella che non voleva una vita sottomessa. Sono quella che non ha potuto crescere i suoi figli. Non abbiate pietà di me, la mia vita l’ho scelta e l’ho vissuta, e sapevo pure come sarebbe finita. Andava bene anche di morire, ma di morire libera.

 

michelina de cesare (2)


Caspoli – Terra di lavoro
6 febbraio 1861
«Michelina, vien’ accà!»
«Che c’è mammà?»
«È venuto don Pietro Tanca.»
«Eh. Che vuliva?»
«Maritare suo figlio.»
«Rocco, lo tisico?»
«Ne tiene forse altri?» spazientita.
«Rocco.»
«Eh.» Scrolla le spalle.
«Va buo’.» Michelina prende la porta con un cesto in mano.
«Magari la smettete d’arrubba’ in giro tu, tu’ fratello e tu’ cuggino! In prigione finite!» Le strilla dietro sua madre.
Scoppia a ridere e le grida senza girarsi «Eh, ma perché, che s’è fatto carabiniere Rocco? Mammà, qua finché s’ha da magna’ s’ha d’arrubba’.»

Tre tavoli apparecchiati senza tovaglia non collimano; a uno si è rotta una zampa nel trasporto e sta in piedi sbilenco per due sgabellacci messi sotto in pila. La pioggia ha sconnesso il cortile, lasciato solo sassi e fossi. Le famiglie tirate a festa intruppano i gomiti, gli anziani inciampano il cucchiaio nella minestra; i due bambini della cognata rosicchiano l’osso dell’ala del pollo. Non piove, ancora.
«Eh beh.. Ringraziando lo Signore.»
«Era bona la gallinella eh?»
«Je l’aggio tirato io lo collo a issa, ca lo sposo mio s’impressiona» e scoppia a ridere che pare sbronza, Michelina.
«C’è venuto bono lo brodo.»
«Sì… ma mo si fa tardi, portiamo a casa nonna Vincenzina. Vincenzi’!» grida sua madre verso l’orecchio della vecchia.
«Che c’è?»
«Andiamo a riposa’, Vincenzi’»
«Nun sento!»
«A casa, Vincenzi’!»
«Sì! A casa!» annuisce la vecchia contenta.

Dall’altro lato del letto Michelina si spoglia e lo fissa senza abbassare lo sguardo. Una sfida? E cosa vuole quella faccia piena di zigomi, deve guardarla o girarsi?
Si gira; scioglie il nodo dei pantaloni. Li piega bene sulla sedia. Nel letto entra con la camicia. Colpo di tosse. Michelina si gira e lo scruta. Che vuole, raspargli gli occhi? ‘Sta donna non la smette più di guardare.
Abbassa lo sguardo, tossisce ancora.
Alla fine deve chiederglielo «Chiudi gli occhi Michelì» Ma lei li lascia aperti, e si gira verso di lui.
«Sai legge’ tu?» Punge col gomito il materasso di paglia, il suo seno sconcio dondola.
«Poco.»
«Mm.» fa lei.
«Mo smorz’ ‘a luce.»
Ma fuori è ancora chiaro e Michelina ha un sorrisetto da ladra.
Adesso deve fare il suo dovere. Chiude gli occhi, si concentra. Poi si gira verso di lei e la mette sotto, il padre gli ha detto come, che lei avrebbe fatto gli urletti; ma Michelina sta zitta. Socchiude gli occhi per guardarla e intravede che lo sta fissando dritto in faccia. Solo fissarlo, senza emozione. È vergine? Forse sì, fatica entrare. Dà qualche colpo di reni e si sente avvampare il viso. Vergogna e piacere, viene subito. Michelina si rimette la camiciola: «Io saccio anche scrivere.»
Roccamonfina – Terra


Caspoli – Terra di lavoro
28 aprile 1862
Diciassette persone in chiesa, contate. I ritardatari sull’ultima panca. Michelina li guarda a occhi asciutti. Troppo pochi per un funerale. Colpa di Rocco, o sua? Anche Cristo sulla croce a occhi bassi; nenia del prete, rabbia nei denti. Non tutti vengono fino allo scavo. Raddrizza la croce che pende sulla fossa e si pianta una scheggia nel dito.

“E mo?” distesa sulla paglia. Si sfila la fascia dai capelli e lascia cadere. Il soffitto affumicato nasconde le crepe ma col temporale la pioggia le sbatte in faccia.

Ancora governare per Pietro Tanca che è vecchio, con la cognata vedova e i due bambini; è rimasta da loro a aiutare invece di tornare a casa da sua madre. Giorno zappare, di notte in giro. Pecore, galline, conigli, coltelli e mani nude su pelo che trema, scatti di gomiti e polpacci, terra arida sugge sangue che cola. Spesso con il fratello Mimì e col cugino Giovanni, a volte sola, di notte, come una strega. Sente odori e fruscii, gli uomini sono nella macchia; misteriosi, furtivi. Gli lascia delle cose. Galline, uova, un coniglio, un quarto di pecora.
Comunicazione segreta del 29 aprile 1862
Illustrissimo,
Le masse di Guerra e Fuoco hanno ricevuto dieci nuovi fucili e mille ducati da parte della tesoreria di Francesco II.
Gli sono stati fatti pervenire tramite corriere diplomatico per Napoli.
Umilmente Vostro
Adolfo
Caspoli – Terra di lavoro
11 maggio 1862
Quel fetente di don Nuccio che lo sanno tutti che mette le mani addosso alla figlia non ha agganciato bene gli scuri della finestra di cucina stanotte: è bastato un mignolo per sollevare il fermo; schiocca le labbra con disprezzo, Michelina. Dentro, profumo asciutto di farina; gli prende solo una pagnotta e il quarto di caciotta rimasto sulla credenza; li involtola in uno strofinaccio piegato sulla sedia accanto e se la squaglia: ha sentito il fruscio di don Nuccio che prende in mano lo schioppo, al piano di sopra. Quel coglione non centrerebbe una pecora a dieci metri, figuriamoci un gatto come lei. Ridacchia mentre scavalca il muretto; don Nuccio comincia a sparare, ma nella direzione opposta alla sua.
Va mica al paese Michelina: quella cena è per qualcun altro, che la prenderà – lei lo sa – sul solito muretto di pietra al limitare del bosco. Appoggia lo strofinaccio bianco sui sassi, splende alla luna; stavolta vengono subito. È lì che lo rivede in faccia.
«Michelina sei. Tuo fratello ha mandato te stanotte?» La guarda con un sorriso sbieco e viene avanti dalla boscaglia, poi si gira verso figure ancora invisibili dietro di lui, a spalla sciolta. «Eccolo qua l’angelo nostro» una nota bassa nella voce, che vorrebbe atteggiare a padrone.
«A me non mi manda nisciune. Vi è piaciuto il coniglio dell’altro ieri don Ciccio?»
«Sì. Di più se era quello del prete.» si sorridono.
«Eh già, da che l’avete riconosciuto?»
«Che era grasso com’a lui.» Risate. «E stanotte che ci portate Michelì?»
«Del mangiare che non si còce, co’ ‘sta luna piena ci potrebbe essere qualche carabiniere in giro, meglio non fare fuochi.»
«E brava Michelina, tu sì ‘na faina.»
Dal bosco esce un altro uomo, poi altri tre, quattro. Francesco Guerra con la sua giacca da capitano, e l’oro dei suoi orecchini scintilla. Gli altri con mantelli sopra le giacche di castoro, lembi di bluse livide spuntano da sotto. Solo Francesco ha due pistole e un fucile, gli altri chi uno schioppo, chi una pistola. Oltre ai coltelli, certo.
«Michelì, ve lo posso dare questo pacchetto? Ce lo portate a mia madre?» È un biondino che parla, ha gli occhi chiari che nel buio sembrano trasparenti.
«Salute Carlo, come state? Certo che glielo porto, ma che c’è dintr’?»
«Niente, ‘na cosa ch’aggio fatto io.» Abbassa lo sguardo «E ci portate i miei saluti.»
«Volentieri Carle’»
«Aggio saputo di Rocco, vostro marito… mi dispiace.»
«Teneva le febbri. Ma era nu brav’omo.»
Mignano – Terra di lavoro
Il giorno successivo, 12 maggio 1862
Il comando dei Carabinieri Reali è insediato nel castello di Mignano. Il tricolore con lo stemma sabaudo nel mezzo oscilla un po’ fiacco al modesto vento di maggio. Sotto la bandiera lo scudo comunale a righe gialle e rosse è sbiadito.
Il capitano Cuniberti è in piedi vicino alla finestra; di fronte a lui un uomo sulla quarantina, l’abito scuro nasconde qualche macchia di inchiostro.
«“Si rammenta quindi alla popolazione di Mignano e comuni limitrofi” che dite Di Domenico, lo ripetiamo “comuni limitrofi” o non serve?»
«Capitano, se dobbiamo mettere tutto il preambolo tanto vale che usiamo il carattere più piccolo e ci facciamo stare tutto.»
«Ma insomma ve l’ho detto maledizione! Qui sono tutti semi-analfabeti, più grande è, e meglio è!»
«Signor Capitano, accà so’ talmente pochi quelli che sanno leggere che non cambia niente, i pochi che sanno leggeranno per gli altri, non state preoccupato.»
Con quattro passi calcati Cuniberti torna alla sedia, scrollando la testa «Che luogo di mondo, questa sarebbe l’Italia! Pezzenti, morti di fame, analfabeti. Come gli insegneremo a esser civili? “Terra di Lavoro” si chiama, ma questa è terra di fame e ignoranza!» Il tipografo abbassa lo sguardo. «Allora perdio, anduma anans!» Fa un cenno al tipografo di rileggere.
«“Si rammenta alla popolazione di Mignano e comuni limitrofi”.»
«Esatto!» Si carezza la barba brizzolata: «“che chiunque sia sorpreso a intrattenere contatti con briganti o banditi di qualsiasi genere, per qualsiasi motivo, anche se… se membri della propria famiglia, verrà punito con l’arresto e processato come manutengolo. Si fa divieto” anzi, “Si fa espresso divieto di fornire qualsiasi tipo di genere alimentare” si capisce così?»
«Che cosa?»
«“Genere alimentare”.»
«Capita’, “genere alimentare” si capisce» scocciato.
«“Genere alimentare o altri beni, ai suddetti fuorilegge” punto. E qui mettiam la firma del Maggiore, va bin? Abbiam detto tutto?»
«Dovete dirlo voi…»
«Sì via, andiam così che ora ho da fare altro, portateli dopodomani.»
«Ma è domenica!»
«E già, il giorno del Signore no?» Apertura di porta imperiosa: il Maggiore Gioda. La pelata gli splende di sudore, ha fatto due piani di scale e lo sottolinea sbuffando. Mentre Cuniberti si alza e batte i tacchi Di Domenico si solleva mestamente dalla sedia «I miei umili omaggi, Maggiore.»
«Chi siete voi?»
«Il tipografo, Signore.»
«Mi raccomando: scritti grandi i bandi che qui la gente non sa leggere!»
Di Domenico sta per ribattere ma poi abbassa ancora il capo «Come discusso con il Capitano. Omaggi.» mormora raggiungendo la porta.
«Ma sì, ma sì, allez vous!» Lo congeda sventolando il braccio senza guardarlo più «E voi Cuniberti, dov’è la lista delle sospette?»
«Eccola qua Maggiore, è quasi pronta. Sette donne a Mignano, cinque a Caspoli, tre a Galluccio, e una a Campo.»
«Quanti uomini abbiamo a fare sorveglianza adesso?»
«Sei.»
«Troppo pochi, parbleu!» Schiaffo alla scrivania «Ne servono tre a Mignano, tre a Caspoli e almeno due tra Galluccio e Campo. Ma è la notte che devon girare, capito?»
«Signorsì Maggiore.»
«Ora che è estate, almeno fino all’una di notte, va bin? Faccia i turni!»
«Signorsì Maggiore.»
«Quel grossé del sindaco è venuto anche adesso a fare le lamentele per i furti nei pollai, dice che non si può uno al giorno. A me lo dice?» Si batte il petto: «Mi son piemonteis!»
Galluccio – Terra di lavoro
La stessa sera, 12 maggio 1862
Michelina e suo fratello Mimì sono appostati nell’oscurità da mezz’ora, dietro la stia. Il cane non abbaia: gli ha portato un pezzo di pane secco e due carezze. La casa è buia tranne il riquadro della finestra accesa al primo piano.
«Ma che fa chista stanotte? Sta sempre a legge’?»
«Beata a lei, a me me piacesse legge’, ‘a sera, ma dai Tanca nun se po’.»
«Ma che legge’! Un libro solo c’hai, e te rileggi sempre a isso!»
«E quello solo m’ha potuto da’ Don Gino… Era tanto bravo, teneva tanta pazienza a impara’ a legge’ e scrive’ ai piccirilli. Chello sì che era nu prete pe’ davvero, no come Don Peppino.» Schiocca la lingua. Poi con voce bassa: «Diceva ch’ero brava, che doviss’ studia’…»
«Studia’! A Michelì! Tu dovisse impara’ a cucina’ che nun sì bona!» Lei gli da una gomitata. «Oh, piano, che sì scema? Ma che è ‘sto libro ca leggi sempre?»
«Te l’aggio ditto Mimì, è la storia di nu cavaliere che si chiama Ivanoè»
«Mhm… E che fa? Accoppa tutti?»
«Tiene molta intelligenza, nun c’ha bisogno d’ammazza’ tanto.»
«Aggio capito: è nu cacasotto.» Scoppiano a ridere coprendosi le bocche con le mani e facendosi segno di smettere.
«So’ cinque minuti che ha spento il lume, prendi il telo, io apro la stia.»
«Aspietta nu momento ancora, magari nun dorme.» Le appoggia la mano sul polso.
«Don Ciccio ci sta a aspetta’, jà!»
«Michelì, una cosa è portargli da mangia’, da vesti’, i munizzioni… lo sai, te l’aggio ditto io che ‘o tenimm’a fa’. Ma tu mo vuoi anda’ lì tutte ‘e sere, è pericoloso! Chiste so’ cose da omini, ‘o capisce tu?»
«Ce stai a penza’ vero? Da i’ co’ loro? E le fimmine a casa.» Scrolla il braccio per liberarsi dalla sua mano e con le sopracciglia aggrottate tira fuori il coltello per scassinare la chiusura della grata.
«Pecché nun ce l’hai voluto a Giovanni stanotte?»
«Lo saccio io pecché.»
«Ma è nostro cugino!»
«Appunto, se l’imparasse pure lui.»