Da: “STORIA del Risorgimento Italiano di Piero Mattigana”

 

 

 

Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “STORIA del Risorgimento Italiano di Piero Mattigana” VOL: III Milano

cap VIII

Pag,322 a 331 CAPITOLO VIII.
COPERTINA VOL III pag 331 Storia_del_risorgimento_d_Italia_dalla_r[…]Conviene confessare che il programma di San Martino era prima di tutto un programma rispondente alle tradizioni napoletane e quasi ispirato al genio del luogo.
Ma intanto il luogotenente domandava soldati, sempre soldati, egli che non voleva chiedere al paese se non la quiete e la conciliazione.
Purtroppo in breve giunsero novelle che spiegavano a che riuscissero i successi e gli occheggiamenti del conte di San Martino. I borbonici cospiravano: egli, celebratissimo per penetrazione e per astuzia, o non credeva, o, per far bene la parte sua di conciliatore e di redentore, mostrava di non credere o d’aspettare le contrizioni dei peccatori.
“Ma cogli scribi e coi farisei, dice in proposito un cronista, neppure nostro Signore profanò la misericordia. Cortigiani e mariuoli, mentre sorridevano al benigno luogotenente, preparavano e fomentavano la guerra civile, anzi, a dir più veramente, la guerra servile; con questo di peggio che la combattevano atrocissimamente schiavi i quali cercavano per sè non la libertà, ma l’impunità, e volevano per gli altri la schiavitù. Quando un governo trovasi a fronte di queste condizioni, la penetrazione benevola e sorridente che cerca eludere il pericolo dissimulandolo, può diventar essa medesima un grande pericolo. San Martino dimenticava che la nazione si sentiva forte, ch’essa voleva vedere in faccia il destino e che nessun’altra cosa temeva maggiormente che il lasciarsi andare, fosse per un solo momento, alle illusioni”.
Il governo centrale si accorse dell’errore del Ponza di San Martino, e pensò a bilanciarne la debolezza col mettergli ai fianchi, con estesi poteri per la repressione del brigantaggio, ripullulato per la sua dolcezza, il generale Cialdini. Ciò fece andare sulle furie il pacifico luogotenente. Richiese quindi poteri pienissimi e autordi maneggiare a sua posta anche le cose militari.

Non tollerò l’invio del generale Cialdini, potere, com’ei disse, parallelo al suo, e piuttosto offerse la sua dimissione, che venne accettata. Del resto dalla stessa sua pretensione risultava la contradizione in cui versava. Come infatti spiegare l’antitesi tra il giudizio che i mali di Napoli non fossero difficili a medicarsi e che loro cenvenissero i farmaci blandi e le vie ordinarie, e la pretensione che i poteri della luogotenenza s’accordassero larghissimi e straordinari; e il Ponza di San Martino veniva perciò richiamato, e gli fu sostituito il vincitore di Gaeta, come luogotenente di Napoli, con a fianco il conte Gerolamo Cantelli pel disbrigo delle cose amministrative.

I frutti della condotta di San Martino si riconobbero ben presto dalla estensione del brigantaggio, che pose il suo centro in Roma, incoraggiato dalla tolleranza del luogotenente.
Marco Monnier ne dà un’idea delle cospirazioni borboniche, aventi capo in Roma. Li dirigeva il conte di Trapani, zio del re, che presiedeva il comitato generale borbonico, sotto il pseudonimo di Associazione religiosa.
Come ministro della guerra lo assisteva il giovane conte di Trani, fratello del re, e come segretario il generale Clary. Un comitato centrale risiedeva a Napoli ; altri negli altri capoluoghi. I comitati componevansi di un presidente monito di estesi poteri e di un diploma stampato, spedito da Roma; di un segretario incaricato di attuare le comunicazioni cogli altri comitati; da una specie di cancelleria che autenticava colla sua firma le copie; di otto decurioni i migliori e i più influenti sul popolo; d’un cassiere generale e di quattro censori, necessariamente preti, per sorvegliare l’amministrazione della cassa e gli atti degli affigliati ; infine, di otto deputati, coll’ufficio di soccorrere i poveri.

I comitati arruolavano e assoldavano gente che facesse insorgere le comuni vicine al confine. Le bande erano condotte da un capo, munito di un brevetto, che lo facesse riconoscere dagli altri capi-banda e che sarebbe stato più tardi un titolo alla riconoscenza del governo instaurato. Ecco la formola del giuramento dei banditi: “- Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II, e promettiamo di concorrere con tutta la nostr’anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che ver­ ranno, sia direttamente, sia per i suoi delegati, dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affanchè la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore dei sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro santo padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degl’increduli, dei perversi, dei pretesi liberali, i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono de’suoi antenati. Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della santa Sede e di abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emmanuele, e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo”.
– Queste informazioni sono certe e si hanno dalle confessioni dei prigionieri. Roma era la fucina delle cospirazioni e tendeva cosi ad impedire l’assodamento del nuovo regno e ritardare l’ora della propria caduta.
I rami di questa cospiraziooe si estendevano a Napoli e nel regno. A testa della reazione in Napoli era il cardinale arcivescovo, monsignor Riario Sforza, il quale ri­ fiutava il suo concorso a tutto quanto avrebbe potuto pacificare il paese. I preti poi che favoreggiassero la causa nazionale erano da lui perseguitati o sospesi a divinis. Cosi i preti, gente debole quant’altra mai, era costretta a cospirare per conservare il beneficio e la messa. Anche il giornalismo aiutava l’opposizione, sorda, cieca, instancabile. E il luogotenente col suo falso sistema di conciliazione lasciava fare e irritava la parte garibaldiana o popolana, sdegnosa di vedersi posta in obblio mentre i clericali ed i borbonici avevano l’impunità ed erano perfino accarezzati. I borbonici, intesi a metter esca dapertutto, soffiavano nei loro rancori e raddoppiavano il malcontento. Ma il buon senso dei Napoletani la vinse sulla debolezza del luogotenente, sulle mene dei borbonici e sulle impazienze e sui rancori dei garibaldiani. Sopratutto l’Italia deve molto al patriotismo della guardia nazionale di Napoli.
Se Napoli non insorse, anzi tenne fermo, il brigantaggio si diffuse nelle borgate, che furono maltrattate sotto la luogotenenza del conte di San Martino, il quale
nel suo sistema di conciliazione non avrebbe voluto combattere apertamente i briganti, ma solo renderli innocui coll’apparato delle forze; ma queste mancarono. Egli avrebbe voluto sessanta battaglioni per correre su tutti i punti dell’antico regno. Avrebbe fatto da prima spazzare la pianura, indi cacciato i briganti sui monti; attaccati da tutti i punti e circondati, secondo il suo cervello, avrebbero dovuto arrendersi.
Intanto che le forze si domandavano e non erano spedite, il brigantaggio alzava la cresta dovunque. I tempi lo favorivano; mancava e pane e lavoro. Bisognava vivere, e il mestiere d’insorto fruttava molto denaro.
I curati spingevano alle rapine; si serviva una causa santa, e dopo l’era della conciliazione non si metteva a repentaglio la vita. Le fucilate erano cessate; si poteva dunque assassiaare a bell’agio. D’altronde si faceva credere alla morte di Garibaldi e a speranze di soccorsi dall’estero. Gli stessi briganti facevano propaganda colla paura ed uccidevano chi non li accogliesse con festa. Le città e i villaggi grossi resistevano, ma le borgate desolate, derelitte, arrendevansi senza resistenza. Anzi la plebaglia abbietta in certi luoghi non vergognossi di prestar man forte ai banditi e d’indicar loro le case dei ricchi.
Il sindaco in questi tempi di riconciliazione non risicava altro che d’essere destituito se faceva buona accoglienza ai pretesi borbonici; all’incontro poteva essere bruciato vivo, aver la casa incendiata: fra i due mali sceglieva il minore. Dopo il saccheggio, diceva al capo della banda: Ora bisogna che faccia il mio dovere di publico ufficiale; chiamerò i Piemontesi perchè vi scaccino; – e il capobanda rispondeva: – Fate pure.
– Quando i nostri giungevano, i briganti scomparivano, e il sindaco vantavasi di averli posti in fuga. Così sotto la luogotenenza San Martino il brigantaggio si spargeva per tutta l’estensione del ex-reame. Sarebbe un fuor d’opera l’accennare tutti i singoli fatti di brigantaggio occorsi nel maggio e nel luglio di quest’anno; sarebbe impossibile e tedioso il narrarli, oltrechè desterebbe raccapriccio nei lettori. Basterà per tutti il narrare i fatti di Montemiletto.
Cacciate dalla Terra di Lavoro per una brillante spedizione del generale Pinelli, le bande eransi raccolte intorno ad Avellino con una specie di furore. Sessanta briganti all’incirca, seguiti dai soldati sbandati, da contadini armati di fucile, entravano il 7 luglio in Montefalcione, al grido di Viva Francesco II. Dopo invadevano Montemiletto, Candida, Chiusano, e minacciavano la stessa Avellino, difesa dal governalore De Luca, uomo di zelo e di energia.

Pagine da 351 FOTO VOL III pag 331 montemilettoIl paese si trovò abbandonato a sè stesso.
Il capitano della guardia nazionale, Carmine Tarantino e il sindaco arciprete Leone, con cinque soldati e poca milizia nazionale, costretti a ritirarsi da Montefalcione, si rifuggirono barricandosi nel palazzo Fierimonte. La plebaglia unita ad un rinforzo di briganti assale il palazzo col grido: Viva Francesco II; Tarantino e i suoi rispondono: Viva l’Italia. La resislenza è inutile; i banditi fanno cadere la porta, entrano e tolgono miseramente la vita a quegl’infelici. Non fu che più tardi che il De Luca riusciva col mezzo di soccorsi a fugare i briganti e a rendere pace alla scompigliata provincia.
Ponza di San Martino ritiravasi, e Cialdini subentrava. Era evidente che il brigantaggio, la reazione borbonica avevano assunto il carattere di una vera guerra. Da Roma veniva l’impulso: il movimento era simultaneo su diversi punti; si vedevano le file, le vestigia di un vero sistema ; si accennava a Napoli, alla capitale. Il Borbone, aiutato dal papa, volle un’altra volta sperimentarsi in una lotta contro l’ Italia. Il governo comprese allora che il brigantaggio doveva essere trattato come una vera guerra, concentrando le forze e l’unità del comando nelle mani di un generale.
L’opinione publica a Napoli ed altrove comprese rapidamente la mutata necessità delle cose, e se vide dipartirsi con dolore il San Martino, accolse di buon grado il Cialdini, e lo spirito publico si raccolse d’attorno a lui, e gli animi si rialzarono.
Appena giunto a Napoli, il generale Cialdini non esitò a formulare il proprio programma, il quale era: operare energicamente contro i nemici del paese, contro la re­ staurazione selvaggia del vecchio dispotismo, del sistema politico fondato sull’intrigo, sulle galere e sulle spie; valersi a quest’uopo di tutte le forze vive del paese, domandare il concorso di tuUi gli uomini di buona volontà, fedeli al concetto della libertà e dell’unità nazionale. Ma non mancò d’ispirare paura ai rivoltosi ed annunziò che voleva colpire non solo gli assassini, ma anche i cospiratori, dicendo: “Quando il Vesuvio rogge, Portici trema.” Era un’immagine ed un’allusione. Portici, piccola città alle falde del vulcano, le eruzioni del quale la scuotono, era un ricettacolo di cospiratori borbonici.
Il generale Cialdini era l’uomo adatto alle circostanze; un condottiero pieno d’ardire, un vero generale francese. A cinquant’anni ha percorso tutta la carriera che un soldato può battere in Italia. È generale d’armata, fu luogotenente del re a Napoli, il posto più alto cui uomo possa elevarsi.
A sedici anni egli combatteva nell’insurrezione delle Romagne; era stato in Ispagna: a Milano, in Crimea, nel Tirolo; avea sbaragliato Lamorcière, preso Ancona, Gaeta, Messina. Era un po’impopolare pe’suoi dissensi con Garibaldi, pur la sua venuta fu salutata con plauso.
Al suo apparire, il gran partito della paura divenne favorevole a Cialdini. L’opposizione si acquetò; i giornali che non volevano cangiare linguaggio vennero seque­ strati; la cospirazione fu anche colpita nel cuore e nella testa, essendo stato sorpreso un conciliabolo a Posillipo, per cui vennero arrestate delle altezze a Portici ; in un sol colpo caddero nelle mani della questura venti generali e molti prelati; zuavi pontificii e legittimisti francesi accolti a Napoli a far propaganda vennero esigliati; lo stesso De-Cristen fu posto in prigione. L’arcivescovo Riario Sforza fu messo a forza in una nave e inviato a Roma.
Cosi il partito borbonico fu abbattuto.
Restava il partito d’azione, più pericoloso, perchè più popolare. Messo da parte, disgregato, Perseguitato dalla consorteria ministeriale, continuava a vivere e crescere ogni giorno in grazia degli errori del potere e del popolare malcontento. Sembrava che costoro dovessero essere avversi a Cialdini, e invece furono i suoi più risoluti fautori. Cialdini avea saputo guadagnarseli collo stendere loro la mano. Non che sognare una conciliazione impossibile fra i liberali ed i retrogradi, decretò una coalizione necessaria di tutti gl’Italiani contro i borbonici. Chiamò a sè gli uomini più avanzati, i garibaldiani, i republicani stessi, e li spinse insiememente contro il nemico comune. Usò ad essi anche qualche condiscendenza e tra le altre sacrificò il segretario Spaventa, uomo molto abile, ma impopolare.
Ma non lasciò che rigurgitassero, e quando si credettero abbastanza forti di armare delle bande di quattromila uomini, li imprigionò, li disperse-. Voleva in essi dei sostegni, non un inciampo. Accettò anche il concorso della guardia nazionale, e anzi in ogni distretto ordinò due compagnie di guardie nazionali mobili.
Forse bastavano i soli soldati, ma era utile l’interessare il paese in questa lotta, per mostrare all’Europa che l’esercito non era solo, ma aveva anche il concorso del popolo. Sopratutto si rese popolare col rendere un omaggio alla memoria di Garibaldi, idolo di quelle popolazioni; e quando il municipio organizzò la festa del 7 settembre, anniversario dell’ingresso dell’eroe in Napoli, Cialdini dichiarò che gli era stata tolta la sua idea. Per tutte queste cause egli fu amato in Napoli ed acclamato come il Garibaldi.
Guadagnatosi l’affetto e la fiducia delle popolazioni, Cialdini si volse all’esterminio dei briganti, ma anch’egli non fu più fortunato degli altri. Egli cominciò dal dividere le bande. Occupò il territorio tra Avellino e Foggia, ristabilì le comunicazioni con l’Adriatico e isolò i briganti del mezzogiorno. Quindi nelle Calabrie-, e segnatamente nel distretto di Cotrone, ove eransi rifugiati, fu facile distruggerli. Gli stessi proprietari si posero alla testa dei loro contadini e delle loro guardie armate, percbè là specialmente la guerra civile era un pretesto alla guerra sociale, era una sollevazione dei poveri contro i ricchi. I briganti delle Calabrie furono battuti e chiusi ne’boschi della Sila. Però nel centro e nel settentrione il brigantaggio politico era più pericoloso, perchè fomentato da Roma.
Tra gli altri fatti atroci dell’epoca non è a tacersi l’invasione e l’incendio di Pontelandolfo, villaggio montano sulla destra di Cerreto.
Il 7 agosto i briganti vi erano stati chiamati dai preti. Accolti con entusiasmo dalla plebaglia, commisero eccessi d’ogni sorta: saccheggiarono l’ufficio municipale, la stazione della guardia nazionale, le botteghe, esercitarono violenze a danno di onesti cittadini e, tra gli altri, ferirono a morte un Filippo Lombardi, uomo d’oltre ottant’anni. Gl’insorti si danno un nuovo governo, e alcuni villaggi vicini fanne adesione. Quattro giorni dopo, l’11 Agosto, quaranta sol­dati e quattro carabinieri, vi sono mandati per frenarli. I briganti li rispingono, e i soldati, dopo una vigorosa resistenza, sono costretti a ripiegare sopra Casalduni. Ma i briganti e gl’insorti di Casalduni imboscati, circondano il luogotenente Luigi Augusto Bracci co’suoi quarantadue uomini che comandava. Dopo accanita resistenza gl’infelici vennero soprafatti dal numero superiore. Non fu una carnificina, ma un vero eccidio. Ma venne tosto il castigo. La mattina del 13 giunse il colonnello Negri con genti italiane: chiesero dei loro compagni, e fu loro risposto che avevano cessato di vivere; domandarono i loro cadaveri, non furono trovati: allora gl’ltaliani stessi si diedero a cercarli, e scopersero membra tagliate, brani sanguinosi, trofei orribili appesi alle case ed esposti alla luce del sole.

Pagine 356 ECCIDIO VOL III pag 331 pontelandolfoAppresero che avevano impiegato otto ore a dar la morte a poco a poco al luogotenente ferito soltanto nel combattimento. Allora gl’taliani misero a ferro ed a fuoco i due villaggi. E il colonnello Negri due giorni dopo inviava questo dispaccio: “Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni.”
Nella repressione si distinse anche il generale Pinelli. Cosi i briganti, cacciati da prima nella pianura, poi respinti sulle alture del Gargano, del Matese, di Nola, di Somma , del Taburno, della Sile, si arrendevano in frotta, sopratutto i soldati sbandati, i disertori, i refrattari, i quali in numero di ben trentamila erano spediti nell’Italia settentrionale. Nei primi tempi della luogotenenza di Cialdini si minacciò una invasione anche su Napoli, ma la vigilanza del luogotenente rese impossibile il progetto. In breve Cialdini disarmava il brigantaggio, reso audace dalla mollezza del conte di San Martino.
Il brigantaggio era cosi represso, e il governo poteva compiere quelle riforme che agognava attuare da lunga pezza, cioè la soppressione della luogotenenza e l’ assi­ milazione delle provincie napoletane. Ma di ciò più avanti.

Ricasoli adoperavasi a guadagnar al nuovo stato la publica opinione, e perciò credette opportuno inviare nell’agosto un memorandum ai rappresentanti dell’Italia in cui faceva conoscere le condizioni del nuovo stato. Tra le altre cose notavansi i seguenti riflessi.
Il parlamento aver dato termine alla prima parte della laboriosa sua sessione, prorogando le sue tornate sino al prossimo a11tunno. In esso aver seduto per la prima volta i rappresentanti di pressochè tutte le popolazioni italiane. Mercè le sue deliberazioni, l’unità d’Italia esser passata dalla regione delle idee a quella dei fatti e incominciata ad esplicarsi nell’ordine politico, economico ed amministrativo.

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