Il Brigantaggio alla Frontiera Pontificia -preliminare

Pagine da ilbrigantaggioa01saingoog_Pagina_2Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Il Brigantaggio alla Frontiera Pontificia dal 1860 al 1863” Milano 1864

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I BRIGANTI E LA CORTE PONTIFICIA
PRELIMINARI DELL’OPERA.

I.
Compito rigoroso della mia opera è la storia del brigantaggio dalla sua organizzazione presso la corte romana, col corredo di opportune riflessioni politiche.
I fatti sanguinosi verificatisi precedentemente a quell’epoca nelle provincie limitrofe allo stato romano, appartengono alla reazione suscitata dalla presenza delle milizie regolari di Francesco Il. Essa riproduce un insieme di mosse strategiche appoggiato più o meno da sudditi obbedienti tuttavia all’autorità regia imperante ancora in qualche angolo del regno.
La reazione non può strettamente confondersi col brigantaggio politico, il quale ebbe principio dalla capitolazione di Gaeta.
Nulla di meno i fatti si collegano e s’incalzano mutualmente. A preordinare il loro retto indirizzo, ho d’uopo concatenarli con richiamare succintamente i più urgenti che precedettero l’ epoca da me stabilita.
Mi vi accingo.

È noto come nel Napoletano, fin da rimotissimi tempi briganti infestassero quella provincie.
La configurazione del suolo lasciato incolto, imboschito e quasi deserto da governi pessimi o infingardi, alimentava mirabilmente ne’suoi recessi la speranza impune
d’ogni misfatto.
Oltre di che il misero abitatore di quelle contrade calcando un terreno ognor spaventoso quasi direi pe’ primitivi sublimi orrori della natura, nel suo isolamento nomade ed eslege davasi di leggieri in balia alla rapina e alla strage.
La estensione interminata del territorio raccoglieva i moltissimi sopposti ad uguali condizioni, e la facile società dei malvagi stringeasi in nodi tenaci sotto gli auspicii della complicità e della preda.
La quantità degl’individui pel lasso del tempo moltiplicatisi, le esigenze reciproche e crescenti, il riparto de’ bottini, originarono l’idea dell’unicuiquo suum. Quinci la necessità di una gerarchia. Il brigantaggio si eresse in sistema .
Le ampliate tenebrose istituzioni s’intrusero ne’villaggi e nelle città, volsero all’indole di sètta, e appellaronsi Camorra. Una serie di dominazioni straniere dalle saracene, normanne e spagnuole fino ai nostri dì, eccetto i risoluti provvedimenti di Giuseppe Bonaparte e di Murat, non poterono o meglio non curarono disperdere queste torme infauste di ladroni. Sventuratamente costoro, come tutti gli stranieri imposti da fuori, vivendo più per se che pe’ popoli, temevano
meritamente per la conservazione di un potere eterogeneo e contrario all’assoluto diritto, e rifugiavansi a qualsivoglia spediente di salvezza. Essi atterriti primamente dalla difficoltà di spostare l’ enorme massa di que’malfattori, finirono col ravvisarvi un efficace sostegno atto a neutralizzare le pretese politiche o a fiancheggiare una restaurazione.
I lazzari e i camorristi emanazione primogenita del vecchio brigantaggio, fornivano lo splendido corteggio di Ferdinando II nelle sue apparizioni popolari.
Col numero e al sonito delle grida selvagge di costoro egli irrise sovente al fremito nazionale.
Francesco II nella sua esaltazione al trono bandì ch’egli non isperava poter uguagliare le virtù paterne. Pietoso consiglio, se col lugubre velame delle parole, figlio ossequente coperto avesse una fronte maladetta ! Ma Francesco tenne in fatto alla simiglianza di lui, sol coll’estinto genitore gareggiò di ferocia e di stoltezza.
La folgore di Dio l’avea percosso, egli cadde vinto a Gaeta, l’ora della sventura era suonata e misero colui che osato avesse aggiungere afflizione all’afflitto !
Ma daccbè lungi dal piegar la fronte nella polvere per adorar gl’inscrutabili decreti di Dio che giudica i popoli, e balza i troni come un fuscello, Francesco mestravasi pur sempre figlio non degenere dei fedifraghi di Francia, e di Spagna, de’spergiuri d’Italia, l’alleato d’Austria e di Roma mondana; dacchè lungi  dall’attendere l’opportunità di una rivincita con senno e civile temperanza, o coll’aprire leale battaglia, sceglieva tempo e luogo a selvaggia vendetta; dacchè appostatosi come ladro di notte dietro i limitari del perduto suo regno rinfocolava le ambizioni perdenti; demoralizzava e corrompeva vieppiù un popolo già infelicissimo all’esca di quegli stessi tesori spremuti dalle sue vene: dacchè improntato della maledizione di Caino, quasi unghia crudele lacerava senza ribrezzo le piaghe civili vive ancora e sanguinanti della più insigne e sventurata nazione della terra ad uno scopo folle e frustraneo, la riserva o l’ omaggio del silenzio divenivano una connivenza ingiustificabile verso una segnalata ostinazione.
Francesco II ligio a scellerati consigli è il centro infaticabile moderatore delle stragi napoletane occasionate dal brigantaggio.

Grave è l’accusa. Taluno ne riderà, come se in quistione revocata fosse cosa per se stessa evidentissima. Altri però che estima tener pregio di moderazione, si stempra per lo meno nelle vie tortuose del dubbio, tra cui Marco Monnier scrittore del resto giudizioso in questa materia. Il truce dramma che son sulle mosse di svolgere non può rimanere acefalo del suo vero protagonista. Questi preliminari per avventura si prestano nel tentare almeno di spander luce sulla quislione; anzi per meglio riescirvi mi studierò di attemperarveli.
Imporre la mia opinione nol presumo. La imparziale coscienza di chi mi legge dee portarne giudizio. A fare altresi che non dispaja solida in base la mia proposizione, o che da preconcetto studio io sembri distolto dal vero, reputo ben fatto rappresentar l’uomo nelle sue opere per indurne l’effettiva capacità conformemente ai fatti nefandi che prima e poi contaminarono la pure luce del sole. Ov’io questo omettessi, crederei confondermi colla folla di gratuiti oppositori, e la mia narrazione abortirebbe in una tesi sterile e generica, senza la soddisfazione di raggiungere una imputabilità illustre che per avventura non riesce a trafugarsi per gli avvolgimenti delle spire politiche.
So che talvolta lo splendore dell’ostro e la pompa regale lussureggiante par fatta arbitra del delitto, e superiore eziandio alla natura assoluta del male.
Quanto a me l’abitudine o le fallaci apparenze non pervennero giammai a curvarmi la cervice, nè mi scemarono l’ardire per sollevar lo sguardo e fissarlo coraggiosamente in faccia a colpevoli augusti. I miei occhi sfidano queste luci fatue, e altrettanto acuiscono i loro raggi quanto più l’orbita di esse avrebbe dovuto compiersi sotto l’influsso della edificazione e dell’esempio.

Asceso al trono Francesco II, non seppe o non ebbe il coraggio di smentire le vecchie alleanze attecchite fra i Borboni a tradizione domestica. Partigiano della politica d’isolamento che ogni dì più ponevasi fuor del diritto civile e della protezione di ogni governo, disprezzò i tempi e mal conoscendo gli uomini non seppe divellersi dagli antichi consiglieri della corona, mentre co’nuovi tenevasi dubitoso e tenace; fidò nelle sue forze più dalla brillante lor divisa esteriore sedotto che dal verace coraggio. Fazionato dai gesuiti non valse a munirsi di lena bastante per essere emancipato dalle dottrine eunuche illiberali, e aggiustate maestrevolmente a sistema preconcetto per un regno preponderante in Italia che servi già di addentellato nel passato, ed era predestinato a potente baluardo di future contingenze.
Dagli eventi sbalordito e dominato da sagace e bella consorte era egli al rimorchio delle circostanze.
Del resto di, poche lettere, affabile in vista, ingenuo, ma ove pur fosse stato buono di cuore per fatalità d’ aderenze, d’ uomini e di cose, inaccessibili al solo pensiero d’indipendenza e di libertà.
Ahi è questi purtroppo quel giovane sciagurato; sovra il cui capo stanno irte le maledizioni di tante madri, di tante famiglie trucidate. Contro di lui il sangue italiano versato a torrenti, grida vendetta al cospetto dell’Eterno!!
Un monarca che si conosca anche elementarmente le arti del governare, dee reputarsi il cittadino meno libero di tutti. Egli non può imporre a’suoi popoli la propria opinione individuale. Conoscitore del suo tempo, deve precorrerne i bisogni veramente sentiti, servirli per impadronirsene e dominarli.
Fare a fidanza co’sudditi sulla punta di bajonette mercenarie, o sull’eculeo degli artificii sono riboboli di tempi andati, e che più non ritornano.
Francesco però credendosi affrancato dallo scudo meduseo, e come se la tempesta intorno muggente dovesse, in grazia sua, rattenere pur gli aliti refrigeranti della atmosfera; alle imperiose voci di un legittimo progresso riconosciuto e trionfante, opponeva la corda, la colla e poco men che il rogo.
Garibaldi lo stordì ed alle efficaci persuasive del cannone di Palerno si scosse, ma non si riebbe.
Contortosi sconciamente in più guise, aggravò la propria situazione. Era tardi…. Non s’invili però, ma dagli ostacolil trasse nuova esca all’ardire. Stimò giunto il tempo che nulla, lecito o nerando che fosse, risparmiarsi dovesse per ovviare al pendio tremendo di sua rovina. Virtù, principii, onore, umilazioni, preghiere tutto nel frangente dovea mettersi in giuoco. Il futuro forse avrebbe restituito normalmente le cose.
Filangeri da un lato incastellava nell’aria colonne mobili che scaglionate opportunamente nell’isola sarebbero piombate non attese sui punti di sommossa. Alessandro Nunziante apparecchiava un gran campo per tener in soggezione le Calabrie. Il re intanto stancava le corti europee, e implorava a mani giunta l’intervento collettizio delle grandi potenze. Il principen d’ Ischitella, e il cav. De Martino a Parigi e a Londra, il principe Petrulla in Vienna rimestavano principalmente l’argomento. Ma i principii di recente invalsi sulla politica del non intervento, i precedenti dei reali di Napoli, i consigli delle stesse corti posti prima in non cale, ed oggi, per opportunità, in vista d’ essere apprezzati, fruttarono ai messi amari rimproveri e l’umiliazione di rifiuti o indifferenza.
Costretto Francesco a ricader sopra se stesso, tentò opporre la propria all’influenza di Garibaldi. Si volse dalle minaccie alle lusinghe, spedl in Sicilia Ferdinando Lanza colla facoltà dell’alter ego promettendo un principe della reale famiglia, amnistia, ed altre franchigie.
Più tardi tornato al furore ordinava alJo stesso Lanza la distruione di Palermo prima di cedere a Garibaldi.
Seguita la capitolazione di quella piazza, affettava di non volerla riconoscere, e ad insinuare che non i devoti suoi sudditi, ma il tradimento avevano determinato le vittorie di Palermo, sottopose a giudizio lo stesso Lanza e gli altri generali Letizia, Landi e Cataldo.
La tempesta si addensava sulla capitale. All’idea terribile di perderla si associava il fremito della vendetta. Sapeva Francesco che concessioni serotine erano peggiori di una sconfitta; argomento non dubbio di sfinimento governativo; l’agonia deJla disperazione. Non importa. Potevano forse i tiepidi arrestarsi, i baldi intimidirsi, i fidi raccendersi, la massa prestar fede, la milizia con promesse e straordinari stipendi eccitarsi, la possihilità dell’evento dovea scongiurare la gravezza estrema de’pericoli. Di nuovo alle lusinghe.
Il di 26 Giugno 1860 apparve in Napoli l’atto sovrano, pel quale veniva roncessa:
-Amnistia generale.
-Il commendatore Spinelli incaricato della formazione di un ministero, e della compilazione di uno statuto sulle basi delle costituzioni italiane e nazionali.
-Alleanza ed accordi per l’interesse delle due corone d’Italia.
-Bandiera tricolore collo stemma dei reali di Napoli.
-Istituzioni libere in Sicilia, e per vice-re un principe di casa Borbone.
Com’era a prevedere, la più natural conseguenza delle larghezza accordate, fu scapito e la ruina definitiva. Il popolo ritenendosi beffeggiato si sollevò; i detenuti politici e gli emigrati profittando dell’amnistia soffiavano nell’incendio; Poerio e Mancini diffidavano potentemente l’alleanza proposta da Napoli con Torino.
Lo stato d’assedio coronò lo stolto lenitivo della costituzione.

Il figlio del marchese di Villamarina, e più tardi il principe Petrulla ambasciatore di Napoli in Vienna ispirato da colloquii col conte di Recbergh ministro aulico, peroravano in Torino per una federazione.
Il conte di Cavour senza accettare nè rifiutare, e fidente negli eventi, quanto di tanto effimere convulsioni irrisore, abilmente temporeggiava, il parlamento decisamente respingeva.
Frattanto Garibaldi minacciava Napoli, la costituzione era posta in ridicolo, l’alleanza coll’Italia superiore differita, i torbidi sempre crescenti, tutto forniva presagio di eventi terribili.
Nell’urto di tanto scompiglio sorse una voce, che per la sua eccezionale autorità non può a meno d’esser segnalata. Un reale borbonico lo stesso zio del re Fraocesco, il conte di Siracusa in una sua lettera direttagli rivelava imparzialmente la situazioue, le cause che la produssero, e le conseguenze che sarebbero derivate da inutili resistenze. Eccola.

SIRE

“Se la mla voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che sovrastavano la nostra casa; e non fu ascoltata, fate ora che presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio.
Le mutate condizioni d’Italia, e il sentimento delJa unità nazionale fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al governo di V. M. quella forza, onde si reggono gli stati e rendettero impossibile la lega col Piemonte. Le popolazioni dell’Italia superiore inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero coi loro voti gli ambasciatori di Napoli, e noi fummo abbandonati dolorosamente alla sorte delle armi, soli, privali di alleanze, ed in preda al risentimento delle moltitudini che da tutti i luoghi d’Italia si sollevavano al grido di esterminio lanciato contro la nostra casa, fatta segno alla universale riprovazione.
Ed intanto la guerra civile che invade già le provincie del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina che le inique arti di consiglieri perversi hanno di lunga mano preparato alla discendenza di Carlo III di Borbone; il sangue cittadino inutilmente sparso, inonderà le mille città del reame, e voi un dì speranza e amore dei popoli, sarete riguardato con orrore, una cagione di una guerra fraticida.

Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, la nostra casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra regale congiunta di Parma che allo irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dall’obbedienza, e li fece arbitri dei propri destini. L’Europa e i vostri popoli vi terranno conto del sublime sacrifizio; e voi potrete, o sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l’atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della patria, e voi benedirete il giorno in cui generosamente vi sacrificaste alla grandezza d’Italia.
Compio, o sire, con queste parole il sacro mandato che la mia esperienza m’impone, e prego lddio che possa illuminarvi, e farvi meritevole delle sue benedizioni.

Napoli 24 Agosto 1860.

Cotanto benevoli consigli rimasero frustrati. Il re nella fatale alternativa o di soccombere in Napoli in un sol giorno; ovvero di affidare alla sorte delle armi i suoi futuri destini, il dì 6 settembre sgombrò dalla città, colle più fide reliquie dell’esercito si ridusse dietro la linea del Volturno.
Il dittatore Garibaldi nel giorno seguente fè il suo ingresso trionfale nella capitale delle Due Sicilie, seguito non guari dopo da’ suoi volontarii.
La corsa prodigiosa di tanti avvenimenti da Palermo fino a Capua, in tratto sì breve, aveva vinto le più ritrose aspettative sì in Italia che all’estero, e Francesco ingolfato nell’avventurare tanti e così diversi esperimenti di transazione, erasi tenuto in serbo gli estremi e i più terribili, la reazione e il brigantaggio.

Finch’egli si tenne racchiuso in Capua, riponendo forse nella lunga resistenza e negl’indugi un barlume di salvezza, i rapporti colla diplomazia, e le difese della piazza, assorbivano le sue cure, nè volse con troppa sollecitudine il pensiero ad armare la reazione. Arroge che lo scompiglio fragoroso de’mutamenti politici, e le diverse tendenze, gl’interessi scossi e compromessi; le gare titubanti di partito nuove e vecchie; le convinzioni non per anco decise, vietavano di posar sicuro il piede e fare assegnamento sopra chicchessia.
Ma quando colJa improbabilità della vittoria venne scemando la speranza; oltre ogni credere Francesco incrudelì per inauduta ferocia.
La face tremenda della reazione egli scagliò nelle provincie limitrofe allo stato romano.
Il forte di Gaeta e Civitella del Tronto, ne proteggeva fianchi mentre intantocorpi di milizia regolare diretti anche a tenere in iscacco i soldati italiani che accennavano ad una ricongiunzione con quei di Garibaldi, incoraggiavano la sommossa.
Gli orrori commessi in brevissimo periodo di tempo in questi miseri luoghi influendo potentemente a coartare l’accusa grave che pesa sul capo di Francesco, non posso trattenermij dal preporre ai miei lettori uno spicilegio sommario di fatti sulle tracce autentiche di inchieste giudiziali già praticate ne’luoghi respettivi, affinchè possano essi venir in grado di portarne compiuto giudizio.
Dopo essere stato egli scacciato da quasi tutto il suo regno, cominciò col mettere in istato d’assedio tutti i paesi da lui occupati e fece man bassa su tutte le casse di beneficenza comunale ed altreistituzioni PRIVATE; impose gravissime tasse; distrusse qualunque libertà; licenziò la Guardia Nazionale, disarmò la borghesia, e vi sostituì un’accozzaglia di plebe armata, servendosi riguardo a quelli che infestavano le strade, di gendarmi travestiti per promettere a tutti eguale impunità per qualunque furto, assassinio o delitto che potessero commettere in nome di Sua Maestà .
Infatti, appena si installò il governo borbonico a Gaeta incominciarono la reazione, gli assassini, le spogliazioni, gl’incendii, i quali evidentemente erano eccitati e ordinati dal governo.
Fra gl’innumerevoli fatti citerò i seguenti:
Francesco II con decreto 6 ottobre investiva dei più estesi poteri, col titolo di alter ego, il maresciallo Luigi Scotti­Douglas, e quest’ultimo, alla testa di 1200 soldati e più migliaia di contadini da lui arruolati ed armati, precorse il distretto di Piedimonte e d’Isernia, sollevando dappertutto l’infima plebe contro la borghesia, ciò che prova la terribile reazione che si era manifestata ad Isernia, e nei paesi limitrofi al momento stesso del suo passaggio.
Egli medesimo attaccò i Piemontesi sul Macerone e completamente falluto in poco volger di tempo, si rese prigioniero al generale Cialdini con un gran numero di ufficiali e parecchie centinaia di soldati.
Il Governo di Gaeta arruolò in tre battaglioni, per opera dello stesso generale Scotti, una massa di gente detta Volontari, che si componeva in gran parte di galeotti usciti o fatti uscire dai bagni dello Stato e di ladri confinati nelle isole di Ponza e Ventotene.

Questi battaglioni, tanto per la loro origine, quando per le loro azioni, principalmente nei distretti di Sora ed Avezzano, erano comunemente chiamati battaglioni di saccheggiatori, e gli ufficiali borbonici stessi li distinguevano con questo titolo per non andar confusi sotto il medesimo stigmate d’infamia.
I furti, gli assassinii, gl’incendii, commessi da questi battaglioni, furono innumerevoli.
Dal ministro di Francesco II, Pietro Ulloa fu emesso un gran numero di biglierti reali e distribuito alla feccia del popolo rotta ai delitti, dando ai portatori il diritto di chiedere l’appoggio dell’autorità e della forza pubblica per qualunque atto potessero consumare. Da questi uomini derivarono tutte le reazioni.
È ancora un fatto pubblicamente constatato che questi medesimi uomini distribuirono ai contadini, abusando deHa loro credulità, dei piccoli pezzi di carta bianca, assicuradoli che erano stati inviati da Francesco II, il quale accordava loro per otto mesi, in virtà di questa carta, la facoltà di commettere qualunque specie di delitto purchè tornasse in favore della causa.
La città d’lsernia è stata il teatro delle più grandi atrocità. Si riunì un gran numero di contadini e endarmi, che, ad un’ora fissata, non solo saccheggiarono tutte le case dei borghesi e bruciarono il palazzo Jadossi, stato deputato al Parlamento nel 1848, ma pugnalarono e fecero a pezzi suo figlio dell’età di 21 anno circa, dopo avergli tolto gli occhi ancora vivo.
NeIla stessa notte furono trucidati Cosimo di Bagis, ricco ed onesto proprietarie ed altri molti. Il giudice del circondario si salvò solo perchè perduti i sensi, cadde a terra dopo cioque gravi ferite ricevute alla testa.
Simili carneficine ebber luogo nel tempo istesso in altri paesi circonvicini, e specialmente a Forlì a Civitanova, nella qual terra un onorevole sacerdote fu tagliato a pezzi.

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