Risorgimento

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– Analisi sul Risorgimento italiano –
Il significato del termine “Risorgimento”
Nell’Ottocento diversi Paesi europei videro la nascita di movimenti nazionalistici che ne portarono poi all’indipendenza: l’Italia era sicuramente uno di questi. Il significato del terimine “risorgimento” infatti sottolinea la rinascita culturale  e politica, di riscatto da una condizione di servitù e di decadenza morale, di ritorno a un passato glorioso. L’Italia, a differenza di altri Stati europei, non aveva mai conosciuto l’esperienza di uno Stato unitario: lo era stata solo all’epoca dell’Impero Romano, il quale era un’entità sovranazionale. Esisteva però una nazione italiana, intesa come comunanza di tradizioni culturali, religiose e in parte anche economiche.

Le società segrete
A partire dal 1820 (data di inizio del primo moto liberale) in Europa si susseguirono tutta una serie di manifestazioni e di rivolte che misero in crisi e poi incrinarono l’ordine stabilito dopo il Congresso di Vienna. Le rivolte si diffondevano da un Paese all’altro con grande semplicità: vi erano sicuramente comuni ragioni di malessere economico, ma il coordinamento delle rivoluzioni liberali dell’Ottocento si ebbe grazie alla fitta rete di relazioni che esistevano nei centri rivoluzionari dei vari Paesi. Vi era quindi una rete rivoluzionaria europea, parallela alla trama di alleanze delle potenze del Congresso di Vienna.
I centri rivoluzionari europei si organizzarono in diverse organizzazioni politiche clandestine: la più importante di queste fu sicuramente la Carboneria. I membri di questa organizzazione si ispiravano perlopiù a ideali di costituzionalismo e di liberismo moderato. All’interno delle società segrete era però possibile l’esistenza di diversi disegni politici, come nella Massoneria ad esempio: le rivendicazioni sostenute dai gradi inferiori dell’organizzazione potevano magari essere ritenuti una semplice tappa intermedia verso rinnovamenti più profondi da parte dei gradi dirigenti. Queste “realtà parallele” potevano esistere grazie al fatto che i membri delle organizzazioni liberali erano tenuti all’oscuro dei veri piani politici avuti dalla dirigenza, la quale spesso formava sotto-nuclei ristretti all’interno di una medesima società segreta. La base su cui potevano contare le società segrete era piuttosto ristretta, dal momento che queste non cercarono mai l’appoggio delle classi subalterne, cioè per l’epoca soprattutto dei contadini.
I moti rivoluzionari del 1820-1821
Questo moto iniziò in Spagna quando il re ordinò una spedizione militare contro le colonie latino-americane in rivolta: i militari rifiutarono di recarsi dove era stato loro ordinato e anzi cominciarono a ribellarsi al regime monarchico. Tale protesta si diffuse a macchia d’olio in tutta la Spagna, tanto da costringere il re a ripristinare la costituzione monarchica e a indire le elezioni per la formazione di un Parlamento.
I fatti che si stavano verificando in Spagna ebbero come immediato effetto lo scoppio di rivolte nel Regno delle due Sicilie e nel Portogallo: in entrambi i casi i rispettivi sovrani furono costretti a concedere costituzioni liberali. A causa però delle divisioni che poi sorsero fra i rivoluzionari e, in Sicilia, anche la componente indipendentista, contribuirono al fallimento del moto rivoluzionario: in Sicilia la provincia di Palermo tentò la ribellione con l’adesione di componenti aristocratiche e popolane, le quali però presto si divisero permettendo al regime borbonico di domare rapidamente la rivolta.
La costituzione liberale rimaneva però ancora in vigore e questo successo riaccese le speranze dei liberali delle altre regioni d’Italia: rivoluzioni in tal senso scoppiarono in Piemonte e in Lombardia. Nel primo caso fu concessa una costituzione liberale in un primo tempo, ma dopo fu prontamente ritirata e i rivoluzionari furono sconfitti militarmente: questa sconfitta rientrava nel quadro generale del successo nella repressione dei moti del 1820-21 ed infatti le rivoluzioni in Spagna e in Portogallo furono represse, mentre nel Regno delle Due Sicilie l’ordine fu riportato grazie all’intervento dell’esercito austriaco.
I moti rivoluzionari del 1831
In Francia nel 1830 vi fu una rivolta da parte del popolo parigino in protesta contro il re Carlo X e determinò l’ascesa al potere di Luigi Filippo d’Orleans. Il successo di questo moto determinò lo scoppio a sua volta di moti rivoluzionari un anno dopo nei Ducati di Modena e di Parma, e in una parte dello Stato pontificio con l’appoggio del duca Francesco IV, il quale contava sulle rivoluzioni liberali per allargare i suoi possedimenti. Il duca prese accordi con i rivoluzionari che operavano nel suo ducato per fomentare le rivolte in altre regioni italiane: quando però egli si rese conto che l’Austria si sarebbe opposta con le armi a qualsiasi cambiamento nell’assetto politico della Penisola, ritirò immediatamente il suo appoggio ai rivoluzionari e li fece arrestare. Questo cambiamento di rotta del duca non impedì però lo scoppio delle rivolte nelle Legazioni Pontificie e nel Ducato di Parma e in quello di Modena.
Questi moti rivoluzionari, rispetto a quelli del 1820-21, presentavano forti elementi di novità: le classi sociali da cui provenirono i rivoluzionari erano perlopiù borghesi e non più solo militari, in alcuni casi vi fu anche una massiccia partecipazione popolare. Vi fu inoltre un tentativo, riuscito solo parzialmente, di riunire fra loro le varie rivoluzioni: esso fu molto fiaccato da suddivisioni municipalistiche fra le varie zone interessate alle rivolte, ma anche dal riemergere del conflitto fra moderati e democratici.
La Francia non si impegnò in alcun modo nella difesa delle rivoluzioni italiane e così gli austriaci, dopo essersi accertati di questo, poterono reprimere militarmente le varie ribellioni.
La Giovine Italia
Mazzini si rese conto dell’incongruenza strategica di fondo delle varie organizzazioni segrete italiane: esse contavano troppo sull’aiuto esterno (da Paesi stranieri o comunque da sovrani inaffidabili), erano troppo settarie limitando la base di consenso alle loro azioni, non avevano una impostazione unitaria.
Mazzini aveva una concezione originale, in cui la componente democratica si fondeva con quella mistico-religiosa: la religiosità di Mazzini era romantica, in cui Dio si identifica con lo spirito insito nella storia e quindi con la stessa umanità. Secondo Mazzini la rivendicazione dei propri diritti non poteva essere in alcun modo separata dalla consapevolezza dei propri doveri. Mazzini credeva inoltre fermamente nel principio di associazione: al di sopra dell’individuo c’è la famiglia, al di sopra della famiglia la nazione, e al di sopra di tutto l’umanità. La nazione, nella concezione mazziniana, era la cellula fondamentale attraverso cui si sarebbe realizzato il sogno di libertà e fratellanza fra i popoli. Solo uniti in nazioni i popoli avrebbero potuto adempiere alla loro missione storica (cooperare per il bene comune): la concezione mazziniana è dunque molto densa di significati idealistici e non lascia spazio a questioni materialistiche come la lotta di classe.
I valori ideologici di Mazzini possono essere ritenuti poco concreti: ma questa valutazione non può essere assolutamente fatta per quanto riguarda il suo programma politico. Per Mazzini l’Italia doveva diventare unita, indipendente e repubblicana, senza cedere al compromesso monarchico. Il solo modo per giungere a questo risultato era l’insurrezione di popolo: per organizzare questo tipo di insurrezione Mazzini fondò la Giovine Italia, la quale aveva un programma pubblico per favorire l’allargamento del consenso di base.
L’evoluzione degli Stati italiani
Nel decennio 1830-40 gli Stati italiani trascorsero una sostanziale continuità con l’età della Restaurazione. Il Regno delle due Sicilie e il papato furono gli Stati più ostili a qualsiasi tentativo di riforma: solo nel Regno di Sardegna furono prese caute riforme, che riguardavano il codice civile e quello penale.
A partire dal 1840 si registrò in Europa un generale progresso economico, fenomeno da cui non rimasero escluse le regioni più avanzate d’Italia: cioè la Lombardia e il Piemonte. Tali sviluppi economici furono insufficienti a colmare il divario che c’era con le altre potenze europee, però fu sufficiente a far comprendere alla borghesia quanto danno provocava la mancanza di un mercato nazionale esteso e l’assenza di una fitta rete di vie di comunicazione.
Le correnti politiche italiane
Nel corso degli anni ’40 emerse un orientamento politico moderato, che si differenziava nettamente sia dal tradizionalismo conservatore e legittimista sia dal radicalismo repubblicano di Mazzini e cercava per il problema italiano soluzioni gradualistiche ed indolori. La base principale del pensiero moderato stava nel conciliare la causa liberale e patriottica con la religione cattolica. Si diffuse così una corrente neoguelfa, la quale sosteneva che ci dovesse essere una confederazioni di Stati italiani (con relativa unità doganale) presieduta dal papa. Altri esponenti liberali sostenevano che vi era oggettivamente il problema della presenza austriaca in Italia: tale problema andava risolto non tramite uno scontro militare, ma a livello diplomatico. L’area moderata non era la sola a sostenere le ipotesi riformistiche e liberalistiche: anche alcuni intellettuali democratici erano dello stesso avviso, ma l’obiettivo finale era quello di creare una confederazione repubblicana.
Il biennio delle riforme
Nel biennio 1846-47 fu eletto papa Pio IX, noto per avere una religiosità sincera e profonda. Uno dei primi atti del suo pontificato fu un’amnistia generalizzata verso molti detenuti politici: ciò provocò un clima di entusiasmo fra i liberali italiani, e lo stesso papa ne fu coinvolto e convocò una Consulta di Stato, fu istituita una guardia civica e fu anche attenuata la censura sulla stampa. La portata di queste riforme era molto limitata, ma generò un tale entusiasmo che il moto riformatore finì con il dilagare in tutta Italia. I sovrani italiani, temendo che il moto riformatore passasse nelle mani dei democratici, concessero alcune riforme come la guardia civica e l’attenuazione della censura sulla stampa.
I moti rivoluzionari del 1848
In Europa nell’anno 1848 si verificarono una serie di diffuse ribellioni in una percentuale di territorio molto esteso che abbracciavano Stati anche piuttosto diversi fra di loro. Un così ampio movimento non sarebbe stato possibile se non ci fossero state ragioni di disagio comune all’interno della società europea. Il primo elemento in comune è stata sicuramente la crisi economica avutasi nel biennio precedente con la creazione di carestie, miseria e disoccupazione. Su questo disagio fisiologico si inserì l’azione dei democratici di tutta europa, che veicolarono lo scontento popolare opportunamente. Le rivoluzioni che si ebbero nel 1848 miravano tutte a richiedere maggiori libertà politiche e più democrazia nella gestione del potere: in questo senso i moti del Quarantotto si rifanno a quello del 1820-21 e a quelli del 1830. Nelle varie capitali europee si ebbero moti che seguirono tutti uno schema simile: grandi manifestazioni di massa che poi degeneravano in scontri armati.  I moti rivoluzionari del 1848 chiudono l’epoca delle insurrezioni liberali per iniziativa della borghesia: vi fu infatti sempre più il contributo delle masse popolari urbane e quindi accanto agli obiettivi politici vennero affiancati obiettivi di tipo sociale. Da questo momento in poi incominciò ad emergere sempre più chiaramente e con più forza la componente operaia nelle rivolte: questa si distingueva per obiettivi finali nettamente dalla borghesia, sia moderata che democratica.
La prima guerra di indipendenza
In Europa nel 1848 dunque vi erano ovunque rivolte liberali: l’Italia non fu estranea a questo fenomeno. L’inizio dei moti è da localizzare nella sollevazione di Palermo: in questo caso specifico, accanto alle richieste di libertà e maggiore democrazia, vi era la tradizionale aspirazione all’indipendenza da parte dei Siciliani. Per cercare di mitigare i rivoltosi il sovrano borbonico concesse una costituzione liberale, anche se questo non bastò a fare placare la rivolta. Manifestazioni popolari si ebbero anche negli altri Stati italiani: un po’ tutti i sovrani furono indotti a concedere anch’essi costituzioni liberali, il più importante dei quali fu sicuramente lo Statuto albertino, che sarebbe diventato la legge fondamentale del Regno d’Italia dopo l’Unità. Esso prevedeva la creazione di un Parlamento diviso in due rami: un Senato di nomina regia e una Camera dei deputati eletta da elettori uomini aventi un censo piuttosto elevato.
Una soluzione moderata-costituzionale si stava delinenando in Italia, ma lo scoppio delle rivoluzioni in Francia e nella stessa Austria contribuirono a modificare profondamente il contesto e fu riportata alla ribalta la questione dell’Unità nazionale. A Venezia vi furono molti tumulti che portarono al ritiro degli austriaci e alla proclamazione di una Repubblica veneta.
Anche a Milano vi furono delle rivolte che durarono cinque giornate, che portarono anche in questo caso al ritiro delle truppe austriache per il timore dell’intervento dei piemontesi. I soldati dell’Austria si ritirarono all’interno del cosidetto quadrilatero: quattro fortezze comprese fra Verona, Legnago, Mantova e Peschiera. Dopo il ritiro dalle due città degli austriaci il Piemonte dichiarò guerra all’Austria: per timore di un eccessivo rafforzamento dello Stato piemontese anche gli altri sovrani italiani inviarono propri contingenti, Chiesa inclusa. La guerra piemontese divenne così una guerra per l’indipendenza nazionale bendetta dal Papa con la partecipazione di tutte le forze patriottiche. Ma la cacciata degli austriaci non potè avvenire: il re piemontese stava palesemente preparando l’annessione del Lombardo-veneto al suo Regno, suscitando in questo modo la diffidenza dei democratici e degli altri sovrani italiani. Costoro, dopo pochi mesi, ritirarono le loro truppe dal teatro di battaglia: rimasero solo i volontari patriottici, il cui contributo fu poco sfruttato da Carlo Alberto, il quale non voleva lasciare spazio all’iniziativa democratici.
A questo punto l’iniziativa passò nelle mani dell’esercito austriaco, il quale inflisse una durissima sconfitta all’esercito sabaudo nella battaglia di Custoza, dopo la quale i piemontesi furono costretti a chiedere l’armistizio. La situazione era però ancora aperta, dato che diverse zone italiane erano ancora nelle mani dei rivoluzionari: a Venezia e Roma fu proclamata la Repubblica. Gli eventi che si verificarono a Roma indussero il re sabaudo a riprendere l’iniziativa, ma l’esercito austriaco inflisse una nuova gravissima sconfitta alle sue truppe nei pressi di Novara, costringendo il Regno di Sardegna ad uscire definitivamente di scena. Dopo aver eliminato la minaccia del Regno sabaudo gli austriaci poterono dedicarsi alla Restaurazione dei poteri tradizionali in Italia: furono occupate le Legazioni pontificie, fu assediata la Repubblica romana, veneta e toscana. I borboni riuscirono a riconquistare la Sicilia: particolarmente arduo fu però riprendere il controllo di Roma. Qui confluirono i rivoluzionari di tutte le regioni italiane ove venne restaurato l’ordine precedente: il papa fece però appello alle potenze cattoliche affinché gli fosse restituito il suo dominio e la risposta venne da diversi Stati, fra cui la Francia, la quale inviò un gruppo militare, il quale riusciì ad occupare Roma.
Con la repressione della rivolta romana rimasero due zone rivoltose in Europa: l’Ungheria e Venezia che, in entrambi i casi, furono riconquistati dall’Austria. Le cause del fallimento del movimento rivoluzionario sono da ricercarsi nelle profonde divisioni che vi erano fra i gruppi liberal-moderati e quelli democratico-radicali: i primi, per timore della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie classi dirigenti, le quali non faticarono ad avere ragione dei democratico-radicali, i quali fra l’altro non avevano un ampio consenso di base. Di certo però i moti rivoluzionari del ’48 lasciarono ben radicata la convinzione che bisognava aumentare la base della partecipazione politica e che gli ideali di nazionalità dovevano diventare preminenti nel panorama politico europeo.
Il fallimento dell’alternativa repubblicana
Il fallimento dei moti rivoluzionari del 1848-49 non modificarono minimamente le strategie di Mazzini e dei suoi seguaci, sempre più convinti che l’Unità d’Italia si sarebbe potuta raggiungere solo dal basso, con un moto rivoluzionario democratico e con la più ampia partecipazione popolare possibile.
Mazzini si adoperò in tutto il possibile per ricostruire la sua rete cospirativa, ma il risultato fu un fallimento: la polizia austriaca arrestò nel 1851-52 molti esponenti mazziniani e molte furono le condanne capitali. Nonostante questa decapitazione della sua organizzazione Mazzini proseguì ugualmente nella sua iniziativa insurrezionalista: nel febbraio 1853 ci fu un tentativo di rivolta ad opera di alcuni operai e artigiani, ma questo tentativo fu facilmente represso e vi furono ulteriori arresti e condanne a morte. Mazzini nonostante questo ennesimo fallimento non modificò la sua strategia: convinto che le cause fossero da ricercare nelle carenze organizzative della sua organizzazione fondò il Partito d’Azione. Mentre Mazzini si stava riorganizzando all’interno del dibattito dei democratici italiani si sollevarono critiche all’opera di Mazzini: alcuni sostenevano che doveva collaborare di più con la parte moderata interessata all’Unità, altri d’altro canto contestavano a Mazzini la scarsa attenzione che egli aveva per i problemi sociali.
Contemporaneamente un rivoluzionario italiano, Carlo Pisacane, sosteneva che il Sud era il terreno ideale per scatenare la rivoluzione: non c’era una forte classe borghese e i contadini avrebbero accolto con sicuro favore gli intenti riformistici di Mazzini e Pisacane. Questi due rivoluzionari cominciarono dunque a collaborare fra loro e fu organizzata una spedizione di rivoltosi al Sud, destinata a sbarcare a Sapri: a questo punto però non si verificò nessuna delle condizioni previste da Pisacane e Mazzini. I contadini non collaborarono con i rivoltosi, anzi si rivelarono ostili e quindi la spedizione fu facilmente individuata e annientata dalle truppe borboniche. La disfatta di Sapri coincise con la nascita della Società nazionale, organizzazione filo-sabauda che univa democratici e moderati nel comune scopo di raggiungere l’Unità.
Il decennio di preparazione 1849-1859
Nel decennio di preparazione all’Unità d’Italia la stampa di giornali periodici ebbe un’importanza fondamentale, poiché preparò l’entroterra culturale attraverso cui si potè verificare l’unificazione italiana. Per la loro natura di essere rivolti al pubblico, essi contengono al loro interno articoli di interesse generale: a partire dal Settecento essi furono stampati in grande quantità e nell’Ottocento si diffusero molto in Italia, sebbene l’alto tasso di analfabetismo allora presente fra la popolazione. Nell’Ottocento si diffusero molto le riviste politiche: nella sola Milano arrivarono ad essere più di quaranta ma, con la censura napoleonica e poi quella della Restaurazione, la loro diffusione venne pesantemente ostacolata.  La 1° guerra di indipendenza fallì e il ritorno austriaco fu accompagnato da una reazione repressiva molto dura, tanto che molte delle riviste politiche di Milano vennero chiuse. Mazzini allora tentò di ripetere le cinque giornate di Milano, ma il tentativo fu sventato e la repressione fu durissima. I più importanti quotidiani presenti in Milano erano:
–“L’eco della borsa” parlava della vita quotidiana di Milano, in particolare delle condizioni igieniche della città ed ebbe una larga diffusione fra i milanesi.
–“Il Crepuscolo” fu un giornale particolarmente importante nel decennio di preparazione. Esso era un’opera collettiva volta a contrastare la frantumazione morale derivante dal fallimento dei moti del ’48. Esso fu definito il miglior giornale d’Italia da parte di Cattaneo. Aumentò nel corso degli anni anche il numero degli abbonati.
Accanto alla stampa repubblicana vi era anche una stampa austriaca, soprattutto con sede a Brescia. Questo tipo di stampa tendeva a contrapporre le classi contadine a quelle ricche, allo scopo di creare un clima di scontro che giovava molto al potere austriaco. A tal proposito Nievo sosteneva che non si sarebbe mai raggiunta l’Unità finché non si fosse colmato il gap culturale fra la popolazione rurale e quella urbana.
Per quanto riguarda l’ambito tecnico-scientifico era ormai palese a tutti che l’Italia Unità avrebbe dovuto recuperare molto rapidamente il ritardo accumulato rispetto alle altre maggiori potenze europee in termini di produzione industriale. I tempi moderni sono caratterizzati dalla rapidità con cui le innovazioni vengono inventate e applicate ai processi industriali, per cui è essenziale adeguarvisi se si vuole continuare a rimanere competitivi sul mercato. A tal fine si organizzarono manifestazioni in cui vengono esposti prodotti industriali e poi vengono organizzate anche le prime scuole chimiche o anche a carattere scientifico. Furono poi molto frequentati anche i congressi scientifici e tecnici.
La seconda guerra d’Indipendenza
Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, non aveva come obiettivo nei primi anni del suo governo l’Unità d’Italia, da lui stesso giudicata irrealizzabile, ma semplicemente un allargamento dei confini piemontesi a danno dei domini austriaci e degli Stati minori del Nord Italia.
Perseguendo tale direzione Cavour partecitò alla Guerra di Crimea, mandando un corpo di spedizione e ottenendo così il diritto a partecipare ai negoziati internazionali a cui avevano diritto a partecipare gli Stati vincitori del conflitto. In questa sede Cavour sollevò la questione italiana, in particolare come la censura austriaca, il malgoverno dello Stato pontificio e delle Due Sicilie era una causa costante di tensioni nella Penisola. Dopo la partecipazione al Congresso di Parigi Cavour si convinse che l’unico modo per conseguire i suoi obiettivi consisteva nello sfruttare l’aiuto dell’unica potenza interessata alla modifica dell’equilibrio: la Francia. Cavour e l’imperatore francese Napoleone III si incontrarono a Plombieres stipulando una segreta alleanza militare, la quale prevedeva l’intervento militare francese solo in caso di attacco austriaco.
Si trattava a questo punto di causare la dichiarazione di guerra da parte dell’Austria: Cavour fece concentrare vicino al confine con l’Austria delle truppe, il che provocò la reazione del governo austriaco con l’emissione di un ultimatum. Il Piemonte lo respinse e così vi fu lo scoppio della guerra: le truppe franco-piemontesi ottennero una rapida serie di vittorie, ma l’opinione pubblica francese spinse l’imperatore Napoleone III a stupilare un armistizio con l’Austria, la quale cedeva la Lombardia alla Francia, che fu data poi al Regno sabaudo. Le Legazioni Pontificie, il Granducato di Toscana e i Ducati di Modena e di Parma però insorsero e scelsero la via dell’unificazione al Regno di Sardegna attraverso il plebiscito: questo stato di fatto fu accettato dall’imperatore francese a seguito della cessione di Nizza e Savoia alla Francia.
Nel contempo vi fu il tentativo da parte dei democratici di conquistare il Sud Italia, evitando spedizioni contro lo Stato pontificio per le prevedibili complicazioni internazionali che ciò avrebbe comportato. Nel Maggio del 1860 un migliaio di uomini sbarcarono in Sicilia e progressivamente respinsero gli attacchi delle truppe borboniche, che furono costrette a ritirarsi prima dalla Sicilia, per poi risalire sempre più a Nord sul continente. L’impresa di Garibaldì riusciì con la presa di Napoli e il relativo suo ingresso trionfale nella città il 6 settembre: questo successo provocò la preoccupazione di Cavour, il quale intravedeva il pericolo di una svolta democratica dei rivoluzionari guidati da Garibaldi e quindi la formazione di uno Stato indipendente e repubblicano nel Sud Italia. Cavour chiese quindi il permesso a Napoleone III di invedere le Marche e l’Umbria togliendole allo Stato della Chiesa per poter raggiungere Garibaldi e i suoi uomini: l’imperatore acconsetì e così le due regioni furono strappate allo Stato Pontificio nella battaglia di Castel Fidardo. Le truppe volontarie di Garibaldi e quelle piemontesi si incontrarono a Teano, località in cui Garibaldi consegnò la responsabilità dell’amministrazione delle province liberate al re Vittorio Emanuele II: l’Unità d’Italia fu proclamata il 17 marzo 1861.
Il completamento dell’Unità
Diverse zone abitate da popolazioni a lingua italiana non erano ancora incluse nei confini politici del Regno d’Italia: il Trentino, la Venezia-giulia, il Veneto e il Lazio. Soprattutto il Lazio e Roma era nelle mire dei governi unitari per quanto riguarda l’annessione: si presentò però l’occasione di annettere il Veneto, a seguito dell’espansione della Prussia nell’Europa settentrionale, che la portò inevitabilmente a scontrarsi con l’Impero Asburgico. Il cancelliere tedesco Bismarck richiese l’aiuto dell’Italia, in cambio di cessioni territoriali in caso di vittoria: la guerra contro l’Austria si risolse in un clamoro insuccesso da parte dell’esercito italiano, nonostante la superiorità di uomini,  ma comunque la Prussia riusciì a vincere e quindi l’Italia ebbe in cambio il Veneto.
L’annessione del Lazio si sarebbe verificata solo a seguito del tracollo francese a seguito della guerra franco-prussiana del 1870: con la caduta dell’Impero francese.