L’Insorgenza italiana, il suo significato, la sua «modernità»

L’Insorgenza italiana, il suo significato, la sua «modernità»

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L’Insorgenza rappresenta la risposta — almeno nella sua forma primitiva e immediata — degli italiani alla crisi prodotta dal cambiamento portato dalla prima e forse più rude esperienza di modernità politica fatta dai popoli della Penisola fra il 1796 e il 1815, e funge in un certo senso da «cartina al tornasole» della pre-esistenza, con caratteri del tutto originali, di una nazione italiana al processo della sua unificazione politica. Infatti, quando un organismo reagisce di fronte a germi nuovi e potenti, ciò significa che l’organismo è vivo e vitale. Fuor di metafora, fin dai primi segnali che una Rivoluzione scoppiata in Francia può coinvolgerli, gl’italiani reagiscono.
Reagiscono, soprattutto, quasi ovunque e in maniera spontanea, quando le armate francesi repubblicane varcano le Alpi, invadono le contrade italiane e impongono la traduzione in pratica, manu militari, del trinomio «Libertè, Egalitè, Fraternitè» che racchiude la lettera e lo spirito della Grande Rivoluzione.
Reagiscono di fronte all’intento ultimo, che vedono trasparire dalle mosse dell’occupante — e di qui si dipana quel «filo rosso» che lega fra loro i vari eventi e momenti del processo risorgimentale che culminerà con la Breccia di Porta Pia —, di «[…] rigenerare l’Italia [ed] estinguere la fiaccola del fanatismo in Italia, distruggendo il centro dell’unità romana», come si esprimerà il Direttorio in una lettera al generale Napoleone Bonaparte nel 1797.
Reagiscono allorché comprendono che la «rigenerazione», predicata e imposta dal nuovo dominatore, comporta in primo luogo la dissoluzione in breve tempo o a lungo andare di assetti sociali ed economici plurisecolari — contestati magari con asprezza, ma considerati come la normalità —, il mutamento di regole e di costumi profondamente consoni all’indole e alle consuetudini del popolo, il tramonto definitivo di istituti religiosi e civili antichi, cui gli italiani erano materialmente e psicologicamente attaccati.
Reagiscono di fronte alla realtà, inaspettata e sconvolgente, di una conquista militare violenta, rapace e venata di empietà.
Reagiscono assistendo alla «messa in liquidazione» di antiche classi dirigenti e di dinastie sovrane e della loro sostituzione con i parvenu borghesi e con gli esponenti del servile utopismo politico «giacobino».
E la reazione è violenta, si sprigiona immediatamente e ostinatamente, a più riprese. Di essa sono protagoniste soprattutto quelle componenti del corpo sociale — le classi popolari —, che più erano rimaste immuni dall’infiltrazione da parte dei «lumi» nel corso del XVIII secolo, e che più risentivano dello smantellamento dell’edificio sociale tradizionale con tutti i suoi classici «ammortizzatori sociali».
Così, tra il 1796 e il 1799, dopo la sconfitta dell’esercito sardo in una dura guerra durata cinque anni, la cosiddetta guerra «delle Alpi», le scarse truppe dei principi italiani non frappongono neppure ostacolo all’avanzata delle armate bonapartiste, anzi si lasciano disarmare con facilità e prontezza, mentre la nobiltà, l’alto clero, i patriziati municipali aderiscono con entusiasmo al regime nascente oppure cercano con esso il compromesso, accettando miopemente di «cedere per non perdere»: talora cercando di cogliere, come i manzoniani polli di Renzo, l’occasione per liquidare antiche rivalità con i municipi vicini.
Le popolazioni italiane, nelle campagne e nelle città, viceversa, si ribellano in ogni luogo al nuovo stato di cose e insorgono spontaneamente in armi contro i nuovi dominatori e contro gli esponenti della minoranza che li ha accolti come liberatori. Contadini e coloni, braccianti rurali, barcaioli, artigiani e operai, militi civici, addetti a mestieri che oggi non esistono più — cavallanti, mulattieri, valletti e tanti altri —: tutto un universo sociale si scaglia spontaneamente e talora a testa bassa contro i cannoni e la cavalleria del più potente esercito europeo, dando prova di un eroismo in talune occasioni disperato — come fu per la plebe napoletana nel gennaio del 1799 — e imprevisto. Napoleone Bonaparte nella sua corrispondenza più volte confessa di temere, più che gli austriaci o gli inglesi, di trovarsi di fronte nell’Italia Settentrionale a un’insorgenza generalizzata, a una nuova, ben più vasta «Vandea», che ponga i suoi eserciti tra due fuochi. L’Insorgenza — che si era già manifestata tra i montanari piemontesi e liguri durante la guerra «delle Alpi»fra il 1792 e il 1796 — esplode fin dai primi mesi del 1796 a Milano, a Pavia — che viene bombardata e saccheggiata —, a Como, a Varese, in Valle Scrivia, nella Garfagnana estense, a Lugo di Romagna. L’anno seguente insorgono il Montefeltro e le Marche; poi le valli bergamasche e bresciane, fino alla riviera occidentale del lago di Garda. A Verona, nell’aprile 1797, popolani e contadini, si sollevano, guidati da qualche patrizio, danno vita alle cosiddette «Pasque Veronesi».
Nel 1798, insorgono la Liguria orientale e la Valtellina, mentre, di fronte all’invasione completa degli Stati pontifici da parte dei francesi, si ribellano ancora le Marche, poi l’Umbria e il Lazio, fino ai confini con il Regno di Napoli. Già dal dicembre del 1798 e, poi, per tutto il 1799, quando il Regno borbonico cade anch’esso sotto il dominio francese, tutto l’Abruzzo è in fiamme; poi è la volta di Napoli, che viene difesa strenuamente dai «lazzari» contro l’irruzione dei francesi. La riconquista del Regno di Napoli a partire dalla Calabria ad opera dell’Esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo, nel 1799 coinvolge nell’insurrezione l’intera Italia Meridionale. Quell’anno l’insorgenza popolare e le truppe della seconda coalizione riescono a prevalere e a ricacciare i francesi oltralpe, dando vita alla cosiddetta «reazione austro-russa» del 1799-1800.
Sotto la spinta delle sconfitte dei generali francesi — mentre Napoleone Bonaparte si trova in Egitto —, l’insorgenza si riaccende nei luoghi dove già si era manifestata nei primi mesi dell’occupazione, per esempio in Piemonte, dove si costituisce una numerosa «Massa Cristiana», composta di contadini, alla cui testa si pone l’enigmatica figura del maggiore lombardo dell’esercito imperiale Branda de’ Lucioni, la quale da sola assedia e poi libera Torino a fianco delle truppe della coalizione, guidate dal generale russo Alexsandr Vasilievic Suvarov.
Nel 1799, insorge anche Arezzo, le cui milizie, «l’inclita armata aretina», al grido di «Viva Maria!», giungeranno a liberare gradualmente tutta la Toscana — entrando in Firenze il 7 luglio — senza l’aiuto austriaco, dando vita a un governo provvisorio che si manterrà fino ai primi mesi del 1800. Il ritorno impetuoso dei francesi dopo la battaglia di Marengo e il relativo radicamento del regime creato da Napoleone negli anni dal 1800 al 1814, pur creando un contesto meno freneticamente rivoluzionario e operativamente più difficile, non disarmano la reazione popolare. Fenomeni nuovi come la leva obbligatoria e la maggiore ingerenza burocratica e fiscale del nuovo stato nella vita sociale, così come le mutevoli sorti della guerra europea, portano in diverse zone a nuove più vaste insurrezioni negli anni 1805 — l’Appennino emiliano, 1806 — il Meridione e, soprattutto, le Calabrie —, 1809 — le Romagne e in grande stile il Trentino-Tirolo —, fino alla decomposizione dei regni napoleonici nel 1814-1815.
Solo la mancanza di una élite dirigente all’altezza della situazione, la natura del territorio, la frammentazione delle sovranità, l’inquinamento dovuto alle rivalità campanilistiche, l’esiguità dei mezzi disponibili, l’opportunismo dei suoi teorici alleati impediscono all’Insorgenza italiana di vincere e di ricacciare l’invasore al di là delle Alpi. La partecipazione popolare alle insurrezioni e alla guerriglia — un termine (guerrilla) che nasce proprio in Spagna negli anni della grande insorgenza popolare anti-napoleonica 1808-1813 — fu massiccia, una partecipazione che né i moti e né le battaglie campali del Risorgimento — soprattutto in termini di vittime —, conobbero.
Quella che oppone i popolani ai francesi e ai rivoluzionari giacobini è una lotta dura e non di rado feroce, costellata di violenze, imboscate, rappresaglie ed eccidi, in particolare nell’Italia Meridionale. Stupisce vedere povera gente prendere le armi più e più volte, anche quando è stata oggetto di repressioni feroci e sanguinose da parte della più forte armata europeo e delle milizie «italiche» da esso impiegate nelle operazioni di rastrellamento contro coloro che venivano sbrigativamente definiti, come in Vandea, brigands. All’inizio del 1799 — quindi prima ancora che avvenissero gli scontri e le battaglie più importanti dell’Insorgenza — le vittime tra gli insorgenti, secondo il calcolo del generale francese Paul-Charles Thiébault, uno dei comandanti delle truppe di repressione dei moti nell’Italia Centrale, sono già più di sessantamila. L’Insorgenza italiana è fatta di rapide vampate, di vasti ma brevi incendi, di ritorni di fiamma, conosce stati di latenza, di esplosione, di endemizzazione; vanta battaglie campali, ma anche imboscate, rappresaglie, vendette personali, atrocità; conta innumerevoli episodi, piccoli e grandi, nella loro maggioranza ancora poco conosciuti.