Maria Carmela

LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 18° episodio MARIA CARMELA, A MORTE PURE LEI.
di Valentino Romano (*)

Ripacandida, gennaio del 1862.
Nel numero precedente della Rubrica ho portato all’attenzione dei lettori la triste vicenda di Maria Teresa Di Genova. Ma sorte altrettanto crudele fu quella a cui, si lì a poco, andò incontro una sua sorella, Maria Carmela.
Lo scenario è pressappoco lo stesso, i tempi si discostano di poco: Crocco si è reso lucidamente conto che la rivolta è destinata al fallimento, che la borghesia latifondista lucana, sua prima e occulta sostenitrice, ha abbandonato ogni progetto di restaurazione filo murattiana e sta inciuciando con i conquistatori, tentando di rifarsi un’apparente verginità politica; Borges, unico vero partigiano del legittimismo europeo, è stato abbandonato al proprio destino che proprio in questi giorni prende le sembianze fatali di un oscuro ufficiale dei bersaglieri che si incaricherà di farlo scomparire definitivamente dalla scena.
La torma di uomini e donne che ha inseguito un pur confuso sogno di riscatto personale e sociale si disperde in mille rivoli. Ai pochi ribelli irriducibili non resta altro che la via della macchia, nel tentativo improbabile di sfuggire alla repressione e alla “giustizia” del vincitore, rifugiandosi nella latitanza. Uno di questi è Michele Di Biase, di Ripacandida che si aggira nelle campagne e nei boschi circostanti il suo paese, portandosi dietro tutto ciò che gli è rimasto, un figlio e una moglie. Quest’ultima è Maria Carmela.
L’8 gennaio una compagnia di soldati ungheresi del 1° Battaglione Cacciatori, in appoggio al 62° Reggimento Fanteria della Brigata Sicilia, guidata dal luogotenente Domonkosz, localizza in una grotta nei dintorni del paese Michele e la sua famigliola. Due uomini che erano con loro riescono a fuggire: Michele resta intrappolato con Maria Carmela e con il figlio dodicenne, Donato: sa bene di che pasta sono fatti questi mercenari stranieri la cui efferata crudeltà può ben essere paragonata ad altre formazioni di cui la cronaca internazionale si sta occupando proprio in queste settimane; si difende accanitamente, difende tutto ciò che gli è rimasto. Ma è lotta impari, presto Michele viene sopraffatto da questi barbari che non fanno prigionieri e resta sul terreno. Dice un rapporto sull’accaduto un rapporto stilato dal Comando del 62° che “Michele Di Biase fu incapace di resistere al trasporto e di dire qualunque parola e morì sul luogo”. È il classico rapporto contenente una verità seppellita da un cumulo di menzogne. Sono andati veramente così i fatti? Per saperlo bisogna sempre frugare altrove nelle carte d’archivio e, nel caso di specie, nei rapporti degli ufficiali comandanti quella manica di assassini prezzolati stranieri: bisogna incrociare i dati e le informazioni, insomma. E, avendolo io fatto, la verità celata viene presto a galla, impietosa e crudele: Michele è stato gravemente ferito nello scontro a fuoco, è agonizzante, non può parlare e, quindi, potendo fare rivelazioni di sorta, non è di nessuna utilità, viene finito, ammazzato a freddo. Una mia supposizione figlia della mia riconosciuta avversione per tutti i mercenari? No, un’esplicita ammissione dello stesso comandante di quegli aguzzini, il capitano Felich (ne riporto il nome perché non se ne perda memoria, com’è giusto che sia per tutti coloro che si sono macchiati di crimini di guerra)! Il ributtante candore della sua dichiarazione, nel confermare quanto ho appena sostenuto, denota tra l’altro l’abitudine, l’assuefazione di questa genia di mercenari al crimine di guerra: “era in tal modo mortalmente ferito che non poteva più fare alcuna dichiarazione e non si poté trasportare; perciò, fui costretto di fucilarlo”.
Fin qui la vicenda di Michele. E la moglie e il figlio?
È sempre Felich che ci viene in soccorso: “La moglie, nominata Carmela Di Genova era una donna, la quale vestita da uomo e armata di fucile e stile commise a Ruvo i più atroci delitti. Per esempio, essa uccideva tutte le donne incinte dicendo che bisognava distruggere la razza che potrebbe danneggiare Francesco II …”. Questa delle donne del brigantaggio che se ne sarebbero andate in giro sventrando donne incinte e estirpandone i feti è ricorrente leggenda metropolitana funzionale alla demonizzazione dell’avversario e alla giustificazione della sua eliminazione fisica: ora che, in tutte le guerre, quando salta ogni regola, e in particolare in questa che è più sporca di tante altre, si siano commesse atrocità indicibili, ci sta pure, riconosciamolo; ma che tutto ciò diventi ( com’è accaduto) un topos letterario e storiografico che accomuna tutte le donne del brigantaggio è davvero inconcepibile. Ad ogni modo, seguiamo le ultime ore di Maria Carmela, affidandoci sempre ai rapporti: la donna riesce a sfuggire provvisoriamente al plotone d’esecuzione, dichiarandosi disposta a fare importanti dichiarazioni, addirittura di far catturare Crocco stesso. Per questo motivo viene portata a Ripacandida. Qui, però, stando sempre al capitano Felich, “a qualunque costo non vuole più dire nulla”. Per tali motivi, conclude il mercenario, viene fucilata. Bah! Non è che, più verosimilmente, la donna sia stata risparmiata provvisoriamente nel tentativo di estorcerle chissà quali informazioni e che, non avendone cavato un ragno dal buco, si sia deciso di chiudere sbrigativamente la “pratica”? A me pare di sì, ma lascio il giudizio anche a chi legge.
C’è un altro dettaglio che non va trascurato: la piazza è comandata da un ufficiale del 62° del Regio Esercito; è lui, insomma, che ha il potere ultimo di decidere le sorti della donna. Com’è allora che nel suo rapporto sostiene che, a causa dell’ostinato rifiuto della donna a collaborare, il capitano ungherese ne ordina l’esecuzione? E lui che ci stava a fare, la bella statuina? La verità pare un’altra: il Regio Esercito non ama macchiarsi pubblicamente del sangue di una donna. Meglio affidare i lavori sporchi ad altri, peraltro ben felici di farli.
In questa vicenda manca, però, un’altra persona: Donato, il figlio di Michele e Maria Carmela; che fine avrà fatto? Presto detto, sempre grazie ai famosi rapporti: “… sta nelle carceri e sarà spedito a Potenza con altri briganti … ”.
Come, possibile che pure un ragazzino di dodici anni sia un brigante?
Eh, non si può escludere! Questi cafoni contadini-ribelli son capaci di tutto, meglio liberarsene. Con tutti i mezzi.
La nota “positiva” di questa triste storia sarebbe una sola: il povero Donato finisce nelle carceri di Potenza, brigante tra i briganti, ma, a pensarci bene, poteva anche andargli peggio. O no? Secondo me no! Cosa ci può essere, infatti, di peggio del portarsi dietro, per tutto il resto dell’esistenza, il dramma di due genitori assassinati come agnelli sacrificali sull’altare della “nuova Italia”?
Buona domenica e alla prossima, amici.

(*) Promotore Carta di Venosa

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